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Andrea Antonioli
10 Dicembre 2024

Lo stadio come iper-luogo

Lo stadio come iper-luogo
Chiariamo subito: questa indagine non riguarda gli ultras, né le curve (per quanto, per sineddoche, le curve siano spesso rappresentative dello stadio tutto). Questo approfondimento vuole invece concentrarsi sul luogo stadio, sulla sua funzione essenziale, psicologica e quasi filosofica, in senso lato culturale. Perché troppo spesso si tratta degli stadi come se fossero contenitori vuoti, impianti in cui gruppi di persone si trasferiscono per continuare ad essere quello che già sono: principalmente ultras o famiglie, questo il modo in cui una narrazione polarizzata da bianco o nero, buoni o cattivi, tende a presentare la questione. Si parla dello stadio come porto franco in cui tutto è concesso, “ostaggio” delle curve e del tifo più caldo, oppure dello stadio come luogo di intrattenimento, un teatro ma più partecipato, in cui seguire la partita come fosse un’experience, uno spettacolo in vivissima definizione. Ciò che non viene invece mai tematizzato è il ruolo dello stadio come luogo trasformatore: luogo capace di cambiare, decentrare, portare al di fuori di sé e influenzare profondamente – per quei 90 e oltre minuti – un individuo e così masse di persone. C’è una vasta letteratura, più o meno psicoanalitica, sui meccanismi apparentemente irrazionali delle folle. Apparentemente irrazionali perché filtrati con la lente delle società occidentali, progredite e ultra cerebrali, laddove l’uomo è identificato con la massima espressione e realizzazione della razionalità. A fondamento delle nostre società sta una caratterizzazione dell’essere umano, il quale si distinguerebbe dagli altri animali in quanto ζῷον λόγον ἔχον, l’animale che ha il logos, formula aristotelica che viene trasferita in latino come ‘animal rationale’. Così facendo però si confonde il logos, termine dalle inumerevoli sfumature, con la ratio. Ma ciò che i Greci sapevano 2500 anni fa, e con un grado di indagine assai più sviluppato del nostro, è che l’humanitas, la particolarità umana, non può essere ridotta solo alla sua dimensione razionale. Un presupposto che invece noi oggi assumiamo integralmente e ci porta ad avvertire come inferiori, non pienamente realizzati/emancipati, fermi a uno stadio precedente dell’esistenza tutti coloro che si comportano in modo apparentemente – secondo i nostri canoni – non razionale. Così nel mondo moderno occidentale solo delle esperienze collettive sono state in grado di schiudere, e di portare alla ribalta, altre dimensioni umane che sfuggono agli stretti binari dell’utile e del ‘ragionevole’. E come si è fatta un’indagine sulla psicologia delle masse, delle società, dei popoli, bisognerebbe svilupparne una simile sulla psicologia dei luoghi. Ci ha pensato Marc Augé, grande antropologo francese scomparso un anno fa, passato alla storia per aver teorizzato i cosiddetti “non luoghi”, spazi neutri che non garantiscono una reale forma di comunicazione – e benché meno di trasformazione – tra le persone: le sale d’aspetto di stazioni e aeroporti, gli autogrill, i centri commerciali, gli ipermercati, le catene alberghiere. Non luoghi, oggi, rischiano di diventare pure gli stadi moderni: quelli del consumo sportivo, dell’esperienza esclusiva, dello spettacolo a cui assistere; le nuove Arene e i nuovi Stadium, tutti diversamente uguali e tutti omologati. L’opposto, tanto per intenderci, degli stadi tradizionali: iper luoghi – prendendo in prestito la definizione che Bruno Barba ha dato degli spogliatoi – per eccellenza. Con la creazione dei nuovi impianti (di proprietà), i grandi club e le élites del calcio si propongono di creare dei (non) luoghi in cui i partecipanti vadano per godersi al massimo l’esperienza: dal vivo anziché sul divano, con grandangolo, visuale periferica e in 1000K, con volume al massimo come se ci fossero delle casse portentose. L’upgrade, visivo e sonoro, del consumo dal plasma di casa. Un’esperienza immersiva, questo diventa lo stadio. Un luogo in cui si va per trasporre la propria vita e le proprie abitudini, non per calarsi in una dimensione collettiva che smuova lo spirito, generi istinti, sveli aspetti dell’umano obliati e repressi. Oggi d’altronde l’uomo occidentale è un fantastico esempio di esperimento sociale, e questo esperimento lo chiamiamo libertà, progresso, umanità. Interamente programmato e profilato come fosse un automa, castrato dei suoi istinti animali, l’uomo solo testa e niente più corpo, solo calcoli e niente più sangue, in un posto poteva ancora sfuggire al modellamento integrale dei comportamenti e ancor prima dei pensieri: allo stadio. Lo stadio come iper-luogo, come oasi e terra selvaggia, come luogo di resistenza e fuga esistenziale. Iper-luogo perché creatore di conflitti e superamenti, capace di generare nuove sintesi, nel quale si sono riversate e definite (sotto)culture; in grado ancora oggi di sprigionare energie altrimenti sopite e forse sconosciute. Luogo in cui l’uomo culturale abdica, parzialmente, in favore dell’uomo naturale. E luogo di cui l’uomo odierno, privato delle sue tradizionali forme di espressione (guerra, religione, politica), soffocato dal totalitarismo della sorveglianza, ha disperatamente bisogno; che sia ultras o meno. Lo stadio come medicina naturale e sociale, come valvola di sfogo per non morire di nevrosi tutte contemporanee – torniamo all’iperbole di Massimo Fini per cui se alle persone levi ogni dinamica espressiva, e oggi pure lo stadio, rischi di finire con i delitti delle villette a schiera o i tentati omicidi nel traffico. Allo stadio l’uomo si trasforma: il semplice ‘bravo ragazzo’ può diventare un “ultras”, l’uomo tutto d’un pezzo uno scalmanato, il disilluso uno rinato a nuova vita, il politicamente corretto quello che più discrimina. Ancora ricordo una decina di anni fa, allo stadio della mia squadra, ero sempre accanto ad un amico di amici che faceva militanza a sinistra: un ragazzo posato, educato, progressista, ma il primo a darci giù con gli ululati agli avversari di colore. Non era certamente razzista lui come non lo sono molti altri, ma qui non si vuole giustificare o condonare i comportamenti discriminatori, tutt’altro, si vuole però far passare un messaggio: è lo stadio che determina certe dinamiche, le quali poi si esauriscono lì. La maggior parte o comunque una buona parte dei “razzisti” da stadio (perché poi qualche imbecille vero c’è), nella vita di tutti i giorni non discriminerebbe mai una persona per il colore della pelle. Ma in quel momento ricorre invece all’insulto che fa più male, alla caratterizzazione più immediata. Doveroso metterci un freno ma non tanto per la lotta al razzismo quanto perché, se certi comportamenti non venissero puniti, questi si espanderebbero a macchia d’olio: e qualora “si potesse”, migliaia di persone ululerebbero agli avversari di colore o li discriminerebbero in altri modi, pur non essendo razzisti o discriminatori. Solo la sanzione allora può scoraggiare, solo la luce (della telecamera) e il biasimo collettivo possono trattenere l’uomo dallo scendere nelle profondità insondabili, e inconfessate, del proprio animo. Infine, lo stadio è forse anche l’ultimo luogo di protagonismo per l’individuo, in cui questo può sentirsi qualcuno e all’interno di qualcosa; soprattutto una volta tramontata la militanza politica, che portava tanti ragazzi nelle strade, nelle piazze, non sempre per cambiare il sistema ma anche per mostrarsi, per partecipare e provare a lasciare un segno. Allo stadio è ancora possibile, e il tifoso gioca un ruolo decisivo nel sostegno alla propria squadra. Una prassi che si è mantenuta nei secoli se, come scrive il professor Christian Mann nel suo saggio “I gladiatori” (Il Mulino, 2014), già nelle arene della Roma antica uno degli aspetti principali dei giochi gladiatori era la partecipazione attiva del pubblico. Qui il popolo esercitava un potere reale e la comunicazione con il sovrano, molto attento agli umori del pubblico durante gli spettacoli (come oggi alcuni presidenti e dirigenti), era bidirezionale. Per citare Mann, che si rifà a sua volta a Cicerone: «nell’anfiteatro il popolo romano influiva direttamente sugli eventi». Certo il tutto era molto diverso da ciò che accade nelle ‘arene’ odierne per una lunga serie di ragioni – prima delle quali, nella Roma antica c’era una valutazione morale e qualitativa alla base del tifo (i gladiatori dovevano essere dei veri e propri “modelli morali”, per cui più si mostravano virtuosi più erano romani). Valutazione morale che di base non si riscontra negli stadi moderni, essendo il tifo per una squadra un pre-giudizio capace addirittura di distorcere la realtà. Eppure due millenni dopo, nelle arene, si ritrovano dinamiche antiche, ancestrali. L’influenza del pubblico di allora diventa, mutatis mutandis, quella del dodicesimo uomo di oggi, che ancora incide – eccome se incide – in tante partite e anche nelle dichiarazioni, nei comportamenti e nelle strategie di allenatori, dirigenti, presidenti. E poi il ruolo dello stadio, che tuttora risente della celebre e spesso travisata formula “panem et circenses”. Spesso si liquida il discorso con la necessità del popolo di avere saziato il corpo (panem) e l’anima con i giochi (circenses), come se le masse avessero semplicemente bisogno di nutrimento e distrazioni. La verità è che i circenses funzionavano proprio perché non erano solo uno ‘spettacolo’, e anche l’espressione spettacoli gladiatori è da questo punto di vista approssimativa, sbrigativa, nasconde il valore e il potere di occasioni in cui gli spettatori non solo assistevano a un evento, ma ne prendevano parte avendo soddisfatti i propri istinti più profondi. I circenses appagavano l’anima ma soprattutto l’anima inquieta, canalizzavano la naturale aggressività dell’uomo che da sempre ha bisogno di una via di sfogo e, se non indirizzata, avrebbe potuto generare pulsioni ribelli e minacciare il potere. I giochi gladiatori erano più vicini alla dimensione della guerra che a quella di un normale intrattenimento. E non erano un’alternativa al teatro come oggi il calcio, per i tifosi veri, non è l’alternativa ad una serie tv – cosa che molti potenti e giovanissimi del pallone non capiscono, trovando invece nel football “un’opzione di intrattenimento tra le altre”, per citare il CEO del Liverpool Peter Moore. Noi ci concentriamo troppo sull’evento credendo che cambi solo la fruizione, e lo stadio garantisca semplicemente un’esperienza più immersiva o più autentica rispetto alla televisione o alla radio. Nulla di più sbagliato. Lo stadio non è un mezzo di fruizione, è la fruizione stessa. Perché i luoghi, soprattutto certi luoghi, non sono neutri: determinano la realtà e gli stessi rapporti tra gli individui. In questo senso, interpretare lo stadio unicamente come un mezzo è propedeutico a un nuovo modello antropologico – quello del consumatore anonimo e delle “folle solitarie” – e alla scomparsa di un altro modello, quello del tifoso tradizionale e delle folle di piazza, di stadio. I nuovi stadi sono pensati proprio per essere dei non luoghi, spazi neutri, della provvisorietà e del passaggio, che non prevedono una vera relazione figurarsi una trasformazione. L’opposto dei “luoghi antropologici”, identitari, relazionali, storici (gli stadi tradizionali), spazi dell’abitare, del radicamento, della dialettica. Un rapporto, quello «fra non-luoghi e i suoi fruitori» che «avviene solitamente tramite simboli (parole o voci preregistrate). Gli esempi lampanti sono i cartelli affissi “vietato fumare” oppure “non superare la linea bianca” davanti agli sportelli», per citare lo studio di Olmo Cerri sullo stesso Augé. E un rapporto regolato da una sorta di contratto non scritto (così lo definiva l’antropologo francese) che l’individuo, divenuto ‘utente’, sottoscrive implicitamente prima di entrare nel (non) luogo in questione, rinunciando alla propria identità e accettando di essere fruitore di un servizio. Ecco che torniamo agli stadi moderni, e alle rigide “politiche di comportamento” delle società, agli annunci stile grande fratello degli speaker, al riconoscimento facciale per accedere all’impianto, alle musiche e agli spettacoli pre e durante la partita, al tifoso trasformato in consumatore. Tutta la narrazione ideologizzata sull’urgenza dei nuovi stadi di proprietà si porta dietro questa mutazione antropologica, quella del tifoso in cliente. E proprio qui sta la sottovalutazione. Dando per scontato che siano solo luoghi, e anzi accettando la narrazione a reti unificate per cui i nuovi stadi di proprietà avrebbero solo vantaggi – “servono per colmare il gap con il calcio europeo”, “saranno più comodi”, “avranno servizi e parcheggi”, tutti ritornelli buoni per il cliente – non riusciamo a identificare la minaccia che si cela nella transizione dai vecchi stadi (iper-luoghi) a quelli nuovi (non luoghi). Certo, poi non è lo stadio a determinare interamente il contesto, e anche nei vecchi impianti il controllo è sempre più esteso perché nella nostra epoca “nulla sfugge alla macchina”. Ma se indaghiamo il passaggio dai vecchi stadi a quelli nuovi capiremo che questo non è mai, o quasi mai, neutro. Oggi non sono più i tempi – o almeno non lo sono nell’Europa progredita – in cui, per citare Eduardo Galeano in ‘Splendori e miserie del gioco del calcio’, «una volta alla settimana, il tifoso fugge da casa sua e va allo stadio. Sventolano le bandiere, suonano le trombe, i razzi, i tamburi, piovono le stelle filanti e i coriandoli: la città scompare, la routine si dimentica, esiste solo il tempio. In questo spazio sacro si consuma l’unica religione che non ha atei». I tempi dello stadio come spazio sacro, ultima frontiera di libertà, come “rito nel fondo anche se evasione” (per prendere a prestito la definizione che Pasolini diede del calcio); come luogo in cui si accede a un’altra dimensione dell’esistenza. Ora è la stessa, e storicamente indiscutibile, definizione di Galeano – il calcio come unica religione senza atei – ad essere entrata in crisi. Come nella società è cresciuto l’ateismo, così è successo anche nel mondo del calcio. Il calcio oggi ha i suoi atei (spesso ex credenti, addirittura) e i suoi agnostici, o peggio i suoi fedeli poco convinti, che in fondo non ci credono più, come chi va in chiesa per abitudine ma appena uscito si dimentica di Dio. Se questo avviene, ed avverrà sempre di più, è pure perché si sono corrotti gli spazi sacri del pallone, le sue cattedrali. Quelle in cui la “fede” nasceva e si fortificava.Quanti casi abbiamo sentito di vocazioni e conversioni religiose legate al luogo? E quanti di innamoramenti, tornando al calcio, avvenuti allo stadio, magari la prima volta che ci hanno portato? Un luogo in cui, come nelle chiese, si perpetuava il rito e si alimentava il mistero, entrando in un altrove difficilmente esprimibile a parole. Una dimensione aliena ad un mondo che ha relegato all’ambito della superstizione, o del folclore, tutto ciò che non è immediatamente visibile per gli occhi e comodo per il culo. In questo desolante scenario, ecco che pure lo stadio diventa solo un (non) luogo: pronto ad ospitare il migliore degli spettacoli possibili. Questo articolo, pubblicato su ULTRA (la nostra sezione dedicata agli abbonati), è oggi gratuito per tutti. 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Certe vite sono scritte dal destino. Chissà se un rabdomante del talento come Luchino Visconti pensò lo stesso osservando quel giovane francese scattare al centro del ring della palestra milanese di via Bellezza 16/a. Una scelta non facile, quella per il protagonista di Rocco e i suoi fratelli. Recita solo da tre anni, ma meritava una chance quella faccia angelica e crudele abbinata a occhi saettanti, uno sguardo sia da preda che predatore. Alain Delon mentre impersonifica Rocco Parondi ha 24 anni e già due o tre vite alle spalle. È perfettamente consapevole dell’occasione che sta vivendo. Sa che un’opportunità può arrivare per tutti, ma che restare al vertice è per pochi. Interpellato sul momento che sta vivendo, Alain stronca le voci sulla sua vita sregolata fuori dal ring: «Ho questa nuova coscienza professionale. Mi sono detto che per sembrare un vero pugile dovevo allenarmi. Ecco perché sono qui in palestra ogni mattina, due ore, tre ore. Non bevo più, non fumo, niente di niente. Non mi considero un attore. Penso che mi ci vogliano più di 10 anni per diventarlo. Essere un attore significa lunghi anni di lavoro». Visconti gongola: gemme del genere non capitano tutti i giorni. Interpretare un sottoproletario italiano emigrante non è cosa facile per un attore così giovane, inesperto e per di più francese. «Ma c’era la boxe che lo appassionava molto nel personaggio di Rocco. Non vedeva l’ora di girare le scene dei match». E non c’è da stupirsi. La straordinaria epopea dei cinque fratelli Parondi, sbarcati nel grigiore di Milano dalla campagna lucana, è una storia in cui Alain può in parte immedesimarsi. Anche in lui c’è quella voglia di riscatto che anima la tensione vitale (ma anche, se non di più, mortale) del film. A un certo punto il fratello Simone, buon pugile ma poco avvezzo alla vita da atleta, deve preparare un match importante e chiede a suo fratello Rocco di fargli da sparring. Il manager della palestra si rintana nel suo ufficio sproloquiando in romanesco nel suo ufficio contro la pigrizia dei meridionali. Ma lo richiamano subito, perché sul ring sta succedendo qualcosa di . . . continua a leggere