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Sinner non fa rumore

Sinner non fa rumore
Nell’Italietta dei faraglioni, quella in cui l’identità nazionale è una riduzione italo-americana, coi baffi impregnati di sugo e carbocreme, Sinner provoca. L’italiano medio non lo sente ‘suo’, non si sente ‘lui’, e tanto meglio per farne un arcitaliano. Jannik non rappresenta l’italiano medio e proprio per questo ne incarna la quintessenza. Tirolese, germanofono, cresciuto tra Sesto e San Candido, lontano da cliché e fisime meridionali, troppo rigoroso per chi cerca il talento istrionico. Sono tutte clausole vuote. La sua lingua madre non è l’italiano così come non è il tedesco, di cui parla una variante che ha lo stesso rapporto del barese con il toscano. La sua compostezza glaciale in campo urta chi confonde l’essere italiano con l’operetta. Ma se l’italiano medio non si sente rappresentato da Sinner, è perché preferisce identificarsi in caricature, ignorando i tratti più profondamente nazionali che lui incarna: la mamma superstiziosa che sussurra preghiere dietro ogni match point, il padre lavoratore silenzioso che ha forgiato con l’esempio una dedizione quasi contadina. Siamo schiavi delle immagini chiassose, come Marinetti ci bollava "incatenati alla pasta come galeotti condannati a vita". L’Italia che applaude solo l’urlatore di turno resta prigioniera di queste catene. Anche nella settimana in cui si ritira dal gioco del diavolo quel guascone italianissimo di Fogna. È italiano anche Sinner, è tanto italiano. Non è freddo, è timido, non è nordico per noi, ma terrone per i mitteleuropei. Siamo l’unico paese d’Europa assurdamente convinto di essere etnicamente diverso. Ma non è così. L’Alto Adige (sic!) è cattolico, agricolo, sospeso nel tempo. E se San Candido è italiana soltanto per meccaniche da trattati di pace, se dalla Val Pusteria portavano al kaiser la sua acqua di fonte preferita, noi non riusciamo a capire che le Tre Cime sono lontane da Roma quanto lo sono da Vienna. Quindi anche se artificialmente, perché non può essere italiano? Il calore smentisce ogni stereotipo: nei rifugi le porte restano aperte, un piatto di suppe si offre senza forma, e le mani callose stringono le tue con forza sincera, le gote rosse delle cameriere con quei sorrisi tanto imbarazzati. Le feste di paese sono ancora scandite dal rintocco delle campane e la solidarietà alpina si misura in legna lasciata alla porta dei vicini d’inverno. La montagna può abbracciare più del mare, con un affetto che non ha bisogno di proclami. È una cultura che fonde fatica e fede, dove l’eleganza sta nel fare senza dire. La gente del Tirolo conosce l’arte del silenzio: sanno che la neve cade senza far rumore e che il raccolto arriva solo dopo mesi di attesa paziente. È quella stessa pazienza che ritrovi nel tennis di Sinner, dove ogni punto è costruito come un muro a secco sulle terrazze della valle, ogni scambio un sentiero scavato tra rocce e alberi. Siglinde, dopo l’attacco di panico allo Chatrier, ha lasciato il Centrale a metà prima partita per una passeggiata snervante, la tipica mamma italiana. Petto gonfio di sentimenti e scaramanzia. Papà Hanspeter, cuoco nel rifugio Talschlusshütte, non ha fatto il pellegrinaggio a Parigi perché doveva lavorare. Lavoro prima, famiglia dopo, senza interferenze con il successo del figlio. Sul campo la stessa cifra: niente esultanze plateali, niente riti di gruppo. Un gioco misurato, un’eleganza letargica, un gesto simbolico. Carlitos, che si vuole emotivo, caliente, figlio andaluso. Al contrario quanto di più freddo e calcolatore il tennis contemporaneo possa offrire: spocchioso nella sua devozione assoluta alla vittoria, programmatico, ogni gesto pensato come un algoritmo. Anche quando sorride, sembra misurare l’ampiezza dell’angolo con la stessa precisione con cui calcola quei maledetti drop eseguiti con il goniometro. I pugni chiusi, i vamos urlati, quelle mani portate all’orecchio del viso tozzo, sono prove di sceneggiatura più che manifestazioni genuine. La sua è liturgia della performance, culto dell’efficienza che si veste di folklore iberico solo per piacere al pubblico e alle telecamere. È il sole di Murcia senza raggi, una corrida senza sangue. La bellezza di questa redazione tiene fede al suo nome: Contrasti Sinner, al contrario, conquista per l’assenza di tutto questo, senza calcoli ossessivi, solo una disciplina che sembra istintiva, naturale, figlia della montagna e del lavoro. Un uomo che non recita, che non costruisce narrative e che è tanto più emotivo di come ce lo stiamo raccontando. Chi cerca nel tennis l’urlo, la teatralità, l’effetto bel paese, resta spiazzato. Ma è proprio l’italiano medio - che non parla dialetti urlati, che lavora, che prega, che soffre e spera - che trova in Sinner il suo riflesso. Non un cliché da cartolina, ma una fisionomia domestica, l’anima di milioni di italiani veri. Eppure, gli altri, gli italioti continuano a non riconoscersi, impegnati a scimmiottare aristoborghesie (piccolissime) da circoli. La convinzione che il tennis sia emanazione di benessere, i primi detrattori sono i centro-meridionali, neo borbonici, che hanno usato la racchetta come dichiarazione di redditi e bene posizionale per la famiglia parvenu. Così come questa massa informe che ha scoperto il tennis l’altro ieri e vi vuole tradurre i principi del tifo, della passione, della religione di popolo che è il pallone. Il trionfo all’All England va oltre: è la certificazione che l’Italia profonda - quella fatta di silenzi, mani in pasta, preghiere sussurrate, orari precisi, coraggio ordinario - può dominare il palcoscenico mondiale senza diventare mascotte. E quando, con il trofeo in mano, ha ringraziato i genitori e l’Italia intera aggiungendo "questa è la nostra vittoria, non solo la mia", ha alzato la coppa come un manifesto: la vera italianità non si urla, si lavora e prega. Foto copertina dal profilo X di Wimbledon

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Una Fotografia tutt’altro che fantasma

Una Fotografia tutt’altro che fantasma
L’ex campione del Mondo Jersey Joe Walcott veste per la prima volta i panni dell’arbitro: allunga la mano aperta e dà inizio al match. La campana suona. Sonny Liston e Muhammad Alì cominciano a saltellare sul ring. Allungano i guantoni uno verso l’altro per prendere il ritmo. Gancio, jab, cross, montante. I piedi si muovono rapidi. La testa oscilla tra le spalle larghe. Gli occhi sono puntati dritti verso l’avversario. Intorno al quadrato, le macchine fotografiche scattano con ritmi altrettanto frenetici. Sono a caccia dell’attimo perfetto, del fotogramma che andrà in copertina. Le dita si muovono sapienti per aggiustare le ghiere e mettere a fuoco, premere il pulsante e scattare. Aspettano qualche secondo che il flash si ricarichi e, dopo una dozzina di scatti, cambiano il rullino. Herb Scharfman occupa il lato del ring vicino ai giudici: la sua autorevole esperienza gli ha insegnato che quello è il lato migliore. Il collega esordiente Neil Leifer è relegato dall’altro lato, tra i pochi ad aver scelto un rullino a colori, e consapevole che la sua macchina può scattare poche fotografie e poco ravvicinate. I 2.434 spettatori occupano poco più della metà dei posti dell’arena buia e fumosa. È il 25 maggio 1965 e al Central Maine Youth Center di Lewiston (Maine) sono tutti pronti ad assistere a una serata che promette di essere memorabile. Ma si rivelerà epocale. Quindici mesi prima, l’ancora Cassius Clay vinceva per la prima volta il Campionato del Mondo dei pesi massimi al settimo round contro Sonny Liston. Quel 25 febbraio 1964 aveva rappresentato uno shock per il mondo della boxe. All’epoca, Sonny Liston era considerato il pugile più temuto del pianeta. Aveva messo KO due volte Floyd Patterson, altro grande campione del tempo, e portava con sé un’aura di brutalità che lo rendeva quasi una figura da film noir: tutti lo temevano, molti lo odiavano, ma nessuno poteva ignorarlo. Era il simbolo della forza bruta, della violenza pura, anche fuori dal ring. Liston, infatti, aveva alle spalle un passato difficile: era cresciuto in una famiglia poverissima, subendo violenze da bambino, ed era finito presto in carcere, dove aveva imparato a boxare. Dopo essere uscito, era diventato professionista, ma non era mai riuscito a scrollarsi di dosso l’ombra dei suoi legami con la criminalità organizzata, in particolare con la mafia americana. E proprio queste ombre aleggiavano anche sul primo match con Clay, in cui Liston era apparso troppo remissivo e la combine sembrava troppo reale. Cassius Clay era poco più che un ragazzino. Aveva già vinto l’oro olimpico a Roma nel 1960, ma non si era ancora affermato e non c’erano motivi di credere che quella medaglia potesse essere più di un isolato bagliore. Insomma, era ancora lontano dall’essere considerato un vero fuoriclasse. Anzi, prima del match del 1964 era dato come nettamente sfavorito: troppo leggero, quasi più “ballerino” che pugile e un po’ sbruffone. In ogni caso eccessivamente chiacchierone per poter sperare di resistere alla furia di Liston. Ritroviamo queste stesse caratteristiche nell’esortazione che Clay rivolgeva a se stesso negli istanti che precedevano quel primo match contro Liston: “Vola come una farfalla, pungi come un'ape. Sonny Liston non è niente. Non sa parlare, non sa combattere, ha bisogno di lezioni di dizione, di boxe. E dopo che mi avrà affrontato avrà bisogno di lezioni su come cadere”. Quella sera, Clay ha compiuto l’impensabile. Liston ha abbandonato alla settima ripresa, e il giovanissimo pugile si è portato a casa una vittoria sorprendente. Il mondo della boxe è rimasto sconvolto: si pensava che Liston avesse fatto finta, o che fosse successo qualcosa di losco. Liston poco dopo ha dichiarato di essersi infortunato alla spalla durante l'incontro, motivo per cui non era uscito all'inizio del settimo round. Ma per molti rimaneva il dubbio sulla veridicità dell’infortunio, alimentando il sospetto di combattimento truccato. Si parlava apertamente di influenze mafiose e scommesse sospette. Inoltre, la percezione che il mondo aveva di Clay stava cambiando per sempre. E l’ormai promessa del pugilato decide anche di cambiare il modo di farsi chiamare. Il giorno dopo il match annuncia la sua conversione all’Islam e il suo nuovo nome: Muhammad Alì. La boxe, da sempre legata ad ambienti poco trasparenti, aveva bisogno di “rimediare” e il nuovo campione meritava un'onesta legittimazione. Si decide così di ripetere l’incontro. La rivincita del 1965, quindi, non è solo un altro, ennesimo, match di boxe. È l’incontro di due mondi, due culture. La possibilità di fare luce su quelle ombre relative agli interessi della criminalità organizzata. Oppure, di alimentare ancora di più il dubbio di combine, screditando ulteriormente il lato sportivo dell’evento. I giovani in cerca di legittimazione sono due quella sera e non sanno ancora che dalle loro mani scatterà la scintilla che, in meno di un secondo, cambierà per sempre le loro carriere. Uno è sul ring con i pantaloni bianchi, le scarpe e le calze altrettanto chiare. Le sue mani sono infilate dentro i guantoni rossi. Il paradenti gli gonfia la bocca. Lo sguardo è concentrato. Il corpo è pronto a muoversi velocemente per colpire in modo profondo e preciso solo dopo essersi creato la giusta possibilità. Il ticket del match (foto: Wikicommons) L’altro giovane è distante pochi metri, sul lato del ring opposto ai giudici, quello con la visuale peggiore. Questa volta, però, non ha avuto bisogno di spingere la carrozzina a veterani di guerra per entrare allo stadio né di offrire una tazza calda alle guardie infreddolite per sguainare indisturbato la macchina fotografica a bordo campo.  Neil Leifer è un fotografo esordiente che deve lasciare il lato migliore del quadrato all’affermato collega Herb Scharfman. Le sue mani poggiano sulla Rolleiflex con flash stroboscopico e può occupare quel posto senza doversi più nascondere.   L’obiettivo del cinquantatreenne Scharfman segue i due pugili che si muovono sul ring. Dopo solo un minuto e quarantaquattro secondi dall’inizio dell’incontro, Liston è a terra. Alì ha già pronto il secondo colpo a destra, ma non serve. Il suo avversario non ha energie per rialzarsi da quel gancio sinistro che sembra averlo solo sfiorato, quasi dolcemente. Dall’alto dei suoi centonovanta centimetri guarda Liston incredulo e lo provoca. Scharfman abbassa leggermente l’obiettivo scoprendosi il volto. Leifer preme l’otturatore della sua Rolleiflex.  Il rosso guantone destro è immortalato mentre batte sordo al limite tra il petto e il braccio sinistro, negli occhi lo sguardo severo accompagna le urla decise per spronare l’avversario ad alzarsi e combattere. Liston è a terra, immmobile, con le braccia alte e le gambe semipiegate. Scharfman ne intravede una parte tra il corpo possente di Alì. Per la giovane promessa del pugilato è impossibile tornare all’angolo e aspettare il verdetto. La carica di adrenalina è ancora alta e Alì è già dall’altra parte del ring. Corre, salta, cerca di liberarsi da Walcott che invano prova a placare l’energia del pugile. L’arbitro sembra dimenticarsi del nuovo ruolo che riveste. Passano quasi quattordici secondi quando Liston si rialza e il match riprende. Il cronometrista a bordo ring avvisa Walcott che il pugile è stato a terra per più dei dieci secondi consentiti. Il match è finito, Alì si conferma campione del mondo. Il momento del KO. Dall'altra parte del ring il povero Scharfman, l'altro lato di questo storia. (foto: Wikicommons) La regola delle tre C, che molti fotografi annoverano come dogma, si conferma ancora una volta veritiera. Per un buono scatto è necessario il cuore per cogliere le emozioni e vivere con empatia le situazioni immortalate, restituendo un’immagine che sia in grado di trasmettere sensazioni simili. Quindi la parte razionale: il cervello è necessario per affinare la tecnica, trovare la giusta composizione e scattare consapevolmente. Infine c’è il fattore incontrollabile, che tanto fa dannare gli uomini perché non dipendente da loro. Se vogliamo mantenere la C e non essere troppo espliciti, potremmo definirla casualità fortunata: quell’inspiegabile magia che permette di trovarsi nel momento giusto al posto giusto. Dagli spalti si sente vociferare e poi si riconoscono distinte voci che gridano allo scandalo perché non sembra possibile credere che il colpo sia andato a segno. Nell’immagine catturata da Leifer, l’atmosfera è nebulosa come il comportamento di Liston. I commenti degli anni successivi sottolineano la collusione dell’“Orso” con gli interessi della mafia e affiorano ipotesi di intimidazioni subite dalla Nation of Islam (religione a cui si era da poco convertito Alì). Ma l’unica cosa che conta è che poco dopo le 22.30. Liston è adagiato per terra colpito, stremato, annientato. Come la sua carriera da lì a poco. E quell’attimo è immortalato per sempre. L’immagine di Leifer cattura una delle prime grida del pugile che da lì a poco diventerà un punto di riferimento per la lotta dentro e fuori dal ring, pronto a caricarsi sulle spalle temi sociali che andranno ben oltre l’ambito sportivo. Quando la fotografia si asciuga e i dettagli si delineano, Leifer scopre che dietro le corde dall’altra parte del quadrato, incorniciato tra le gambe del protagonista, compare un paio di occhiali con la montatura spessa e nera. Scharfman si trova catapultato improvvisamente davanti all'obiettivo. Cervello. Lo spiega Leifer stesso: “Un segreto è il colore, in Europa e in America al 90 per cento tutti usavano il bianco e nero: una foto dell'agenzia Ap, uguale alle mia, ma rettangolare, scattata da John Rooney, non ha avuto lo stesso successo. I pantaloncini bianchi, quelli neri di Liston, i guantoni rossi. Colori perfetti. Come la rabbia di Ali, un campione che rivendicava giusti diritti: nel suo gesto c'è un'epoca”. Casualità fortunata. Come se non bastasse la rivincita, come se non bastasse la scelta non arbitraria del lato del ring, aggiungiamo che quel secondo match tra Liston e Alì non doveva nemmeno essere combattuto nell’arena di Lewiston. Era previsto per Boston, ma le autorità della capitale del Massachusetts revocarono il permesso a poche settimane dal match. Le tensioni esuberavano dall’ambito sportivo, si temevano disordini e rivolte. Il match era sotto osservazione dell’FBI, che temeva manipolazioni e influenze mafiose. Cuore. Leifer è patito di boxe, la passione gli è stata trasmessa da suo padre che lo portava a vedere i combattimenti fin da bambino. Sempre in giovane età, da ragazzino si è avvicinato alla fotografia grazie a un'organizzazione che offriva corsi gratuiti ai giovani di famiglie povere della zona (con lui c'era anche Stanley Kubrick, per citarne uno). Lewiston era una città tranquilla e isolata, considerata sicura e facilmente controllabile. L’arena poteva ospitare solo poche migliaia di persone, e per di più fece il record negativo di spettatori per un match valido per il titolo mondiale dei pesi massimi. Sembrava esserci quasi più affollamento della stampa che del pubblico. E tra di loro si nascondeva anche Leifer. Che, dopo il match, consegna in ritardo la fotografia e perde la prima pagina. Il suo lavoro, però, sarà in grado di uscire dalle riviste e vivere di vita propria. Nella sera del 25 maggio 1965 è racchiusa una fortunata serie di eventi, tanto brevi quanto epocali. La mano di Alì, o meglio il suo guantone rosso, ha toccato per quattro centesimi di secondo il mento di Liston, talmente veloce e talmente controverso che sarà “il pugno fantasma”. Proprio nella stessa ombra si sono mosse le dita di Leifer, alle quali è bastato un quarto del tempo per immortalare quella che diventerà una delle immagini più iconiche dello sport, di un’epoca e di uomini che da quella sera in poi non sarebbero mai più stati gli stessi. Liston scomparirà dalle scene, Scharfman continuerà a scattare fotografie di altissimo livello. Gli esordienti Leifer e Alì, poco più che ventenni, diventeranno due icone. Le loro carriere si incroceranno per altre 35 volte, ognuno con le mani pronte a illuminare il ring e non solo. Esattamente sessant'anni nascevano, insieme, un nuovo modo di intendere il pugilato e una nuova fotografia sportiva.