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Ritratto (con intervista) ad un'icona del calcio mondiale.

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Andrea Antonioli
13 Gennaio 2025

Thiago Motta non era l’uomo della provvidenza

Thiago Motta non era l’uomo della provvidenza
Ci eravamo ripromessi, nel nostro piccolo, di aspettare almeno un girone per tirare un bilancio sulla nuova Juventus di Thiago Motta, o semplicemente per delle considerazioni più approfondite. Innanzitutto per non cadere in due grosse trappole, una di metodo e una di merito. Di metodo, per non prestarci al peggiore e più insopportabile vizio dell’attuale racconto sportivo, l’essere sempre racconto dell’indomani, tra esaltazioni e depressioni, paradiso e inferno, top player e scarti da buttare. Un racconto immediato, contraddittorio, usa e getta per una società da buttare, il quale asseconda una deriva ormai dilagante nell’opinione pubblica: quella di non avere memoria, di essere volatile, irrazionale, istantanea - e di avere organi di rappresentanza (stampa, politica etc.), che, tra capriole concettuali e riposizionamenti, inseguono il pubblico anziché farlo ragionare, sempre pronti a cavalcare la cresta dell’onda (social) e dei trend topic. A livello di merito invece, volevamo sottrarci a quella polarizzazione isterica che ha contraddistinto il tema. Come avevamo scritto l’anno scorso: «noi stessi, che se ci concedete eravamo stati i primi a formare il ‘personaggio’ Allegri – quel livornese anarco-conservatore, ingegnoso e anti-dogmatico, ultimo rappresentante (in campo e fuori) della tradizione italica di allenatori gestori – ebbene noi in primis ci eravamo pentiti di aver alimentato quella (finta) dicotomia tra risultatisti e giochisti, tra progressisti e reazionari nel pallone, tra propositivi e reattivi. Un dualismo tanto fallace quanto, alla 'lunga', nauseante». All’epoca non potevamo immaginare le conseguenze che un simile approccio avrebbe potuto causare, ma ormai da tempo siamo esausti dei patetici dissing social-mediatici, di una dialettica da opposte fazioni in armi, «del cortomusismo e del catenaccio-shaming, dell'allegrismo e dell'antiallegrismo; di una discussione diventata metafora di qualcos'altro che andava ben oltre il calcio. Un 'dibattito' psicotico da sì Vax o no Vax, sì Max o no Max». Il problema è che, purtroppo, da qui bisogna partire per approfondire il fenomeno Motta, un fenomeno non analizzabile senza il peso devastante delle sue premesse.Come ha scritto il ‘buon’ Pierluigi Battista, giornalista e juventino di lungo corso, si deve iniziare da qui per fare un po’ di chiarezza, dalla carica messianica di cui era stato investito Motta – e che ora non fa altro che aumentare la delusione generale: «Quella è la scena primaria. È stata una violenta separazione con Allegri ed è passata l’idea che con Thiago Motta si arrivasse a una nuova alba. Tutto questo ha diviso il popolo juventino (…) Questa atmosfera di ripudio, di anno zero, di terra bruciata del passato, la damnatio memoriae di Allegri, è una cosa che non ha nessun aggancio con quello che accade realmente. Il punto è che non c’è niente di peggio di una trionfale rivoluzione che non conferma le aspettative». Tante contraddizioni odierne derivano dal fatto che Thiago Motta, già prima che si sedesse sulla panchina della Juventus, è stato usato in maniera assolutamente strumentale, e in un clima saturato di ideologia, per segnare il distacco con ciò che c’era prima. Per mesi, a sentire le dissertazioni sulle reti televisive, a leggere gli editoriali sulla carta stampata, a dare credito alle dirette calcistiche online e al vomitus cotidianus dei social network, sembrava che il calcio italiano avesse un moderno profeta, pronto a redimerlo da tutti i suoi peccati e a trasformare quella Vecchia Signora della Juventus in una giovane e attraente modella: Thiago Motta, in questo senso, era il liberatore della Juventus dall’oscurantismo di Allegri. «Il problema sta nelle aspettative che sono state create, anche da voi», come ha detto Ciro Ferrara al Corriere della Sera. Una sbornia collettiva di media e giornali, affogati in un brodo di giuggiole ancor prima che Thiago fosse stato in grado di dimostrare qualcosa, laddove ogni critica all’uomo della provvidenza in panchina era considerata un peccato di lesa maestà, e qualsiasi sua mossa – anche le più improbabili – veniva scambiata per una geniale trovata avanguardista. Avesse anche schierato Vlahovic al centro della difesa, in un momento di follia, in tanti avrebbero rimarcato l’ingegno prodigioso del tecnico italo-brasiliano, riuscito finalmente a sfruttare nel migliore dei modi la struttura fisica del talento serbo. Chiariamo però fin da subito, per evitare fraintendimenti: chi scrive pensa che Thiago sia un ottimo allenatore, con tutte le carte in regola per diventare un grandissimo allenatore. Di più, potrebbe un domani rappresentare la sintesi in panchina tra due approcci spesso conflittuali: quello dei gestori dello spogliatoio (e Thiago ha il carattere e lo ‘standing’ adatto), e quello dei tattici molto preparati ma un po’ troppo ossessivi, carenti a livello umano. Eppure, il punto è proprio questo: stiamo parlando di un’ipotesi, di una prospettiva. Che Thiago Motta sia un grande tecnico è ad oggi solo un’interpretazione, più o meno condivisibile, che si muove nel campo delle teorie; che invece, non per alimentare la polarizzazione ma per capirci, Massimiliano Allegri sia un grande allenatore, beh questo, che piaccia o meno, è un fatto. Per citare Gigi Buffon: . . . CONTINUA A LEGGERE

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Arctic Monkeys e il calcio: Flourescent Adolescent(s)

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Cosa hanno in comune Rocco Pagano e Chris Waddle? La professione: calciatori. Il ruolo: ala destra. Il primo è originario di San Nicandro Garganico, provincia di Foggia, mentre il secondo proviene da Felling, città della contea del Tyne and Wear, nord est dell’Inghilterra. Entrambi originari da zone umili delle loro rispettive nazioni, entrambi incubo di uno dei difensori più forti di ogni tempo: Paolo Maldini. L’ex numero 3 rossonero li cita spesso come due tra i rivali più temibili mai incrociati sui terreni di gioco. Le stranezze del calcio. La carriera di Rocco Pagano raggiunge le sue vette in due momenti: in A con il Pescara sull’imbrunire dei luccicanti anni '80 e nel Perugia, dove tra il 1992 e il 1996 fa innamorare lo Stadio Curi. Esattamente nell’anno dell’arrivo di Pagano in Umbria, il 1992, approda a Sheffield, la città delle 7 colline, Chris Waddle. Ha quasi 32 anni e solo un anno e mezzo prima ha ridicolizzato Paolo Maldini nei quarti di finale della Coppa dei Campioni con il suo Marsiglia. Stop and go, finte ubriacanti, piroette, in quei quarti di finale Waddle umilia, sportivamente parlando, Maldini. Lo ammette la stessa leggenda milanista, anni dopo, in un’intervista a Federico Buffa: “Waddle? Ciondolante, ma meno scattante. A me davano fastidio quelli che spostavano la palla, ondeggiavano…”. Davanti alla tv, in quella serata di vento pungente fuori dalle finestre di Sheffield, Alex Turner, il futuro cantante degli Arctic Monkeys, prende appunti, tra una Riot Van simulata con i giocattoli dell’epoca o dei timidi Dancing Shoes nel salotto di casa. Simpatizza, tifa per lo Sheffield Wednesday. Probabilmente nemmeno immagina che quel nome, Chris Waddle, resterà indelebile nella sua testa. Chi è Chris Waddle? E perché Alex Turner, Jamie Cook (chitarrista della band) ed Andy Nicholson (bassista originario della band e cresciuto vicino ad Hillsborough) hanno una venerazione divina per quest’ala inglese nata tra Sunderland e Newcastle nel 1960? Chris Waddle oggi 1992. In Inghilterra l’era Major prosegue in maniera fluorescentemente quieta il solco tracciato dalla Thatcher, mentre in Italia infuria Tangentopoli. C’è aria di riposizionamenti in Europa. La Danimarca vince gli Europei svedesi con una delle imprese più emozionanti, ma al tempo stesso improbabili, della storia, mentre a Barcellona alle Olimpiadi appare come una cometa il gruppo più forte di sempre in uno sport di squadra: il Team USA Basketball. In tutta questa storia, il 20 febbraio 1992 nasce la Premier League. Dista anni luce dall’opulenta e spendacciona Serie A del tempo, ma anche dalla Liga, dalla Bundesliga e dalla Ligue 1. Il Leeds campione d’Inghilterra in quell’anno vedrà la sua stella, il francese Eric Cantona, andarsene verso Manchester, sponda United. D’altronde Manchester sta per diventare la città più mad e cool dell’intero pianeta grazie a due fratelli parecchio dissacranti e un altro paio di gruppi che ri-scriveranno la storia del pop inglese e non solo. Anche Waddle è stato un’icona del costume e della cultura pop britannica, oltre che un fuoriclasse di prima grandezza. Negli anni 80 è stato uno degli early adopter del mullet, il taglio di capelli che verrà reso celebre da star della musica come Simon Le Bon (leader dei Duran Duran), Paul Young e star del piccolo schermo come Richard Dean Anderson, il protagonista eponimo della serie TV MacGyver. Dalla tiepida Provenza all’umido South Yorkshire, dal Vieux Port ai fiumi Don e Sheaf il cambio di paradigma ed ambizioni è incredibile, ma per Chris fa poca differenza. Tanto sa che in campo, lui, la differenza la fa ancora come e quando vuole. Lo Sheffield Wednesday vuole fare suo questo esterno offensivo pieno di guizzi e invenzioni. Una vera Library Pictures calcistica, in un panorama abbastanza arido di bellezza estetica e dominato dalla forza bruta della corsa e dell’acciaio fisico, come il pallone inglese dell’epoca. Il Wednesday è una delle big del football britannico. Ci giocherà anche Paolo Di Canio ad Hillsborough, casa del Wednesday e tristemente nota per i fattacci del 1989. Sarà proprio l’ex Lazio, nella summer of 96, a prendere il posto di Waddle dopo quattro anni di invenzioni e fantasia. A voler analizzare bene le carriere di Waddle e delle Scimmie Artiche le similitudini sono tante. La discografia di Turner & co, proprio come la carriera di Chris, si può dividere in tre momenti: esordi, esaltazione ed emancipazione. ESORDI – BIGGER BOYS AND THE STOLEN SWEETHEARTS I primi due dischi degli Arctic sono la sintesi delle spinte lo-fi e post-punk di gruppi come Strokes o Libertines fuse in una rivisitazione innovativa dei Beatles. È dai tempi dei Blur e degli Oasis, quindi il primo quinquennio dei 90s, che un gruppo non propone qualcosa di così elettrizzante ed esplosivo come Turner e compagni. Musicalmente, ma anche di costume. Il sound sporco, ma tremendamente rock and roll dei fratelli Gallagher, si fonde con eleganti giochi di parole di dichiarata matrice albarniana. Nello stesso periodo salgono alla ribalta capelli con caschetti sfumati (in Italia verranno definiti “alla Seth Cohen”), pantaloni a sigaretta, maglioncini a righe e le t-shirt monocolore diventano indumento fondamentale per chiunque voglia risultare originale e con hype differente rispetto agli altri. In Whatever People Say I Am That's What I'm Not (2005) e Favourite Worst Nightmare (2007) il ritmo di Turner e band è incessante, incalzante, con poco spazio per pause e sospiri. When The Sun Goes Down, autentico capolavoro degli anni 00, è un manifesto esistenziale: un vero e proprio inno su cui fondare la propria metrica poetica e musicale. Finché loro saranno una band unita, il sole non potrà mai tramontare sulle loro teste. Nozione speciale per Matt Helders, autentica drum machine umana in grado di regalare brianstorm perfette. https://www.youtube.com/watch?v=EqkBRVukQmE E chi l’ha mai visto un eterno flourescent adolescent come Waddle a Sheffield. Prima di tornare al 1992 è necessario però fare dei passi indietro. Nel 1976 siamo all’alba dell’esplosione del punk e Waddle è veramente un adolescente fluorescente con un piede sinistro telecomandato e un dribbling luccicante come un’Alfa Romeo Duetto rossa. A 16 anni il Coventry lo scarta a causa di una costituzione fisica poco conforme ai canoni calcistici dell’epoca . . . CONTINUA A LEGGERE