Interviste
03 Aprile 2017

A lezione da Mister Condò

Lunga chiacchierata con un punto fermo del giornalismo sportivo italiano.

Abbiamo avuto il privilegio di intervistare Paolo Condò. L’occasione era di quelle troppo ghiotte per non porre un discreto numero di domande, che, tuttavia, sono ontologicamente insufficienti quando si è al cospetto di uno dei maggiori giornalisti sportivi del panorama europeo. Grande studioso ed esperto di calcio, anche internazionale, da anni è l’unico giurato italiano per il Pallone d’Oro. Firma di punta della Gazzetta dello Sport, è poi passato a Sky, dove ha messo a disposizione del grande pubblico intelligenza, approfondimento e professionalità.

Con il passaggio a Sky sei diventato un giornalista principalmente televisivo (collabori comunque ancora con la Gazzetta e con Rivista Undici). A tal proposito volevo chiederti: ad alti livelli di giornalismo è più gratificante essere ascoltati o essere letti?

E’ la stessa cosa, cambia davvero poco. Certo, la televisione ti porta la grande popolarità. Mi fa piacere essere riconosciuto per strada o al ristorante e per fortuna ancora non ho incontrato – e spero di non incontrarle mai – persone che mi vogliono insultare (ride). Più in generale, la sensazione di aver fatto un buon lavoro o viceversa di non aver dato il massimo – a volte capita anche questo – è la stessa, che si tratti di TV o di carta stampata. Naturalmente la percezione di raggiungere delle persone è molto più forte in TV, direi almeno un venti a uno. La cosa mi ha colpito perché io continuo a essere un vorace consumatore di giornali, mentre alcune dinamiche del web suggeriscono una tendenza generale di segno opposto. Esclusa, infatti, una parte di pubblico di una certa età, poco ‘social’ e che legge ancora, per fortuna, la carta stampata, c’è una grossa fetta di utenza, quella giovane e destinata perciò inevitabilmente a crescere, che invece preferisce informarsi sul web. Ti faccio un esempio che forse offre la misura di questo concetto: quando esce la mia rubrica sulla Gazzetta, il sabato, sul mio profilo twitter ricevo al massimo 3-4 commenti da parte delle persone che l’hanno letta; invece, nel momento in cui – di regola una volta al mese – pubblico direttamente la foto dell’articolo, le interazioni dei miei followers diventano anche centinaia. Questo per dire che evidentemente le persone sono interessate alla mia opinione su un determinato argomento, tuttavia non sono disposte a comprare il giornale. Il problema dell’editoria è proprio quello di riuscire a calamitare l’attenzione dei giovani e, in questo senso, trovo che il giornalista moderno abbia l’obbligo di interfacciarsi con il pubblico, capire cosa vuole e, nella giusta misura, darglielo. Purtroppo prendo atto che molti giornalisti non sono interessati a costruirsi un’identità digitale e sembrano ormai rassegnati all’idea di estinguersi.

Non ti manca un po’ l’ansia da dead line da inviato sul campo?

Un po’ sì. Come diceva Seba (Sebastiano Vernazza, ndr) nella sua intervista, quella è vita vera. Il fatto di dover raggiungere un compromesso e di non poter dedicare più di venti secondi alla ricerca di un aggettivo che descriva al meglio una determinata situazione è una botta di adrenalina stupenda. Però, a dirti la verità, è un tipo di nostalgia che provo solo per le grandi sfide. Come il clasico, ad esempio. Negli ultimi anni ne avevo raccontati ben ventotto (è uno di quei numeri che ho ben in mente perché ne vado orgoglioso). Certamente adesso è più comodo seguire le partite da casa, però era bello, molto bello, seguire quelle sfide dalla tribuna stampa. D’altra parte ho scelto consapevolmente di cambiare mestiere, non sono più un cronista ma un commentatore: un’evoluzione logica considerati gli anni passati sul campo e le esperienze accumulate. Quando hai visto dal vivo 7 Mondiali e 5 Europei le tue opinioni per forza di cose non sono campate in aria, ma poggiano su una solida base, che poi è quella che interessa a Sky: avere in studio persone che ne sanno più degli altri, perché l’hanno imparato in tribuna oppure in campo.

Il tuo programma Mister Condò sta avendo molto successo. In base a quali criteri scegli di intervistare un allenatore piuttosto che un altro, e quanto tempo impieghi nella ricerca dei vari elementi di contorno, dalla musica al cinema passando per la politica?

Innanzitutto è un lavoro di squadra. Le persone che lavorano con me sono di una bravura sconfinata. Cito due fuoriclasse: Leo Muti, il regista, che si occupa delle musiche, della linea, delle riprese e così via; e Sara Cometti, la quale oltre a curare l’organizzazione generale mi prepara le Mistery Box, per dirla alla Masterchef, ossia degli elenchi di eventi che tagliano in maniera trasversale un determinato anno, ad esempio tutto ciò che di rilevante è avvenuto nel 2006. A quel punto, io, proprio come uno chef, scelgo gli ingredienti (non tutti, alcuni restano nella scatola) a mio modo di vedere più funzionali alla realizzazione della puntata. I tempi miei sono piuttosto rapidi: un giorno per preparare l’intervista e un altro giorno per scrivere i raccordi usando la mistery box, e di mezzo c’è, appunto, l’intervista. Il mio lavoro finisce lì, del montaggio se ne occupano gli altri membri della squadra. Le puntate hanno la durata di cinquantaquattro minuti di cui i quaranta effettivi per l’intervista sono ricavati da un totale di circa un’ora di girato. Questa almeno è la regola, perché Mihajlovic fu meravigliosamente torrenziale: parlò per due ore e mezza creandomi qualche disagio con la troupe in fase di montaggio (ride). Per quanto riguarda invece la scelta dell’allenatore i criteri sono: attualità, bacino d’utenza e disponibilità. Molti allenatori pur bravissimi, in questo senso sono penalizzati dall’allenare una squadra con poco seguito: penso a Maran del Chievo, a cui auguro di andare presto in una grande squadra. Paradossalmente sarebbe più funzionale alla trasmissione intervistare Gattuso o Pippo Inzaghi, perché anche se non allenano in serie A sono due personaggi che esercitano un forte richiamo. E’ vero, anche il Sassuolo non ha questo grande bacino d’utenza, però Di Francesco è un nome sulla bocca di tutti, le grandi squadre sono interessate a lui, aveva giocato l’Europa League e quindi generava interesse per l’intervista. Con gli allenatori dal fortissimo appeal è un discorso di disponibilità: Sarri l’ho inseguito per un anno, Spalletti lo sto ancora inseguendo, Allegri forse riuscirò ad intervistarlo entro la fine della stagione.

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Sinisa Mihajlovic in un’intervista estremamente umana (non a caso, sforando i tempi tecnici)

Tu sei l’unico giornalista italiano a votare per il Pallone d’Oro oltreché un grande esperto di calcio internazionale. Volevo chiederti se la passione per i campionati esteri può degenerare in esterofilia oppure se, al contrario, allargare gli orizzonti consente di apprezzare in maniera più puntuale quelli che sono pregi e difetti del calcio italiano.

Sono vere entrambe le cose. Dal 2006 al 2011 ho raccontato la Champions League delle squadre europee fino alle semifinali, in quanto per questioni gerarchiche la finale spettava al Alberto Cerruti. Andato in pensione Cerruti, dal 2012 è toccata a me anche la finale (Bayern-Chelsea). Ecco, forse in quel periodo mi sono un po’ ammalato di esterofilia (ride), o meglio ero consapevole del rischio che correvo, per cui cercavo di non esagerare, anche se probabilmente qualche volta ho esagerato. Devo dire che da quando sono passato ad occuparmi del campionato italiano, per Sky, è stato piuttosto facile riappropriarmi della materia. In ogni caso l’apertura internazionale per chi fa il nostro lavoro è tutto, è la cosa fondamentale. Io parlo decentemente due lingue straniere, l’inglese e lo spagnolo, ma leggo anche in francese e in portoghese.

Nei pezzi su SportWeek spesso commenti (o citi) articoli o libri dei tuoi colleghi europei. Quanto tempo dedichi mediamente alla lettura della stampa estera nonché alla lettura in generale? In parte già mi hai risposto…

Come detto allargare gli orizzonti è fondamentale, per cui tra siti, giornali e riviste, tra stampa italiana ed estera, dedico alla lettura almeno quattro ore al giorno. Diciamo l’intera mattinata. Il mio compito professionale è sapere tutto ciò che si può sapere, e anche di più, perché quando dai delle opinioni devi essere inattaccabile dal punto di vista della conoscenza. Poi verrai comunque criticato da chi la pensa diversamente, com’è anche giusto: ma la critica dovrà sempre essere nel merito delle cose dette, e mai perché ignori qualcosa dell’argomento che hai trattato.

Passiamo adesso al tuo bellissimo libro Duellanti. Spesso gli scrittori utilizzano un’espressione un po’ banale: “scrivere è una necessità”. Però forse nel tuo caso è stato davvero così, dal momento che già avevi seguito quegli eventi del 2011 come inviato della Gazzetta. Sentivi la profonda necessità di raccontarli sotto un’altra luce? La veste del pezzo giornalistico era troppo stretta per quel tipo di emozioni?

Credo che Duellanti sia un libro molto giornalistico. Penso e spero di aver conferito una dimensione di romanzo-verità – lì dentro non c’è nulla che non sia realmente accaduto – a una fantastica sfida tra due grandissimi personaggi concentrata in pochissimi giorni. Poi, sai, noi siamo quello che leggiamo, la musica che ascoltiamo, i film che andiamo a vedere. Anche il rimando al film di Ridley Scott (I Duellanti, 1977) non è casuale. Secondo me l’abilità sta nella capacità di unire i puntini e di fare i collegamenti. Sicuramente con il libro non ho avuto il problema dello spazio, laddove invece con il pezzo giornalistico oltre una certa misura non si può andare, perciò mi sono concesso tutta una serie di divagazioni per far conoscere due personaggi estremamente interessanti. Al mondo non ce ne sono tanti, eh, quindi quando hai la fortuna, come è capitato a me, di conoscere abbastanza bene due tipi del genere vale la pena raccontarli e narrarli. Il fatto che non abbia mai nascosto la mia preferenza per Guardiola non vuol dire che non apprezzi anche Mourinho. Anzi, l’ammirazione che nutro verso il portoghese è sconfinata. Io rifuggo molto dalla logica del tifo. Troppo spesso nel calcio si è portati ad odiare gli avversari. Io non mi riconosco in questa logica, è quanto di più lontano da me possa esserci. Personalmente il mio approccio allo sport è di tipo anglosassone: nei novanta minuti do tutto me stesso per vincere, dopodiché al fischio finale a prescindere dal risultato stringo la mano al mio avversario. Perché lo ritengo un valore da preservare, non un nemico da abbattere: mi è necessario per migliorarmi. Diciamo che per mia fortuna nella vita ho raggiunto gli obiettivi che mi ero prefissato, perciò non sono un tipo frustrato né polemico. Invece mi rendo conto che altre persone che non hanno avuto questo mio privilegio individuano nel calcio uno sfogatoio della loro rabbia. E questo mi dispiace.

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Lettura consigliata

E nell’epoca dei social network questo triste fenomeno è divenuto dilagante…

Sì, è assolutamente dilagante. Tra le altre cose, non sopporto nemmeno di essere “tirato per la giacchetta”, ossia ogniqualvolta accadono dei fatti forieri di polemiche alcuni tifosi vogliono per forza di cose tirarmi dalla loro parte e farmi esprimere giudizi affrettati e negativi nei confronti di una società piuttosto che di un’altra, e quindi alimentare rabbia e insulti. Quando poi il giornalista deve essere terzo, quasi come un arbitro. I tifosi si incazzino pure, ma un giornalista di alto livello, a mio modo di vedere, prima di esprimere un’opinione anche dura deve accertarsi della veridicità dei fatti di cui si discute, se non vuole incorrere in clamorose retromarce.

Hai in mente di scrivere altri libri?

Scriverò certamente altri libri, ma trattandosi di tempo libero – a darmi da vivere resta il giornalismo – la conditio sine qua non è che mi diverta a farlo. Questo per dire che mi ronzano in testa i progetti più diversi: per esempio mi piacerebbe raccontare un Giro d’Italia come un romanzo, ma a patto di viverlo nella carovana, esperienza che ho fatto e che in assoluto è la più divertente della mia carriera. A Sky tormento quotidianamente i miei capi implorandoli di acquisire i diritti del ciclismo… invece non potrei scrivere un sequel di Duellanti perché in questi mesi non ho vissuto a Manchester, e del duello rinnovato fra Guardiola e Mourinho conosco solo ciò che hanno scritto altri. Insomma, per me si racconta ciò che hai visto: è per questo che, anche quando scrivo libri, resto un giornalista.

Riguardo alle difficoltà che sta avendo Guardiola, secondo te è un problema ‘legislativo’ o ‘esecutivo’, cioè è l’Idea in sé del tiqui-taca ad essere in crisi (anche per ‘colpa’ dei Conte, dei Klopp, dei Jardim) o i risultati negativi sono fisiologici incidenti di percorso da cantiere aperto?

A meno di rimonte clamorose che tuttavia mi sento di escludere, questo è il secondo anno degli ultimi otto di lavoro in cui Guardiola non vince il campionato. Per cui trovo abbastanza bizzarro chiedersi se Guardiola sia finito, anche perché se Guardiola è finito il 99% degli allenatori non ha nemmeno mai iniziato. Detto questo, credo che ci sia una sorta di antipatia nei suoi confronti volta a sminuirne il valore. La frase che si sente spesso è “allora vinceva perché aveva Messi”. No, non è vero. Quel gioco lì, innovativo e che resterà nella storia, il Barcellona non l’ha più replicato nemmeno quando a Messi hanno affiancato Suarez e Neymar. Questo ostracismo nei confronti di Guardiola mi rievoca quello che all’epoca fu messo sul conto di Sacchi: “vinceva grazie agli olandesi”. La mia sensazione è che questo atteggiamento mascheri un’incapacità di accettare che qualcuno sia migliore di noi e realizzi qualcosa destinata a durare nel tempo e a generare delle ramificazioni, degli sviluppi. In questo senso io accomuno Guardiola a Cruijff, dal cui sistema di gioco è partito per poi apportarvi delle innovazioni importantissime, strepitose.

Anche per questo forse si è un po’ ingenerosi riguardo all’esperienza bavarese di Guardiola. D’accordo, non ha vinto la Champions, ma molti giocatori allenati da lui hanno conquistato il Mondiale in Brasile; in realtà c’è il suo zampino negli ultimi due titoli mondiali assegnati (Spagna e Germania), no?

Sì, è sicuramente così. Anch’io pensavo che vincesse la Champions con il Bayern e quindi da questo punto di vista un po’ mi ha deluso. Però tornando al concetto di tiqui-taca, ci tengo a sottolineare che quel tipo di gioco è morto a Barcellona. Perché sia al Bayern che al City (soprattutto ad inizio stagione), pur proponendo sempre un calcio offensivo e poco protetto in difesa basato sul cosiddetto “gioco posizionale”, il gioco di Guardiola è profondamente cambiato. Il tiqui-taca aveva un senso con Xavi e Iniesta, gente in grado di tessere una ragnatela di passaggi orizzontali per ipnotizzare gli avversari per poi, al momento giusto, assecondare il taglio del terminale offensivo, il giovane Messi dell’epoca. Ma negli ultimi anni, come detto, il gioco proposto da Guardiola è cambiato.

VILLARREAL, CASTELLON - APRIL 02: Head Coach Josep Guardiola of Barcelona give instructions to Andres Iniesta during the La Liga match between Villarreal and Barcelona at El Madrigal on April 2, 2011 in Villarreal, Spain. (Photo by Manuel Queimadelos Alonso/Getty Images)
Pep Guardiola e un pallone d’oro mancato di nome Don Andrès

In un recente tweet hai dichiarato di fare il tifo, quest’anno in Liga, per il Siviglia di Jorge Sampaoli interpretando quello che è un sentimento diffuso, un po’ come capitò per l’Atletico di Simeone. Ti chiedo: dal momento che gli appassionati di calcio devono molto storicamente a Real e Barcellona tale approccio non è una sorta di ‘irriconoscenza’?

Gli ho portato sfiga, dal momento che non ha più fatto un punto (ride)! No, non si tratta di irriconoscenza. Real e Barcellona hanno vinto e vinceranno ancora tanti campionati. Il fatto è che, da amante dell’NBA (dove le grandi squadre sono a tempo, si vedano le parabole dei Chicago Bulls e dei Lakers), non mi piacciono i tornei monotematici, come sta avvenendo in Italia negli ultimi anni, in Germania e in Liga (con il duopolio); vorrei che ci fosse più concorrenza, il che non vuol dire auspicare una perdita di potere da parte delle grandi. Tutt’altro. Vorrei solo che le squadre medio-piccole alzassero il loro livello di gioco. Per esempio in Italia la Juventus fa benissimo a cercare di migliorarsi anno dopo anno investendo i milioni di euro che le garantisce la partecipazione fissa alla Champions League. Certo, mi rendo conto che senza grossi investimenti per le altre sarà dura recuperare competitività, tuttavia talvolta anche le idee possono aiutare.

Secondo te, a proposito di NBA, l’inserimento dei play-off nel calcio non potrebbe favorire un’alternanza al comando e quindi incentivare in qualche modo la crescita dello spettacolo? Fermo restando che le squadre competitive continuerebbero ad esserlo, avendo però un avversario da battere in più, cioè quella componente di casualità che sul lungo periodo (38 giornate) è pressoché inesistente…

No. Secondo me i play-off non fanno parte della cultura calcistica. Credo che una cosa da fare sarebbe ridurre il numero delle squadre di serie A, questo sì. Il numero ideale sarebbe sedici, dal mio punto di vista, ma mi rendo conto che è impossibile, mentre a diciotto credo ci si possa arrivare. Questa riduzione sarebbe fondamentale per aumentare il livello della competitività media. Da noi la Regular Season coincide con il campionato, per cui non ci sarebbe spazio per i play-off. Ripeto: l’aumento della concorrenza esalterebbe un sistema, quello attuale, che trovo tutto sommato ben strutturato, con un torneo di durata, il campionato, e le competizioni europee, che dopo la prima fase a gironi aprono all’adrenalina propria degli scontri diretti.

All’indomani dell’esonero di Ranieri al Leicester, sulla Gazzetta hai scritto un interessantissimo pezzo sulla “sconvenienza della riconoscenza” nel calcio, uno sport in cui anche il recente e glorioso passato conta poco o nulla. Penso anche all’addio di Mourinho all’Inter: lui cambiò aria e continuò a vincere, mentre la società neroazzurra confermò tutti gli eroi del triplete perdendo di fatto in competitività, se si escludono Mondiale per Club e le coppe nazionali.

E’ un esempio molto calzante. Sicuramente Mourinho seppe evitare di cadere nella trappola della riconoscenza. Sai, quando ottieni quei risultati così importanti e vuoi bene ai giocatori la tentazione di non suonare la campanella quando il momento lo richiederebbe è forte. Mourinho la suonò, ecco. Ranieri, al contrario, per troppa riconoscenza verso i protagonisti di un vero e proprio miracolo sportivo non ha saputo far fruttare l’attrattiva della Champions League, con i relativi introiti, e rinnovare completamente il parco giocatori provando ad alzare il livello di gioco. Questo è stato il suo grande errore, a mio avviso. Purtroppo ciò che nella vita rappresenta un grande valore, la riconoscenza, la gratitudine – è bello e giusto provarla e anche riceverla, se possibile – trasposta nello sport, dove per restare competitivo devi essere sempre al 200% e avere il cosiddetto pelo sullo stomaco, può procurare dei veri e propri disastri.

LEICESTER, ENGLAND - FEBRUARY 27: A painting of former Leicester City Manager Claudio Ranieri lifting the Premier League trophy is seen in the city centre prior to the Premier League match between Leicester City and Liverpool at The King Power Stadium on February 27, 2017 in Leicester, England. (Photo by Michael Regan/Getty Images)
La riconoscenza resta dipinta sui muri di Leicester

Tornando invece alla Liga, l’anno scorso, proprio di questi periodi, Zidane si aggiudicava il primo clasico da allenatore, e tu fosti uno dei primi ad individuare nel francese un certo acume tattico. Siccome il Real non pratica un gioco esattamente scintillante, si può dire che Zizou ha ribaltato la sentenza dell’Avvocato Agnelli dimostrandosi un allenatore più utile che divertente?

Sì, direi di sì. Anche se in realtà il Real Madrid per la sua filosofia, per come è costruito è sempre stato una squadra di all stars. E creare un gioco collettivo in un contesto del genere è difficile. Una cosa molto bella della musica sono le jam session: grandi strumentisti che si trovano casualmente o meno nello stesso locale o nello stesso teatro della stessa città e per il piacere di suonare insieme trovano anche un’intesa, ma dentro questa intesa tu devi avere lo spazio per il chitarrista, il bassista, il batterista e così via, quindi sono tutte delle star all’interno delle loro specializzazioni. Nel Barcellona di Guardiola, invece, le stelle – che pure c’erano, ovviamente – facevano tutte parte di una fusion: erano un’orchestra, non una jam session. Al Real sono abituati per un fatto di orgoglio, dato anche dal voler essere i più spendaccioni, ad investire molti soldi nell’acquisto delle stelle, perciò il parco giocatori che ne viene fuori per funzionare al meglio necessita di poche e chiare direttive. Il carisma del capo, penso a Mourinho, Ancelotti e da ultimo Zidane, pur nelle loro diversità, ha un peso maggiore delle idee di calcio in sé. Ecco perché allenatori non altrettanto carismatici e magari bravissimi sul piano tattico, al Real hanno fatto molta fatica. Vedi Benitez e Pellegrini.

Sempre a proposito di allenatori, volevo chiederti: senza nulla togliere a Simone Inzaghi, che si sta dimostrando un eccellente tecnico, quanto hai sperato che Bielsa venisse in Italia?

Ti dirò, ho sperato che Bielsa venisse in Italia, ma non ero convinto che la Lazio, e segnatamente il presidente Lotito, fossero il posto giusto in cui atterrare. Perché non c’è presidente più pragmatico di Lotito, che ha i suoi meriti, intendiamoci, soprattutto per come contrasta le frange del tifo violento; tuttavia la storia insegna che Bielsa va alla ricerca di realtà un po’ diverse. Adesso sono curioso di vedere cosa combinerà al Lille, perché l’Athletic Bilbao e il Marsiglia erano due realtà caratterizzate da fortissimi elementi identitari – rispettivamente anti-Spagna e anti-Parigi –, mentre al Lille, appunto, non ci sono particolari tematiche ‘sentimentali’ che lo possano accendere. In Italia lo avrei visto bene alla guida del Torino, una società segnata anche da un passato drammatico in cui un maestro della retorica come lui avrebbe avuto vita facile nel coinvolgere i giocatori nel progetto. Mentre invece credo che un bravo e giovane allenatore come Simone Inzaghi ha fatto ottenere alla Lazio più punti di quanto non ne avrebbe conquistati con Bielsa al timone, probabilmente.

Qualche domanda sui giocatori dovrò pur fartela, e comincio da Pogba. Una volta l’hai definito come l’equivalente calcistico di Lebron James: non gli manca ancora un po’ di strada da fare per essere altrettanto dominante?

Io ho visto Lebron James due volte: alle Olimpiadi e nella prima Cleveland, non quella di adesso. Mi impressionò la sua capacità di interpretare in maniera eccellente tutti e cinque i ruoli di un quintetto di pallacanestro. La mia riflessione su Pogba era in questo senso, non per la sua dominanza: ho l’impressione che il francese, più di qualsiasi altro giocatore, possa ricoprire davvero tutti i ruoli rendendo dal bene al molto bene.

Secondo te la sua ascesa nell’ultimo anno, dagli Europei al primo (vero) campionato con il Manchester United, si è un po’ arenata, premesso che parliamo di un giocatore ancora con ampissimi margini di miglioramento?

Sì. Diciamo che ci si aspettava di più perché fatalmente, anche se non dovrebbe essere così, i giudizi sono sempre condizionati dal prezzo del cartellino, secondo me troppo elevato. Per questo si erano create su di lui delle aspettative enormi. Secondo me non è andato benissimo, ma neanche male. Gli attribuirei un sei, forse anche un sei e mezzo per la sua prima stagione con i Red Devils. Ha pagato anche il fatto che Mourinho, almeno nella prima parte della stagione, ha preteso molto da lui schierandolo davanti alla difesa o come trequartista, laddove il suo ruolo naturale è, a mio avviso, quello di mezzala sinistra in un centrocampo a tre. Mi rendo conto di essere un po’ in contraddizione con quanto detto prima a proposito della sua versatilità, tuttavia credo che il ruolo in cui Pogba rende al massimo è quello.

MANCHESTER, ENGLAND - DECEMBER 11: Jose Mourinho, Manager of Manchester United gives instruction to Paul Pogba during the Premier League match between Manchester United and Tottenham Hotspur at Old Trafford on December 11, 2016 in Manchester, England. (Photo by Clive Brunskill/Getty Images)
Un cartellino da oltre 100 milioni e lo Special One come allenatore: una discreta pressione

 

L’altra domanda è su Neymar. La sensazione è che siamo a un momento di svolta epocale. Arrivati a questo punto delle rispettive carriere, potrebbe essere il brasiliano più vicino alla conquista del titolo mondiale con la Nazionale di quanto non lo sia Messi?

Be’, direi di sì. E poi oggi è il giorno giusto per porre questa domanda, visto che il Brasile è già qualificato mentre l’Argentina, complice anche la squalifica di Messi, è in alto mare. In generale credo che Neymar abbia vissuto la grande delusione del 2014, quando si è trovato ad essere un leader non ancora completamente maturato di una squadra mal assortita, tra giocatori esperti con poche motivazioni e giovani talenti non ancora del tutto sbocciati. Talenti che però sono sbocciati due anni dopo alle Olimpiadi, per cui considerando che da qui al Mondiale in Russia c’è ancora un anno, credo che il Brasile sia una candidata forte alla conquista del titolo.

A proposito di Leo Messi, un’opinione diffusa tra gli esperti vuole che per eguagliare o addirittura superare Maradona alla Pulce non manchi che il titolo mondiale. Un ragionamento del genere non rischia di essere un po’ ‘matematico’ e, soprattutto, di postulare un pareggio tecnico che forse non c’è?

Io non amo queste graduatorie. E se le devo fare preferisco farle con un minimo di profondità storica. Messi non lo metto in confronto con Maradona perché semplicemente Messi gioca ancora. Posso confrontarlo con Cristiano Ronaldo, questo sì. Il suo posto nella storia comunque è molto in alto a prescindere da quello che farà con la Nazionale, però non nascondiamoci che il palmares conta nella definizione di un giocatore. Io vorrei vedere Messi congedarsi con un titolo mondiale completando definitivamente la sua bacheca. Perché se lo merita e sarebbe una tristezza se non lo vincesse, cosa peraltro molto possibile perché verosimilmente avrà ancora una chance. Per riuscirci però ha bisogno di compagni di una nuova generazione. Quella perduta degli Higuain, dei Di Maria, degli Aguero – tutti giocatori fortissimi – in Nazionale, per un motivo o per un altro, si è dimostrata fallimentare. In questo senso Dybala e Icardi sono i due assi da affiancargli.

RIO DE JANEIRO, BRAZIL - JULY 13: Lionel Messi of Argentina looks dejected after a goal during the 2014 FIFA World Cup Brazil Final match between Germany and Argentina at Maracana on July 13, 2014 in Rio de Janeiro, Brazil. (Photo by Martin Rose/Getty Images)
La solitudine di Lionel Messi al termine della finale mondiale in Brasile

Però è anche vero che Messi, per un motivo o per un altro, non è stato in grado, finora, di trascinare e valorizzare in maniera convincente quel gruppo di giocatori comunque molto forti, no?

Ma infatti anche Messi ha le sue responsabilità, ci mancherebbe. Però non me la sento di dirti che va lasciato a casa. Piuttosto, ripeto, bisognerebbe puntare altresì su Dybala e Icardi e formare un trio di altissimo livello. Per quanto riguarda il centravanti neroazzurro, non credo che la sua mancata convocazione si fondi su ragioni tecniche, del resto sta facendo benissimo. Deve esserci qualcosa sotto che noi non conosciamo.

Voglio farti una domanda su Maradona. Nelle poche esperienze da allenatore, diciamoci la verità, non ha ottenuto grandissimi risultati, anzi. Ciononostante, tu che da inviato della Gazzetta hai seguito il ritiro dell’Argentina al Mondiale sudafricano, l’hai definito, anche nella veste di CT, come un “pifferaio magico”. Che intendevi dire?

Maradona ha carisma. Ha una leadership naturale, non studiata. Perlomeno ti parlo del Maradona del 2010. Maradona ha una personalità enorme e un passato da giocatore ancora più enorme ed è inevitabile farsi contagiare da quel carisma, da quella sua capacità, unica, di parlare al soprannaturale. Riconosciuto questo, non c’è paragone tra il Maradona allenatore e il Maradona giocatore, così come non c’è paragone tra il Maradona allenatore e i suoi colleghi allenatori. Con il solo carisma, cioè l’unico aspetto su cui puntò in Sudafrica, arrivi massimo ai quarti di finale (0-4 contro la Germania, ndr), denunciando l’incapacità di risolvere problemi di natura tattica che puntualmente ti si sono parati davanti.

Siamo giunti all’ultima domanda. Volevo un tuo parere su Gabriel Jesus. Secondo te può essere il nuovo fenomeno del calcio mondiale? Guardiola dà l’impressione di puntarci molto…

A me piace molto. Però usiamo parcamente parole come fenomeno. Di fenomeni ne nascono meno di uno a generazione. Gabriel Jesus può essere un campione, può essere il centravanti di un Brasile campione del mondo, magari. Certamente, se penso che nel 2014 il Brasile aveva Fred e Hulk, Gabriel Jesus è tutta un’altra cosa. Stiamo parlando di un altro livello di giocatore, la cui classe diversa la noti nel giro di tre minuti. Potrebbe essere per Neymar quello che Jairzinho, nel ’70, fu per Pelè: un grande centravanti brasiliano affiancato a un fenomeno. Guardiola ci punta molto, sì. Anzi, dal linguaggio del corpo che ho visto a Manchester quest’anno, credo proprio che Aguero in caso di una buona offerta faccia le valigie.

E non sarebbe male vederlo in Italia, Aguero…

Assolutamente. Faccio un nome: il Milan. Se il club rossonero deve trovare un giocatore su cui basare la propria rinascita, oltre ovviamente a Donnarumma, ecco che Aguero potrebbe essere l’acquisto giusto.

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