La Guerra del Tennis
Tennis
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30 Aprile 2025

La Guerra del Tennis

La PTPA ha lanciato la sfida agli organi mondiali del tennis.

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Un allenatore molto più bravo di altri spinti dalla stampa.
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Ora, magicamente, si torna a parlare di sport russo.
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09 Marzo 2025

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Una storia travagliata di oltre un secolo.
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Il rifiuto dell'UEFA può portare la Groenlandia in CONCACAF.
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30 Marzo 2025

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Riflessioni sulla crisi del tennis americano.
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Mikaela è la più grande sciatrice di sempre, uomini inclusi.
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Una crisi di identità sportiva dalla quale sarà difficile uscire.
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Arbitra, trans, israeliana. Mica era semplice.
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Il calcio italiano in ginocchio dai giganti del betting.
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Appello alle curve: tornate a fare opere per il sociale.
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03 Marzo 2025

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Cosa è accaduto a Lazio v Torino? Intervista a Marco Anselmi.
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Cosa significa tifare lo Spezia.
Certe battaglie vanno combattute insieme
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30 Marzo 2025

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Intervista a Federico Pesavento di Federtifosi.
La scintilla del fermento giovanile a Lecce
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Intervista al Commando Ultrà Curva Nord - estratto da Fuori Gioco n.6.
Ultras, al di là del bene e del male
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19 Marzo 2025

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Intervista a Lamberto Ciabatti, autore di un libro da non perdere.
Troppe partite, troppi infortuni, un prodotto scadente
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Michelangelo Freda
16 Dicembre 2024

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Intervista a Umberto Calcagno, presidente dell'AIC.

Editoriali

Andrea Mainente
29 Aprile 2025

Ode agli sconfitti

Ode agli sconfitti
Se è vero che i nostri corpi cantano, che alcuni gesti descrivono nell’aria versi precisi e non più ripetibili, vi sono allora dei loro frammenti (ossa, giunture, nervi…) che vanno letti come metonimia: una parte esatta per una totalità più grande. La bava alla bocca per un rigore sbagliato al novantesimo, le pose sguaiate di un’esultanza, le scapole sporgenti mentre si aspetta un passaggio che non arriverà mai. A guardarci da fuori, non esiteremmo a definirci ridicoli. A sostenere, con Thomas Bernhard, che lo sport, in fondo, altro non è che «l’alibi preferito per giustificare la completa assurdità del singolo individuo». Viene persino da dargli ragione; e l’insensatezza di un infortunio che si ripete, di un fegato eternamente eroso dalla bile, chiede conto della nostra assurda ostinazione. Eppure, chi ha gioito anche solo una volta al più insperato dei gol allo scadere, non può cedere a una simile, velenosa tentazione: come definire altrimenti il fremito di un corpo lasso, che si accascia al suolo, stremato dopo una corsa? O quello di una bocca che addenta la borraccia, a ginocchia piegate, sulla sommità di una cima ambita? Oppure ancora il sussurro di parole ripetute a denti stretti, quando al triplice fischio il portiere si trova a fare i conti con la vanità della sua impresa? Chiunque lo abbia praticato, seguito o semplicemente guardato di sfuggita, sa bene che lo sport è un piccolo teatro in cui vanno in scena le medesime dinamiche della vita quotidiana, magari esasperate, addolcite o ridotte a farsa. E, anzi, è forse proprio questo che ce lo fa piacere a dismisura. Sia che si interpreti un ruolo da protagonista, sia che ci si accoccoli sulla poltrona d’onore a bearsi dello spettacolo, questo mondo in miniatura diventa, fin troppo spesso per essere un caso, lo specchio magico dei peggiori vizi e delle più nobili virtù. Per giunta, il gioco competitivo, con le sue leggi del tutto speciali proprio perché chiare, si dimostra il perfetto atto di ribellione contro l’inesorabile regolarità della natura. Giochiamo, falliamo, ci gloriamo di una vittoria in uno svago che, come atto gratuito e creativo, cioè in-utile e non necessario, ci fa per un attimo sfuggire all’arido meccanismo delle cose. Anche e soprattutto nella sofferenza che questo sforzo, indipendentemente dal risultato finale, sempre comporta. Ci divertiamo, è vero. Ma non è solo sollazzo e riso. È un meccanismo, questo, che prevede dei sacrifici non secondari, un dazio da pagare al tavolo di cambio che fa rabbrividire, se solo si cercasse per un attimo di trattare con l’abaco qualcosa che sfugge a ogni razionalizzazione da contabile. Se infatti si mettono in fila gli sportivi professionisti, i dilettanti, i ciclisti della domenica, i tifosi da stadio e quelli da salotto, non può non inquietare questa semplice realizzazione: che ogni fine settimana, ogni giovedì di coppa, ad ogni finale di torneo, il numero di quelli che piangono, che stringono i pugni per la sconfitta o per un maledetto incidente capitato come una punizione del cielo, è innumerevolmente più grande di quello dei vincitori. Eppure se poi c’è gioia, s’intende gioia pura e vera come nessun’altra, essa sta proprio nel riscatto di tutte le sconfitte ruminate nel silenzio di uno stadio vuoto, gli sfottò patiti sul luogo di lavoro, la consapevolezza del sacrificio per ottenere l’alloro tanto agognato e prima di allora sempre sfuggito per un soffio. E che comunque domani non sarà più mio. La biografia della stragrande maggioranza degli atleti è costellata di croci, tra le quali spunta di tanto in tanto una medaglia. Il 99% dei tifosi, poi, conosce più batoste che tripudi e, fatta eccezione per pochi privilegiati, assistiti da un destino benevolo che ha concesso loro di primeggiare avidamente sugli avversari, gli altri si cimentano in fatiche immani e per le quali è giusto in fondo chiedersi se ne sia valsa la proverbiale pena. Per ogni vincitore cento sconfitti, mille scartati; per ogni puntata vinta, un milione andato in fumo! E che dire delle diete con cui si sottomette il piacere alla volontà, del sudore che inumidisce i muscoli tesi, delle rinunce, dei lividi, delle contratture, le cicatrici, le trasferte senza fine, le orecchie arricciate, la militaresca osservanza di orari rigidi e ritmi massacranti, la durezza del tappeto al rintocco dell’ultimo round? A che valgono dunque queste fatiche e questi ostinati tentativi – gli arabi a ragione direbbero: questo jihād – per una guerra dalle punte smussate, una giostra dove non si uccide né si viene (quasi mai) uccisi? Per qualcuno (Welte) è «prefigurazione della vita beata». Ma lo è quando il gioco rimane tale: le pallonate di un fanciullo contro la porta del garage nella calura di un luglio interminabile. Chiunque abbia giocato sul serio, sa che in palio c’è, il più delle volte, qualcosa d’ulteriore. Eppure una stagione infernale talvolta compatta un ambiente ed esalta una tifoseria organizzata più di tante annate scialbe, da vivacchio. Nulla rinfranca gli animi più della solidarietà senza interessi del fallimento. Tanto più se si perde sempre, o perlomeno così tanto che la somma delle vittorie non riesce nemmeno ad emergere dall’ombra delle sconfitte . . . Continua a leggere (gratuitamente) foto Sebastian V. (Pexels)

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15 Marzo 2025

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25 Gennaio 2025

Evonne Goolagong, la rivincita degli ultimi

Ciro Cuccurullo
04 Dicembre 2024

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16 Ottobre 2024

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25 Settembre 2024

Giorgio Vaccaro, lo Sport come religione

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24 Settembre 2024

Marco Tardelli, una storia italiana

Simone Mastorino
15 Settembre 2024

Paolo Vanoli, nessun compromesso

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Il calcio italiano è contro i tifosi e contro il buonsenso.
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Il legame profondo, ed eterno, tra un club e la sua gente.
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20 Aprile 2025

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Sorrento-Avellino e l’arte dell’equilibrismo istituzionale.

Cultura

Marco Milano
02 Aprile 2025

Rassina contro URSS, la partita dimenticata

Rassina contro URSS, la partita dimenticata
Quarant’anni e poco più, la rossa Toscana che diventa…russa, una partita storica. L’allora Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, altrimenti detta URSS, maglia rossa e tanta paura che potesse dominare nel calcio e negli altri sport approda in Italia. Occasione è l’amichevole con gli impari avversari del Rassina, piccola, piccolissima ma orgogliosa realtà del football locale. Squadra tosta, Prima Categoria al massimo del suo splendore, in campo ragazzi del settore giovanile, delle scuole, di Chitignano, Rassina e Talla, e una società composta da un gruppo di amici. Calcio sano, calcio di un tempo. Il segretario tuttofare, il sindacalista che viene a dare una mano, il presidente che ci rimette soldi di tasca sua. Rassina simbolo di un mondo del calcio, romantico e vero. Ma anche Rassina, terra di Toscana, regione con il mito rosso, prima, durante e…dopo l’Unione Sovietica. E le trasferte sulla direttrice URSS-Toscana. ad onor del vero, in quel periodo erano molte. Il trait d’union era il Centro Tecnico Federale di Coverciano, ed in particolare nei mesi invernali gli ospiti sovietici si recavano sovente in Italia per acquisire novità ed imparare dalle innovazioni tecnico-tattiche dei paesi occidentali. Quale migliore posto, dunque, “dell’amica” Toscana che insieme all’indubbia competenza calcistica ci metteva anche quel fil-rouge, quella particolare sensibilità da parte di amministrazioni comunali ed istituzioni. Arrivano dalla madre Russia, e tutti pronti, cittadinanza e fieri sindaci, energici assessori, tanti “Peppone” ma senza i Don Camillo a far da contraltare. Insomma, il laboratorio di calcio per l’URSS che puntava al grande dominio nello sport era considerato senza se e senza ma la terra di Dante, che sentiva forti e vigorose le proprie radici comuniste. Una partita a suo modo leggendaria, o meglio storica, perché di storia più che di leggenda si tratta / Foto da Corriere Fiorentino E a scartabellare documentazioni e scritti di storia locale toscana si ha la conferma che il simbolo comunista, molto in voga da queste parti, era visto anche, e soprattutto, veicolato e issato come sacro vessillo proprio dagli amici sovietici in spedizione in Italia. Lo racconta bene, e con una minuziosa raccolta di foto e documenti ne “Il mito sovietico nel PCI in Toscana”, Andrea Borelli con la collaborazione scientifica di Daniela Faralli ed Emanuele Federico Russo, edito dalla casa editrice ISRPT Editore nell’ottobre 2023.  «Dopo la Seconda guerra mondiale nella loro militanza quotidiana i comunisti toscani assorbirono e riadattarono all’interno della propria identità politica una fortissima connessione politico-sentimentale con l’URSS». Così si legge sull'istituto storico della resistenza circa il libro in questione. E ancora: « Con il passare del tempo il mito sovietico perse quella carica di mobilitazione politica che lo aveva caratterizzato inizialmente, soprattutto negli anni di Stalin, e trasformò sempre più i propri simboli in chiave ‘pop’, utilizzando un registro molto simile a quello del mito americano a sua volta ampiamente diffuso nel Bel paese. Eppure, nonostante l’emergere negli anni '60-'70 anche di mitologie politiche terzomondiste, resistette tra una parte dei comunisti toscani quel legame sentimentale-passionale con l’URSS, un legame per certi versi in grado di arrivare fino ai giorni nostri».    Ma quella tra URSS e Rassina è una partita che resta nella storia, più delle altre; unica, e soprattutto da tramandare con i ricordi più che con i documenti, con i racconti emozionati di chi c’era. Un racconto che si può immaginare metaforicamente seduti, accoccolati, sulle robuste ma logore ginocchia di qualche nonno toscanaccio, pipa in bocca, carattere burbero e cuore d’oro. Il racconto, sì, perché in realtà di quella partita c’è ben poco di altro. Scherzo del destino a minare la cronaca di una giornata indimenticabile per i “compagni” toscani sarà, infatti, proprio uno degli strumenti, delle azioni più simboliche ed incisive della classe operaia, lo sciopero. “Gli scioperi, il boicottaggio, il parlamentarismo, la manifestazione, la dimostrazione: tutte queste forme di lotta sono buone come mezzi che preparano e organizzano il proletariato” diceva Josif Vissarionovič Džugašvili, alias Josif Stalin, nato il 18 dicembre 1878 a Gori, morto il 5 marzo 1953 a Mosca, professione politico (dittatore). Perché lo sciopero, sacrosanta scelta proprio per chi cantava “bandiera rossa”, è alla base di quella che viene definita “la partita dimenticata”. A incrociare le braccia, infatti, fu proprio la categoria della stampa, niente quotidiani e niente racconti scritti. E allora la cronaca che diventa storia, il ricordo scientifico da mettere in archivio purtroppo non c’è, e tutto di quella partita è emozionata narrazione di chi l'ha vissuta: dal capitano Renato Cariaggi – «erano di marmo, fortissimi sotto l’aspetto tecnico e fisico. Ricordo che arrivarono con certi cappottoni, come nei film», a Massimiliano Fini, uno che nel 1985 aveva sedici anni ma senza paura allo stadio Comunale di Rassina, contro l’Unione Sovietica allenata dal Ct bielorusso Ėduard Malafeeŭ – sostituito l’anno dopo dal “colonnello” Valerij Lobanovs’kyj –, segnò la storica rete per i padroni di casa. E allora si diventa leggenda anche così, senza vittoria, scontata e ci mancherebbe, di una nazionale di calcio, l’allora Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, ma perché nonostante marmorei calciatori in campo, professionisti a tutto campo, il piccolo Rassina non va a casa a mani vuote. E certo che le otto reti subite non furono poche ma il gol messo a segno dal sedicenne Fini, che ha fatto anche un provino al Milan nel maggio del 1985 e poi all’Arezzo, ma con una carriera rimasta felicemente legata ai dilettanti, è stata, senza ombra di dubbio, la rete della vita. Seppure lui la ricorda così: «A me avevano detto di portare la borsa che nel secondo tempo avrei giocato, ero molto veloce, ma credo che ci fecero segnare per non strafare. I giocatori dell’Urss andavano al triplo di noi e tiravano delle fucilate pazzesche». Erano gli anni di Ivan Drago, dell’Urss “laboratorio” di atleti perfetti, forse troppo. “Ti spiezzo in due”, ma il Rassina no, passione e amore per la propria terra possono più di macchine indistruttibili, la storica partita tra le parti di Arezzo contro l’URSS è oggi conservata gelosamente in bacheca. Tra i pali a incassare il gol di un paese, di una regione, di una generazione di ragazzi da campetto di periferia, è il secondo portiere Birjukov, che ha di nuovo intrecciato la sua vita con l’Italia, quando era nello staff di Roberto Mancini allo Zenit. E in fondo, “certi amori non finiscono fanno dei giri immensi e poi ritornano”, al pianoforte ed al microfono lo sottoscrive Antonello Venditti. https://www.youtube.com/watch?v=zhvPLYWJydE Rassina, Castel Focognano, provincia di Arezzo, cittadina toscana. “Buongiorno principessa”, lui, il premio Oscar Roberto Benigni, in bici quando ne attraversava le strade limitrofe, tra Arezzo, Montevarchi, Castiglion Fiorentino, Cortona, ne “La vita è bella”, omaggiando la donna della quale era innamorato nella pellicola, ovvero, la moglie nella vita, Nicoletta Braschi. Il cinema che emoziona, e forse, chissà, quella partita, finita nell’oblio perché in quell’epoca se i giornali erano in sciopero, ben poco potevano altri mezzi di comunicazione che non esistevano, (si stava peggio? mah..), non meriti, invece, oggi un riconoscimento del grande schermo. Una partita di calcio realizzata e illustrata con la magia del cinema, come in “Fuga per la vittoria” con Sylvester Stallone e Pelè a immortalare un momento fondamentale della storia internazionale, come “Mediterraneo”, su un lembo di terra greca a est di Rodi, nel Dodecaneso, in lingua greca Megisti ma in italiano “Castelrosso”, gioco di parole, come Castel Focognano ma anche rosso, il colore amato dai toscani di ieri e di oggi, il colore della classe operaia, ma anche della nazionale che univa le Repubbliche Socialiste Sovietiche. E perché no? Tornare con troupe, regista, attori e raccontare un’altra storia, quella vera, del piccolo Rassina, con il rosso popolo toscano a tifare per i propri figli da un lato e per il cuore inciso di falce e martello dall’altro. Conflitto interiore. Un po’ come per i napoletani fu la fatale Italia-Argentina dei mondiali del 1990. San Paolo, semifinale, l’azzurro della propria nazionale da un lato e il “corasò” di Diego Armando Maradona, l’avversario dall’altro. “Essere o non essere”, un po’ di qua, un po’ di là. In ogni caso Rassina-Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, match oscurato dallo sciopero dei giornali, potrebbe essere consacrato da un lavoro cinematografico, ma di quelli neorealisti, e in parte esistenzialisti, stile Michelangelo Antonioni. Senza la “g”, quello era Giancarlo, che in Toscana è stato famoso ma per aver giocato al pallone, con la maglia viola della Fiorentina. Questo, però, è un altro film ancora…