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Andrea Antonioli
23 Maggio 2023

L’anti juventinismo è il nuovo grillismo

L’anti juventinismo è il nuovo grillismo
Ho passato l'adolescenza, e più in generale la giovinezza, da anti-juventino militante. La mia vita era segnata non dagli anni bensì dalle stagioni, come per Nick Hornby in Febbre a 90°, ma le stagioni erano scandite a loro volta dalle eliminazioni europee della Juve. Non aspettavo altro. Conservo ancora da qualche parte l'intervista di Antonio Conte nel post Galatasaray-Juventus, partita che ricordo perfettamente si giocò all'ora di pranzo sotto la neve di Istanbul – firmai insieme ad un amico una giustificazione falsa, o qualcosa del genere, per uscire un'ora prima da scuola e pregare nel miracolo turco. Ebbene dopo l'insperato gol di Sneijder, e una sconfitta che solo Zeus avrebbe potuto infliggere alla Juventus, Antonio Conte dichiarò: «adesso testa all'Avellino» (la successiva partita in Coppa Italia). Che goduria. Ho riascoltato quelle parole fino alla nausea, nelle quali era racchiusa non solo la psicopatologia di Conte ma anche tutto ciò che detestavo della Juventus: la mentalità inscalfibile, mai vittima di crolli emotivi; la programmazione al successo, disumana e quasi robotica; l'abitudine a vincere, a costruire e ricostruire, parte dello stesso codice genetico bianconero. Una scalata per cui conta ogni Avellino, così come per Paperon de' Paperoni contava ogni centesimo. Per un pasoliniano come me, costitutivamente dalla parte degli sconfitti, una visione del mondo irricevibile, inaccettabile. Da contrastare con tutte le forze e l'idealismo della gioventù. E anche negli anni successivi, considerato pure il nostro carattere arcitaliano di gufi, per cui gufare in un certo senso è quasi meglio che tifare, puntualmente mi vedevo con lo stesso amico e ci mettevamo sul trespolo/divano per le partite europee della Juventus: ogni anno sudando freddo laddove i bianconeri macinavano chilometri, superavano ostacoli e si avvicinavano sempre di più al colpo gobbo, la Coppa dalle grandi orecchie; ogni stagione sperando di passare indenni la bufera nella consapevolezza che, per quanto puoi programmare, una competizione episodica come la Champions League potrà sempre sfuggirti. Questa è una premessa necessaria per capire fin dove si spingesse l'anti-juventinismo, a livelli quasi patologici. C'è poi che non riuscivo a digerirli proprio, gli juventini: quelli con sede a Torino, così austeri e calcolatori, algidi e senza cuore ché "il vero torinese tifa Torino"; quelli calabresi e pugliesi, sardi e siciliani, umbri e toscani, che tradivano le loro meravigliose terre d'origine per salire sul carro del vincitore; e soprattutto quelli della mia città, Roma, deboli convertiti al tifo per i forti. Gli juventini romani erano i più fatidiosi, spesso i più emarginati: gente che, tramite il pallone, voleva finalmente un'occasione per “vincere”, per prendersi una rivalsa sulla vita. Lugubri personaggi che vedevi condividere robe tipo 'buongiornissimo caffé' con lo stemma della Juventus, linguacce di Del Piero e orribili grafiche con gli scudetti vinti "sul campo". Con quell'orticante slogan diventato hashtag, #finoallafine, manifesto di tristezza esistenziale ancor prima che sportiva. Questi i principali motivi per cui non li sopportavo; oltre al fatto che, banalmente, vincevano quasi sempre loro. Eppure oggi, dopo una lunga e onorata carriera da miliziano anti-juventino, non ne posso più. Non ne posso più degli anti-juventini sui social, con il solito bagaglio di offese e di luoghi comuni sui prescritti e sui ladri. Non ne posso più della “Juve che ruba”, un ritornello talmente abusato che ha superato addirittura il folclore. Non ne posso più di Calciopoli che, diciamocelo, aveva ragione Cossiga: è stata un'operazione "piedi puliti", una Tangentopoli del calcio che non ha portato alcuna moralizzazione, anzi; siamo passati dalla prima alla seconda repubblica pallonara e le nostalgie per la prima, politicamente e calcisticamente, galoppano ogni giorno di più. Non ne posso più di chi chiede interrogazioni parlamentari per l'esame d'italiano di Suarez, di chi (ri)tira fuori Agricola e il doping, degli arbitri chiusi negli spogliatoi, della triade Giraudo-Moggi-Bettega; di corrotti e corruttori, più o meno potenziali, che nella critica alla Juve si improvvisano anime belle e vergini candide. Non ne posso più dei bar, quando parlano di Juventus, e dei social, ma di quelli in generale. E non ne posso più dell'inchiesta Prisma, di come è stata gestita e recepita, così come di una penalizzazione che, secondo il ribollire di liquidi del web, confermerebbe l'associazione a delinquere bianconera. Non ne posso più di pubblici ministeri che, seppur validi e per scherzo, dicono di essere "anti-juventini, contro i latrocini in campo”. Non ne posso più di quella retorica piagnona contro i palazzi del potere che, se davvero funzionassero, pensate davvero che ne sapreste qualcosa? – il problema dell'ultima Juve, paradossalmente, è stato proprio il contrario, ovvero che Agnelli e soci erano fin troppo isolati. E non ne posso più di gente per cui Manzi, Palmieri e Liguori (rispettivamente in Serie C, Serie D ed Eccellenza) possano valere 15 milioni in tre. Gente che per marcare la propria differenza ontologica si riempie la bocca di parole come "sistema" non riusendo a capire che, se la Juventus è stata condannata, è solo perché – a differenza di altre – c'erano le prove. Prove che esistono non perché a Torino ci fosse un "sistema" e altrove no, bensì perché la Juventus era quotata in Borsa e quindi la Consob, organo di vigilanza per le società quotate, aveva chiesto ulteriori accertamenti su alcune operazioni: da qui si era mossa la Procura di Torino, e per questo erano stati intercettati i dirigenti della Juventus – fossero stati ascoltati i dirigenti di Inter, Napoli, Roma etc. cosa pensate che sarebbe venuto fuori? Non ne posso più infine di questo giustizialismo d'accatto, sempre più rancoroso e analfabeta, di chi spera di battere la Juventus nei tribunali e non sui campi di calcio (come quelli che si affidavano ai giudici per sbarazzarsi di Berlusconi perché non ci riuscivano nelle urne, e chi scrive tutto è fuorché berlusconiano). Persone convinte che da una parte ci sia il male e dall'altra il bene, da una i malvagi e dall'altra i puri. E che la giustizia debba intervenire per sanare questo vulnus etico e democratico. Già, la cosiddetta 'giustizia sportiva'. Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. Il problema è che il dibattito, chiamiamolo così, è talmente incancrenito nelle logiche polarizzanti e becere del tifo che nessuno (o quasi) riesce a prendere atto della più immediata evidenza di tutta questa storia: la giustizia sportiva non esiste, non ha alcuna autonomia specifica. È una sottocategoria farsesca della giustizia ordinaria, da cui prende contenuti ma non garanzie – basti pensare che le famose intercettazioni, prova regina della colpevolezza bianconera, ancora non erano entrate formalmente nel processo penale, e anzi erano solo gli stralci di intercettazioni selezionati dall'accusa. Un circo di dilettanti, la giustizia sportiva, il cui tendone si muove a seconda di come tira il vento, e del quale ogni giornalista (o analista sportivo) dovrebbe evidenziare le grottesche e surreali contraddizioni. Ciò che è successo quest'anno alla Juventus è in-credibile, quasi ammirevole nel suo dilettantismo. Eppure, essendo la Vecchia Signora il bersaglio, è stato accettato senza colpo ferire, mentre chiunque provasse a contestare i paradossi della vicenda veniva immediatamente bollato come juventino, o peggio servo della Juventus. Abbiate pietà, vi prego. E un briciolo di onestà intellettuale. Ma senza addentrarci nella selva oscura della giustizia sportiva, torniamo al punto: l'anti-juventinismo, per come viene stancamente riproposto oggi, non si regge più. Con il suo giustizialismo spicciolo, il j'accuse insieme accusatorio e vittimista ai palazzi del potere, il bisogno di prendersela sempre con qualcun altro che incarna tutti i vizi e la corruzione dell'essere umano. Gli anti-juventini sono i nuovi grillini, moralisti e populisti, armati di una retorica stracciona e vittimista, fintamente egualitaria quando in realtà pretende solo il contrario – ovvero che la giustizia sia uguale per tutti tranne che per la Juve, per la quale c'è sempre e a prescindere la presunzione di colpevolezza. Questo anti-juventinismo è vecchio, stanco, ottuso, sovrabbondante, retorico. Andrebbe riformato e adattato ai tempi. Non che la Juve non si debba odiare, per carità! La Juventus deve restare orgogliosamente nemica, e gli stessi juventini probabilmente ci godono nell'essere odiati dall'altra metà del popolo italiano. Vanno però cambiate le parole d'ordine: passi pure il ritornello per cui la Juventus ruba, una litania stanca ma che fa parte del nostro patrimonio nazionale, un folclore che ha senso alimentare nei più reconditi angoli d'Italia. Ma basta con il voler eliminare la Juventus tramite pubblici ministeri e fare il braccio dialettico delle procure. Le squadre si battono sul campo, non nelle aule dei tribunali – specie se non sono state le uniche a truccare i conti, a condurre operazioni disoneste e ad acquisire vantaggi sportivi dalla falsificazione dei bilanci. Non che non se ne debba parlare, e noi lo avevamo fatto tre anni fa, prima di tanti se non tutti. Però basta con le persecuzioni politiche e i processi nelle piazze (virtuali) Delle penalizzazioni ci si può rallegrare, se ne può giustamente godere ma senza metterci in mezzo la giustizia e la morale. Questo continuo dover nobilitare gli istinti più bassi, rivestendo il nostro naturalissimo odio di un abito morale – per cui il rancore è giustificato dal fatto che qualcuno sta infrangendo la legge –, è francamente disturbante, per non dire nauseante. Perché l'odio bisogna coltivarlo quando necessario ma anche, nietzschianamente, essere all'altezza del proprio odio, senza mascherarlo da bene comune o da verginità ideologica. Meglio allora il disprezzo senza filtri di Napoli, in cui era stata anche inaugurata (alla Sanità) una “piazzetta Juve merda”, con tanto di indicazioni per i turisti, inviti al governo – «Salvini, caccia via gli juventini» – e una serie di striscioni francamente irriferibili. Viva gli insulti a chi tifa le doppie squadre, brutta razza che oltre al club del proprio territorio sostiene la Juventus "perché vince"; e lunga vita all'odio viscerale e irriducibile di tante storiche tifoserie italiane – Fiorentina, Roma, Inter, Napoli etc. –, che preferirebbero essere "morte piuttosto che juventine", come ben vengano i ringraziamenti al padre eterno per non essere nati bianconeri. L'anti juventinismo deve rimanere voce di popolo, ritornello nazionale, sentimento arcitaliano. Ma rinnoviamone i termini, e finiamola con questo vittimismo metafisico. La Juve è come la DC, la balena bianca, l'espressione del potere che è giusto combattere e anche detestare. Ma non perché rubi, bensì perché tifare Juventus è troppo semplice. Quella degli juventini è una visione del mondo in bianco e nero, che non capirà mai le gioie e i dolori di Roma, di Genoa, di Firenze, di Napoli, e anche di tutta quella provincia italiana abituata sempre a soffirire e raramente a gioire, spesso senza neanche la speranza di un futuribile successo. Il tifo disinteressato, non come mezzo ma come fine. Che si torni a odiare la Juve, e a gufarla in Europa che tanto noi la cosa di sostenere le italiane, diciamocelo chiaramente, non ce l'abbiamo mai avuta (per la Juventus poi, figuriamoci). Che si torni in Serie A a tifare una squadra e a simpatizzare per le altre 18, e nel mondo a prendere le parti di qualsiasi club che incroci la rotta di Torino. Che li si insulti in tutti i modi gli juventini e nelle maniere più fantasiose; che si invochi, per ogni partita della Juve in trasferta, la Calabria deserta, e che si ricorra a tutte le sfaccettature immaginabili della discriminazione antropologica e sportiva. Ma basta fare le anime candide, a maggior ragione nelle acque reflue del calcio contemporaneo. Soprattutto, smettiamola di andare a traino della giustizia sportiva, di accoglierne i verdetti come fossero la restaurazione di una giustizia semi-divina, e di ritenerla credibile per il solo fatto di aver punito, finalmente, Juventus. La giustizia sportiva non è credibile, lo ha ampiamente dimostrato con un prolungato e imabarazzante disastro. E Chiné, in tutta questa storia, è solo un Di Pietro che nemmeno ce l'ha fatta.

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Massimiliano Vino
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Jünger e Heidegger a Wembley

Jünger e Heidegger a Wembley
Martin Heidegger freme nei preparativi. Agitato, ansioso, incapace di allontanarsi dalla propria dimora. In difficoltà nel dover scegliere i propri compagni di viaggio filosofici, tra i tanti della propria biblioteca, nel viaggio verso Wilflingen, a casa di Ernst Jünger. Ha scelto, tra gli altri, anche La città di Dio di Agostino. Sua moglie Elfride è un po’ perplessa: «Oh, Martin, io avrei scelto qualcosa di molto più leggero, dopotutto vai a Wilflingen per vedere una partita di calcio e non per una conferenza». Un brivido, intanto, lo attraversa. Qualche linea di febbre. Elfride lo tranquillizza. Ma Heidegger è inquieto oltre misura: «Non sono fatto per le partenze. Anche un solo giorno lontano da questa casa mi sconvolge, è come se mi tremasse il terreno sotto i piedi. Lo sbandamento è totale. Ma avrò passato del tempo assieme a te? È questo che a volte mi chiedo. Con la mia devozione ai libri, mi pare che ti abbia rivolto la parola soltanto nei ritagli di tempo». Risponde, la sua Elfride: «Il tempo che mi hai dedicato è stato tantissimo. Poteva forse il mondo fare a meno delle tue riflessioni?» Ma il tempo stringe. È il 30 luglio del 1966. A Wembley ci si prepara per la finale della coppa del mondo: è Inghilterra-Germania Ovest. Jünger vi scorge un’esperienza straordinaria. Sublimazione calcistica de Le tempeste d’acciaio e di Essere e tempo. Una finale di calcio diviene un simbolo e una sfida che supera gli angusti limiti del campo di gioco. Heidegger non può mancare. Pur nella sua riluttanza, pregusta la sfida con gli inglesi (“sempre loro come primi nemici”). Poi la squadra sembra promettere bene. È la Germania Ovest di Tilkowski, Beckenbauer, Seeler. Ne parla con Manfred, il suo autista, che ostenta un certo ottimismo: «Si vincerà e sarà Seeler a punire gli inglesi. Sì, sarà lui.» A Wilflingen arrivano in perfetto orario. Jünger lo accoglie evocando quella partita come una simulazione di guerra. Come simbolo di quell’ordigno chiamato Tecnica, ormai incombente sull’umanità. I due filosofi richiamano la finale del 1954. L’Ungheria di Ferenc Puskás, favorita oltre ogni misura e piegata dal pragmatismo e dalla fisicità teutoniche. C’era Fritz Walter in quella Germania Ovest: «Se non ricordo male, Fritz Walter era nei paracadutisti» sottolinea Jünger. Intanto comincia la finale. La Germania è ancora sfavorita, ma la sua difesa tiene: «Osservi come siamo coperti dietro, un catenaccio italiano, si potrebbe dire». Sottolinea Heidegger. Ma la sua fragilità emotiva emerge. Si distrae volutamente non appena gli inglesi superano il centrocampo. Intanto, legge Husserl. «Le pare questo il momento di leggere Husserl?» lo prende in giro Jünger. «Ognuno ha il proprio sistema difensivo. Io al posto di Schultz, Schnellinger e Weber ho Husserl, Tommaso d’Aquino e Schleiermacher». Ragionamento che non fa una piega. Intanto, la Germania va in gol, con Haller. Esulta Jünger. Gli ricorda un fuciliere Haller, con lui nella Prima Guerra Mondiale. Intanto la filosofia si intreccia con il discorso calcistico: «Il fatto che stiano assistendo tutti a questa partita è impressionante. Si può ben dire che la mobilitazione è davvero totale. Come reagirebbero tutti gli abitanti del pianeta se d’improvviso si sospendesse questa sfida?» osserva Jünger. Il calcio è un fenomeno mondiale. Nessun pensiero filosoficamente maturo e attento alla realtà può permettersi di ignorarlo. Intanto, il campo è della reazione inglese. Hurst e poi Peters indirizzano la partita in favore dei leoni. Heidegger è di nuovo febbricitante. Ma la Germania non cede. Quasi a tempo scaduto Weber riporta il risultato in parità. Tempi supplementari. «Il tempo! Quanto tempo ho dedicato al tempo!». Heidegger ora è pienamente sereno. Ad un tratto, però, avviene l’irreparabile. All’11° del primo tempo supplementare Stiles lancia Ball che crossa per Hurst e gira verso la rete. La sfera picchia sotto la traversa e rimbalza sulla linea bianca. Sulla linea o oltre la linea? Il gol fu convalidato infine. Jünger scatta in piedi. La convalida è il simbolo di una semplificazione ormai imperante, di un nichilismo già descritto in Oltre la linea: «Avrà sbagliato l’arbitro? Ma anche lui deve semplificare, come ovunque impone il mondo togliendo ogni interiorità. Sono le regole del Leviatano. Sì, ormai tutto ciò che si contrappone al mondo e al suo ritmo feroce, rimane fuori». È 3 a 2 per gli inglesi. La Germania non si riprende. L’Inghilterra si porta sul 4-2, ancora con Hurst. Il rito collettivo della finale mondiale si conclude con una sconfitta. «È brutto perdere con gli inglesi», ammette Jünger. Una nuova Somme. Una nuova Africa o un fronte russo. Gli scontri mondiali non sembrano fatti per la Germania. La filosofia si fa campo da gioco e ritorna in sé arricchita e complessa. Intanto però quel pallone non è chiaro quanto fosse oltre la linea. «È probabile che in futuro la tecnica diventerà così sofisticata e la volontà di potenza così potentemente potenziata che forse si potrà stabilire la verità su quanto accaduto […]. Gol oppure non gol. A questo punto, stabilita la verità, si dovrà riscrivere tutta la storia. Ma gioverà forse a noi tedeschi?» Val la pena di aggiungere: gioverà forse al mondo? Liberamente tratto da “Oltre la linea. Jünger e Heidegger a Wembley”, di Fernando Acitelli (ES, 2018)

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