Interviste
08 Novembre 2016

L'arte di raccontare il calcio moderno

Vice-direttore de "Il Giornale", direttore della rivista "Undici", si firma su "Il Foglio" con il nome Beppe Di Corrado. Abbiamo incontrato Giuseppe De Bellis, giornalista barese trapiantato a Milano, che ha ideato un prodotto editoriale raffinato che mescola scienza ed epica al servizio del calcio.

Caro Giuseppe, raccontami come ti è venuta l’idea di fondare la Rivista Undici. 

Undici nasce da un ragionamento: l’Italia è un Paese che per tradizione ha un racconto sportivo di altissima qualità e tutti i migliori giornalisti italiani si sono misurati con lo sport. Con il tempo si è pensato che la lettura sportiva fosse quella “da caffè” e si è privilegiato un notiziario scarno che tralasciava il racconto. Nel 2005 decidemmo con Il Foglio un appuntamento settimanale che non si riferisse solo alla grande occasione, ma che settimanalmente si impegnasse a trovare il personaggio, la storia da approfondimento stile capitolo di libro. Intanto in giro per l’Europa diverse testate spingevano il racconto sportivo su una dimensione di profondità, taglio, estetica che mancavano invece nel nostro Paese. Parlando con i ragazzi spagnoli di Libero e di Panenka mi è venuta l’idea di una rivista cartacea che in Italia non esisteva. All’epoca collaboravo con Studio e avevo notato che i contenuti sportivi erano i più letti: partendo da questa consapevolezza, ovvero dalla certezza che esistesse “un pubblico”, ho fondato Undici.

La rivista spagnola Panenka
La rivista spagnola Panenka

Rivista Undici nasce anche con l’obiettivo di unire due mondi: potremmo dire una linguaggio alto con un’analisi propriamente tecnico-tattico, quasi scientifica. Una sfida molto importante oltre che interessante. Si è rivelato un processo difficile? In questi due anni di lavoro che riscontro avete avuto, siete soddisfatti?

Per rispondere a questa domanda tornerei a diciotto anni fa quando nasceva Sfide. Sfide era un rotocalco sportivo di grande qualità che portava in televisione quel linguaggio che il giornalismo sportivo aveva avuto sulla carta, cioè l’epica. Raccontando l’epica con qualità manteneva un suo pubblico, un pubblico ampio e fidelizzato. Tuttavia c’era una dicotomia enorme tra Sfide e quindi il grande racconto – che era letteratura allo stato puro – e l’analisi esasperata dei dati. Io ho pensato che questi due aspetti potessero e dovessero convivere. Se tu fai partire il racconto epico dal dato svolgi una funzione sia giornalistica che di intrattenimento. La nostra rivista Undici si fonda su questo principio e mescola due mondi (epica e scienza) che prima non si parlavano.

Veniamo al come. In un’epoca in cui si parla della fine della carta stampata, voi avete scelto di porvi in controtendenza rilanciando un trimestrale che si rivolge de facto ad un pubblico “alto”. Questo pubblico si è fatto trovare pronto quando avete lanciato la rivista nelle edicole?

Da questo punto di vista sì, Undici è un prodotto in controtendenza. Nasce infatti cartaceo e in seguito diventa anche digitale: guadagna il suo pubblico sulla carta e solo in un secondo momento sul digitale. Certamente i numeri sono oggi a favore del digitale e in quest’ottica la gratuità del prodotto è un aspetto fondamentale. Però se vai ad offrire, ad un pubblico che hai la certezza che esista, un prodotto di qualità, riesci a valorizzare tutti gli sforzi e gli investimenti. 

Credi che le testate generaliste chiuderanno se non sapranno inventarsi un nuovo modo di fare giornalismo?

No, io penso di no. Penso che la Gazzetta dello Sport ad esempio sia un pezzo di storia del nostro Paese e che faccia parte del dna italiano. E’ un giornale che molti criticano ma tutti leggono. Siccome non morirà la passione per il calcio non possono morire i giornali sportivi. Chiaramente cambiano le passioni e il mercato e di conseguenza il modo di fare informazione, ma non credo moriranno. L’Italia forse ha anche un problema di sovradimensione della produzione quotidiana di informazione sportiva: tre testate sportive le abbiamo solo noi e la Spagna, ma in Spagna due su tre sono territoriali. Questo potrebbe rappresentare un problema ma in fondo anche da noi il Corriere dello Sport e Tuttosport hanno identità ben definite. Da questo punto di vista per i quotidiani sportivi ci sono addirittura più potenzialità che per i giornali tradizionali. 

Veniamo a te. Chi è Beppe Di Corrado rispetto a Giuseppe De Bellis?

La scelta del nome Beppe di Corrado è un patronimico. Beppe (figlio) di Corrado, mio padre che mi ha portato allo stadio già a diciassette mesi. Grazie a lui ho la cultura dello stadio e ancora oggi a quasi quarant’anni mi emoziono ogni volta che ci vado. “Beppe di Corrado” nasce perché già lavoravo con Il Giornale e non potevo firmare con il mio nome sul Foglio. All’epoca il Foglio era totalmente anonimo, poi invece decise di firmare le paginate e l’unica che rimase anonima per qualche mese fu la pagina sportiva. Quando Ferrara mi chiese di firmare, mi inventai lo pseudonimo di Beppe di Corrado. Oggi continuo ad essere sul Foglio Beppe di Corrado non perché abbia una doppia identità, quanto perché Beppe di Corrado è la firma del Foglio. Per molto tempo il vero Giuseppe de Bellis era Beppe di Corrado, mi sentivo molto più “Giuseppe Di Corrado”. Per me è stata una sofferenza, ho firmato tre libri come Beppe di Corrado e il primo ha vinto il premio Coni per la letteratura sportiva. Non ho potuto ritirarlo nonostante fossi in sala. Sembrava un film, chiamano Beppe di Corrado e non si presenta nessuno. Alla fine di tutto come un ladro vado dalla giuria confessando di essere io. Non ho mai sofferto un problema d’identità, però il non uscire allo scoperto, ecco quello sì.

Tre numeri di Undici
Tre numeri di Undici

Oggi nel calcio sembra dominare una narrazione aggressiva e individuale – il professionista deve giocare bene sempre sempre e comunque – funzionale alla vendita di un prodotto perfetto. Questa fiction non rischia di annientare l’essenza di questo sport?

Io non sarei così pessimista. Ci sono alcune derive assolutamente compatibili con l’evoluzione della società. Il calcio è figlio della società in cui nasce, né peggiore né migliore. Secondo me c’è sempre stata la critica, è cambiato l’accesso del pubblico a quelle fonti. Quindi il fenomeno che c’è sempre stato noi lo percepiamo in modo amplificato. In fondo l’Italia ha inventato le pagelle, che sono un’idea discutibile ma anche la cosa più letta. El Paìs se vai a vedere fa 15 pagine di approfondimento il lunedì sul Real Madrid, ma nemmeno mezza di pagelle. Noi invece addirittura a volte leggiamo la partita dal punto di vista delle pagelle, abbiamo sempre avuto questo lato. È la dimensione del fenomeno che si è ingigantita, non il fenomeno stesso.

Il giornalista sportivo deve barcamenarsi in rapporti interpersonali (calciatore-giornalista, dirigente-giornalista, allenatore-giornalista, procuratore-giornalista) che rischiano di compromettere la sua libertà di espressione. Come fare a tutelare la propria indipendenza professionale? Secondo te un giornale sportivo deve essere polemista?

Allora, non penso che ci sia una risposta definitiva, sarebbe arrogante da parte mia dare una ricetta unica. Però credo ci sia un’unica strada: quella della qualità. Se mantieni alta la qualità puoi fare polemica, puoi fare racconto, puoi fare qualsiasi cosa. La polemica non deve essere fine a se stessa, se esprimo un giudizio lo devo fare con grande attenzione e qualità, e con un linguaggio adeguato. Ma soprattutto con la massima onestà e correttezza, anche nei giudizi. La chiacchiera da bar rovina qualsiasi cosa. Il problema è che come giornalista non scegli con chi parlare, a fine allenamento parli con un calciatore uguale per tutti, che dice a tutti la stessa cosa e questo è un limite forte. Tu a questo punto hai due strade. La prima è adeguarsi, e in parte è inevitabile, ma la seconda è essere propositivo e non accontentarsi. Una volta poi c’era anche un rapporto più diretto tra calciatore e giornalista, il calciatore andava a cena con il giornalista, cosa oggi impensabile. Paolo Condò racconterà nel prossimo numero di come Maradona, al Mondiale del ’94 e subito dopo la comunicazione della sua squalifica, lo avesse convocato insieme ad altri due giornalisti nella propria camera d’albergo. Il tutto prima che il mondo sapesse. Di questi tempi questo sarebbe un vero e proprio scandalo. Oggi comunque la gran parte dei giornalisti è composta da grandissimi professionisti. Spesso il sistema non li fa rendere al massimo e la loro colpa è non ribellarsi al sistema. A Barcellona capita che il direttore sportivo raduni tutta la squadra, compresi i ragazzini, e dica davanti a tutti: “Iniesta fino ad oggi ha guadagnato 6 milioni, ora ne guadagnerà 7”. Tutti sanno tutto e tutti sanno il perché di tutto. Una gestione aziendale trasparente. L’errore del giornalista è che si adagi alla situazione, accontentandosi di intervistare il ragazzino anziché Messi.

Dentro la redazione Undici
Dentro la redazione Undici

Cosa abbiamo di particolare noi Italiani nel vivere il calcio? Siamo più europei o sudamericani nel modo di intendere il calcio?

Più europei, decisamente più europei. La cultura del tifo sudamericano, o meglio argentino, è fantastica ma profondamente collegata con la società argentina. Noi siamo europei e facciamo bene a ispirarci in alcune cose (curve, coreografie), ma come modalità tecnico-tattica e come approccio culturale alle partite siamo nettamente europei. Anche la Spagna, che è la mamma del Sudamerica, è profondamente europea e non sudamericana.

Cosa serve alla Serie A per tornare la Serie A di una volta?

Servono capitali, e al momento gli unici che hanno disponibilità di capitali sono fondi internazionali. Vedo all’orizzonte solo la possibilità di investimenti stranieri e penso che tutto nasca da lì. Capitali significa poter tornare competitivi nel calciomercato, poter investire sui settori giovanili e sulle strutture. Poi se arrivano questi capitali bisogna cambiare le norme. Ad esempio incentivi alle società che costruiscono gli stadi e togliere gli stadi stessi dalla proprietà dei comuni. Chiaramente con un impegno da parte della società a valorizzare quelle zone, ma questa è la base del business nel calcio. E l’unica possibilità che ha il calcio di continuare a essere uno spettacolo è che gli imprenditori del calcio guadagnino con il calcio (o quantomeno non ci rimettano).Tutto sta nel creare le condizioni affinché chi ha i capitali sia disposto a investire in Italia con una prospettiva, con un ritorno sia in termini di immagine sia in termini economici. Non si può più pensare di fare il business in Italia, si deve vendere il calcio italiano all’estero. E se ci sarà la necessità di piegarsi alle esigenze del mercato cinese, e il derby di Milano si dovrà fare alle tre del pomeriggio, si farà alle tre del pomeriggio. In fondo è una cosa nuova ma vecchia, c’è un’immensa fascia di appassionati che vorrebbe tornare a vedere il calcio solo la Domenica alle tre del pomeriggio. Questa cosa tuttavia non arriva per nostalgia del passato ma per prospettiva del futuro. Si deve sempre assecondare il vantaggio per il principale finanziatore del calcio oggi, ovvero la televisione. E si deve trovare il sistema per espandere il mercato all’estero, diventando utile sia per i club sia per gli unici disposti ad investire nel calcio, ovvero le tv a pagamento.

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