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Lo abbiamo scritto tante volte: gli ultras sono il capro espiatorio perfetto. Il nemico pubblico numero uno, gli uomini neri da sbattere in prima pagina, magari scrivendo anche che sono nazisti – come fatto da Jacoboni della Stampa con quelli dell'Eintracht (peccato sia vero il contrario). Insomma il bersaglio naturale e ideale per non interrogarsi su altre (e ben più pesanti) responsabilità. Un copione scritto e riscritto, esemplificativo della "povertà mediatica" – rubiamo l'espressione a Simone Meloni – nostrana. Così, nelle ultime ore, sono rimasti tutti sconvolti dal comportamento degli ultras dell'Eintracht Francoforte – e dei loro alleati bergamaschi – in quel di Napoli. Eppure dovremmo saperlo: gli ultras fanno gli ultras, sia quelli dell'Eintracht che quelli del Napoli. Ma l'ordine pubblico chi lo gestisce? E come? Qualche giorno fa Lorenzo Contucci, un'autorità in materia di tifosi, scriveva: «Quando la Gazzetta dello Sport (come tutti gli altri giornali) scrive "Tar Campania, arriva il no definitivo ai tifosi dell'Eintracht: la trasferta resta vietata" ti rendi davvero conto di come funziona l'informazione. Ed allora, il TAR Campania ha respinto il secondo ricorso contro il nuovo provvedimento del Prefetto di Napoli che ha escluso la città di Francoforte dalla vendita dei biglietti. Ciò significa che i biglietti possono essere venduti solo fuori Francoforte MA CHE LA TRASFERTA NON È AFFATTO VIETATA». E ancora: «Ciò che non si è considerato, peraltro, è che i tifosi dell'Eintracht sono per lo più di fuori Francoforte. Quindi si è scelto di impedire una trasferta organizzata PERFETTAMENTE dall'Eintracht Francoforte e di permettere all'80% dei tifosi dell'Eintracht di giungere a Napoli come vogliono loro, senza l'organizzazione del club tedesco. Viene da sorridere, se non ci fosse da piangere. Ora sarà l'Eintracht a decidere se vendere o meno i biglietti che comunque possono essere venduti tranquillamente in tutta la Germania». Chiedendosi infine: «cosa resta da questa telenovela all'italiana?», e concludendo innanzitutto con «una pessima figura internazionale dell'Italia con i tedeschi - letteralmente infuriati - e con la UEFA». Ecco la cornice in cui è maturata la vergogna dell'altra sera: vergogna, ancor prima che degli ultras, di chi doveva gestire l'ordine pubblico. Di una gestione farsesca messa in campo per un appuntamento del genere ben consapevoli di qual era, e quale sarebbe stato, il contesto. Per gli ultras però le logiche si ribaltano, e a parte il classico teatrino politico e gioco delle parti – in cui le opposizioni accusano il governo e il Ministro degli Interni di turno – la gran parte dell'opinione pubblica e dei media è pronta a mettere alla sbarra un unico e solo colpevole: l'ultras. Come se domani un gruppo di anarchici invadesse il Parlamento e tutti si concentrassero sugli anarchici, non su chi ha consetito loro di entrare e imperversare nei palazzi del potere. Chiaramente, il problema è come sia stato possibile che i tifosi tedeschi abbiano fatto il bello e il cattivo tempo per quasi due giorni a Napoli; che 600 persone non riescano ad essere gestite da un Paese del G7, il quale si propone di essere grande e di ospitare grandi eventi, fino a subire la devastazione di un centro cittadino. Come sia potuto maturare un simile "disastro" nella gestione dell'ordine pubblico, a partire da quella dei tifosi ospiti. A questi ultimi, arrivati malgrado lo pseudo-divieto in centinaia già dal giorno precedente alla partita, è stato consentito di prenotare alberghi, essere scortati per più di un giorno dalla polizia (con tanto di spostamenti in autobus, sfilate in città e marce a suon di cori e provocazioni, nel cuore di Napoli contro i napoletani) fino al clima da guerrigli urbana finale. Il prefetto di Napoli Palomba si è giustificato spiegando che è più facile controllare un corteo di centinaia di persone che tanti gruppetti di 30 o 50 individui, e ha ragione, ma è stato anche costretto ad ammettere che per le prossime partite internazionali a Napoli «si stanno facendo sopralluoghi per trovare spazi per l'arrivo dei bus dei tifosi dall'estero». Per concentrare «l'arrivo nella zona del porto e poi portare i tifosi allo stadio». Per le prossime, naturalmente. Ma in questa qual era il piano, oltre al (facile) divieto? Far scorrazzare 600 tifosi tedeschi per "48 ore", come dice il prefetto, per il centro cittadino di Napoli e bloccare (approssimativamente) una città cercando di contenere lo scontro fra tifoserie rivali e mandando allo sbaraglio le forze di polizie – comprensibilmente, piuttosto incazzate? Palomba lo ha rivendicato come un successo, il fatto che siano stati feriti solo 6 agenti e nessun tifoso, ma non possiamo arrenderci all'idea che tutto ciò sia normale. Così come non possiamo rassegnarci a una gestione dell'ordine pubblico lacunosa e insufficiente, non avvezza a fronteggiare simili situazioni perché abituata a praticare, fin dalle leghe minori, la politica dei divieti. Se le trasferte sono vietate, il problema non si pone. Se non parti, non puoi fare danni. Una logica stringente e super efficace, non c'è che dire, ma il fallimento e la resa definitiva di chi l'ordine pubblico dovrebbe gestirlo, non rimuoverlo o esorcizzarlo. Per questo ci ha un po' colpito la stampa nostrana che se l'è presa con il TAR e Ceferin, colpevoli di essersi schierati contro il divieto di trasferta: perché dire semplicemente che 'questa trasferta non s'aveva da fare' è un'ammissione di impotenza; e perché per una volta l'UEFA ha ragione: se non si è in grado di garantire l'ordine pubblico e impedire la devastazione di centri cittadini, non si dovrebbe neanche poter organizzare grandi eventi. Come ha scritto il "nostro" Simone Meloni «quante trasferte con migliaia di tifoserie (anche turbolente) avvengono ogni anno in Europa? Infinite. Quanti divieti vengono comminati? Pochi, pochissimi. E spesso con ragioni quantomeno sensate, non certo per manifesta ammissione di non voler svolgere regolarmente e seriamente il proprio compito». E ancora: «Se non si sanno gestire 5-600 persone, come si vuole organizzare grandi eventi? . D'altronde «è più facile dividere il mondo in buoni e cattivi. Come più facile è vietare». È proprio questo il punto, evidenziato anche da Philipp Reschke, membro del consiglio d'amministrazione dell'Eintracht e responsabile dei rapporti con i tifosi e dell'organizzazione delle trasferte: «I divieti non portano a nulla, privano i tifosi di una partita del genere e non evitano che certe persone arrivino comunque a incontrarsi. Caos e improvvisazione hanno sostituito l'organizzazione che avevamo preparato». Così i tifosi dell'Eintracht, quasi tutti senza biglietto, non solo sono arrivati a Napoli il giorno prima –ricongiungendosi con i bergamaschi –, scortati dalla polizia e imperversando per il centro cittadino, ma hanno anche approfittato di un tragitto che non era predisposto per condizioni simili sfigurando la città e assaltando le forze dell'ordine. Fitti lanci di oggetti, sedie, tavoli e cassonetti, auto bruciate, agenti feriti e scene che non si vedevano da decenni. Il tutto nella mancanza di uomini e mezzi adeguati per la polizia, tra pistole cadute in terra, autobus oggetti di sassaiole (con tanto di autisti feriti) e una giornata di imbarazzo e follia nazionale. Una situazione denunciata anche dai diretti interessati, poliziotti mandati allo sbaraglio in prima linea, come fatto dal segretario del sindacato 'Italia Celere': «A cosa servono tutti quegli uomini se poi sono nascosti altrove e nei punti nevralgici alla fine c’erano solo poche decine tra poliziotti e carabinieri? (...) Chiederemo interpellanza parlamentare, pretendiamo di sapere come mai pochi uomini da soli costretti a ripiegare a fronte dei tantissimi che il questore di Napoli aveva a disposizione dalla mattina. (...) Certe scene denotano una grande e paurosa insicurezza nella gestione dell’Ordine pubblico». Quindi la conclusione: «Perché solo in Italia si vietano le trasferte? Per arginare il problema della violenza-ultras abbiamo gli strumenti, ovvero prevenzione e repressione, vietare le trasferte è un palliativo che non risolve alcunché e quanto sta accadendo ultimamente nel fenomeno calcistico italiano ne è la dimostrazione: alla prima occasione si contano feriti gravi, violenze inaudite, macchine della polizia bruciate e danni al patrimonio. Ognuno tiri le proprie conclusioni, noi le nostre le abbiamo tirate…». A questio punto ci chiediamo, come fa tutto ciò ad essere solo colpa dei tifosi? Veramente un Paese come l'Italia non è in grado di prevedere e controllare l'arrivo di 600 persone? Davvero vogliamo arrenderci a ciò, al fatto che l'unico modo per evitare una simile vergogna (inter)nazionale fosse esclusivamente il divieto della trasferta? In questo caso dovremmo farci qualche domanda non sul calcio e sugli ultras, bensì sul nostro Paese: sulla resa incondizionata di governo, intelligence e forze di sicurezza nazionali. Anche perché la demonizzazione del tifo, seppure caldo e massimalista, è sempre di più una specificità italiana. Tant'è che qui abbiamo vissuto la maglia numero 12, poggiata sulla panchina dell'Eintracht in solidarietà ai tifosi, come un paradosso, un affronto nel giorno in cui la città veniva devastata proprio dal "dodicesimo uomo". Quel 12 quasi fosse una rivendicazione della violenza, come ha lasciato intendere qualcuno. Semplicemente, invece, era il simbolo di un altro modo di vedere il mondo, di un altro modo di vedere il calcio: un calcio che i tifosi li valorizza come una risorsa imprescindibile, e che quando serve li gestise, li controlla, li limita; e si assume responsabilità per evitare che le cose degenerino. Sopra la panchina dell'Eintracht la maglia con il numero 12 (il dodicesimo uomo) in solidarietà ai tifosi. Che qui, chiaramente, abbiamo vissuto come una provocazione Noi invece abbiamo agito all'italiana, nel senso peggiore dell'espressione: con un divieto illegittimo annullato dal TAR, condannato dalla UEFA e poi limitato agli abitanti di Francoforte che comunque sono partiti per Napoli (sembra una barzelletta, ma purtroppo non lo è). A quel punto, rimasti senza il piano A (il divieto), abbiamo mostrato tutta la nostra incapacità nel mettere a punto il piano B (la prevenzione/gestione). Rassegnandoci all'idea che quei 600 esagitati non si potessero controllare. Così De Laurentiis ha chiesto al governo Meloni misure ancora più repressive verso il tifo violento, e di importare sostanzialmente "la legge inglese sugli stadi"; non capendo, anzi fingendo di non capire, che quanto si è verificato a Napoli non c'entra assolutamente nulla con gli stadi. Gli incidenti negli impianti o nei pressi degli stessi non si verificano in Italia da anni, e pure in Inghilterra i tifosi violenti continuano a fronteggiarsi in strada – settimana scorsa è morto un uomo a Blackpool, fuori da un pub, per gli scontri in occasione di Blackpool-Burnley: è una questione di ordine pubblico, non di stadi. ADL lo sa benissimo ma, con simili dichiarazioni in un momento del genere, persegue in realtà il suo obiettivo che è quello di liberarsi una volta per tutte del tifo scomodo: modello Florentino Perez, Andrea Agnelli e compagnia. Peccato ci sia anche qualcuno, come il Sottosegretario agli Interni Prisco (FDI), che si accoda al trend, solletica un po' la voglia sommaria (e confusa) di giustizialismo popolare e non esclude "nuove misure contro il tifo violento", in quanto "bisogna allontanare i violenti". Ma da dove, dagli stadi? A costo di essere ripetitivi: non ci sono violenze negli stadi. E allora da dove li si vuole allontanare? Esattamente, di cosa stiamo parlando? In somma, e in conclusione, è troppo facile sparare sugli ultras: facile come vietare e rifiutare a priori la gestione di situazioni critiche. Forse, è proprio per questo che la musica non cambia. Nel caso contrario dovremmo suonare tutto un altro spartito e indagare non solo responsabilità politiche, ma anche l'inadeguatezza di un intero sistema nell'organizzare e gestire l'ordine nelle maggiori città italiane – così come l'incapacità, italianissima, di far rispettare la legge. La questione sarebbe ben più complessa e ben più spinosa. Per nostra fortuna però, è proprio il caso di dirlo, ci sono gli uomini neri.

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Lo Speciale Mundial di 'Mixer' è stato un sublime teatro dell’assurdo in cui un parterre de roi di attori, rockstar, burocrati e calciatori hanno salutato la vittoria azzurra a Spagna ‘82 sotto la conduzione di Minà, capace come pochi di sublimare sacro e profano. Gianni Minà che si è spento, all'età di 84 anni, l'altroieri. Nato a Torino nel mese di maggio 1938, Minà era rimasto legato alla città nella fede per i colori granata, vissuta “con la rabbia di un pacifista” e condivisa con il fratello Enzo, venuto a mancare - amara coincidenza - solo poche settimane fa. Di Gianni Minà si potrebbe scrivere tanto, come lui ha fatto in vita. Si potrebbe tracimare inchiostro per parlare delle interviste, dei reportage da Olimpiadi e mondiali di calcio, delle cene (come quella con De Niro, García Márquez, Muhammad Ali e Sergio Leone), degli aneddoti e materiali d’archivio che la famiglia sta da qualche tempo riportando alla luce su Instagram. C’è, però, un momento nella carriera del giornalista che potrebbe riassumerla nella sua capacità di sublimare l’alto e il basso, la sfera privata e quella pubblica degli intervistati, il sacro ed il profano. È lo Speciale Mundial di Mixer andato in onda il 12 luglio 1982, l’indomani del trionfo azzurro in Spagna. Nello studio RAI va in onda uno show in cui Minà, con il garbo di un padrone di casa il giorno di Natale, apre le porte del set televisivo a una cornucopia di personaggi che, inevitabilmente, surclassano le sedute disponibili. Sono poltroncine gialle che assorbono i riflettori ardenti dello studio. Li riflette, invece, la fronte imperlata di sudore del conduttore, entusiasta nel suo gesticolare generoso, nella sua inconfondibile S sibillina, nei suoi baffi orgogliosamente mediterranei ed in uno dei suoi abbondanti capispalla giallo canarino. Abiti che segnarono l’iconografia di una RAI bonariamente e paternamente domenicale, come il senso di vuoto che ti avvolge l’indomani della finale di un mondiale. Un servizio pubblico che iniziava a sbottonarsi ed i cui studi si riempivano di coltri di fumo di sigaretta come i salotti delle case degli italiani in cui entrava. Una RAI che sapeva di tabacco, delle prime tastiere sintetiche da giornata uggiosa di Battisti, o degli accordi di pianoforte di Venditti, ospite – tra i tanti – della puntata. https://www.youtube.com/watch?v=Z3gTHKmNqvk&t=2s Se avete un'ora e cinquanta, anche dilazionata nel tempo, vedetevi questo pilastro del situazionismo (sportivo e non solo) italiano. A dirigere, Gianni Minà. Gli ospiti non sono seduti ma accampati, schiacciati su pedane e poltrone, chi in piedi, ma nonostante ciò febbrilmente entusiasti. Eppure c’è una coralità armonica e sorprendente nella caotica entropia del salotto televisivo. Più che la puntata di un talk show, quella andata in onda a culmine dell’estate del Mundial è una sacra rappresentazione, che nella plasticità dei volumi, negli equilibri dei corpi e nelle loro palette riporta alla mente al tempo stesso tante e nessuna opera. A ricordarci che gli stilemi di una certa arte, sia essa sacra o vernacolare, rimangono invariati nel tempo, pur mutando le loro tecniche, i medium ed i soggetti. C’è del Caravaggio, ma anche delle operose scene di piazza di Bruegel. Il teleschermo, totem laico della nuova dimensione domestica degli italiani, diventa così una pala dell’altare su cui rappresentare le più ampie ripercussioni del calcio su un paese che si avvia al post-moderno. Appaiono, tra gli altri ed in ordine sparso, Monica Vitti, Ugo Tognazzi, Beppe Berti, Renzo Arbore, Eleonora Giorgi, Sergio Corbucci, Adolfo Celi, Carlo Lizzani, Zeudi Araya, Alberto Bevilacqua, Pino Caruso. Sandra Milo, reclinata su un divano come una Paolina Bonaparte del servizio pubblico, tira le orecchie alla stampa per aver messo in croce la nazionale ad inizio torneo. Non può mancare Paolo Villaggio, ad una cui narrazione iperbolica diretta da Luciano Salce sembra appartenere la sceneggiatura di queste due ore di televisione. L’attore sottolinea come il mondiale azzurro sia stato la gioia della vita per una generazione, la sua, che non aveva mai vinto nulla. “Io non ha mai fatto la Resistenza, né il boom industriale, né il Sessantotto. Ho perso sempre tutto: un impero coloniale, guerre e mondiali, la guerra di Spagna, la Libia subito […] È la prima volta che vinco qualcosa da italiano”. Su un divanetto a semicerchio da balera, compressi come studenti all’ultima fila dell’autobus che li porta in gita, assieme ai vertici di FIGC, CONI e ministeri competenti, due dei marcatori della finale Paolo Rossi e Marco Tardelli e, nel mezzo, a fare da baricentro Minà. Il pubblico applaude, qualcuno urla “Bis!”. Se la ghigna Pablito. Anni più tardi, Tardelli racconterà del ritorno a casa, in auto con Venditti ai 200 all’ora per le strade della capitale. Fu proprio quel giorno, in quello studio, che scattò la scintilla con la giornalista Stella Pende, sua futura moglie. A un certo punto, da Torino, appaiono in collegamento i Rolling Stones, che la sera prima si erano esibiti al Comunale, dove Jagger aveva cantato in maglia azzurra. La mano di un tecnico lancia, priorità, un accendino ed un posacenere ad un Keith Richards sornione. Nemmeno a dirlo, anche qui il divano è troppo piccolo per tutti. Immaginate trovare posto anche per Claudio Gentile, a cui il frontman dona un pallone-centrotavola. Minà incita, senza apparenti motivi, Tognazzi, totalmente digiuno di inglese, a porgere domande alla band. Ne scaturisce un aneddoto surreale sulla volta che uno di loro era stato a casa sua a giocare a biliardo. Si scopre poi che Bill Graham, manager della band, scampato da un campo di concentramento tedesco e diventato tra i più grandi agitatori della controcultura statunitense, è grande amico di Lina Wertmüller. Jagger scherza sul fallimento dei 3 Leoni, raccontando come avesse scommesso soldi sull’Italia sotto imbeccata di un veggente, Gipsy Tony. Se questa puntata di Mixer non è magia, per lo meno è il più grande teatro dell’assurdo andato in onda sulle reti televisive italiane. Ci perdonerà Carmelo Bene. Un freewheeling di volti, parole, sguardi, sigarette, gesticolazioni, sudore. È forse stata più situazionista questa ora e cinquanta rispetto al Punk scoppiato pochi anni prima a Londra, e a cui gli Stones avevano vacillato e resistito con il loro rock d’antan, proprio come gli Azzurri. Partiti per spacciati e usciti trionfanti. La Speciale Mundial di Mixer è un autentico carnaio, nell’accezione più verace, e dunque libera da negatività, del termine. Incarna vizi e virtù di un popolo, quello italiano, tanto sguaiato e caciarone, quanto tronfio ma altresì impacciato fuori dai propri confini e un poco vile. Vedi Tognazzi in dialogo con gli Stones, o l’autoindulgente opportunismo con cui il Belpaese ha sempre sfruttato i trionfi mondiali per lavare, o meglio insabbiare, l’onta degli scandali del calcioscommesse. La sensazione è che la presenza in studio di una Wertmüller o di un Lizzani in qualche modo giustificasse, senza vergogna – e perché, d’altronde, averne?! – l’esuberante carnevale latino. Anzi, c’è del gusto in questa discesa agli inferi della scompostezza e del giubilo da parte della crema dell'intellighenzia nazionale. Un po’ come nell’episodio della trattoria ne 'I Nuovi Mostri'. Chez Minà ci sono tutti: rockstar internazionali e cantautori romaneschi, dive e attricette, intellettuali e maschere della commedia all’italiana. Nessuno escluso, tutti con la stessa dignità e la loro voce. Come Minà aveva intuito, un giornalista sportivo può passare da Diego Armando Maradona a Fidel Castro, dai Beatles a Cassius Clay, anche senza soluzione di continuità. A ricordarci che lo sport è anche, se non soprattutto, società, politica, costume. Lo sottolinea ad inizio puntata, contro un greenscreen squisitamente kitsch, come si tratti di «una lettura di costume, di spettacolo, anche tecnica, del mondiale vinto dall’Italia». Come il suo Torino, quello dello scudetto conquistato da Gigi Radice, fu capace di fare propria la lezione del calcio totale dell’Olanda di Cruijff, Minà ha saputo essere un giornalista ‘totale’. Si pensi a come il suo grande amore, la boxe, tornasse anche quando trattava di calcio. Di Enzo Bearzot, condottiero dell’Italia Mundial con un trascorso in maglia granata, Minà scriveva «Aveva una faccia da boxeur, ma come i vecchi eroi del ring era un romantico». È proprio a Mixer che le telecamere RAI mostrano le celebri immagini della nazionale sull’aereo di ritorno dalla Spagna, quelle della partita a carte tra Zoff-Pertini e Causio-Bearzot. Un atto della semplicità del quotidiano quasi impensabile a sole poche ore dalla tensione agonistica di una finale mondiale. Sarebbe troppo semplice, nonché riduttivo, scrivere che si trattava di altri tempi, calciatori ed uomini. Che era un’altra Italia e – perchè no – un altro giornalismo. Eppure, nella retorica spesso si ritrova un fondo di verità. Senza dubbio, si facevano più cose per urgenza di cronaca, meno per velleità di telecamera. «A sorpresa la camera è arrivata su di me. Sono un po’ emaciato, qualcuno troverà forse anche da ridire, ma un cronista lavora in queste condizioni», così si apre la puntata il giornalista. Minà, mediatore dell’alto e del basso, del sacro e del profano nella televisione italiana, non ebbe mai paura di perdere la visibilità offerta dal teleschermo. Il suo rapporto con la RAI finì, qualche tempo più tardi, a causa della sua intransigenza ai compromessi ed ai dietrofront. Mai davvero nazionalpopolare come l’accondiscendente Baudo, mai insistentemente voyeuristico come Costanzo. Rimane questa puntata a ricordo di un calcio e di un’Italia che perdono uno dei loro ultimi grandi narratori.

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