Retegui nasconde la polvere sotto il tappeto
Calcio
Tommaso Guaita
24 Marzo 2023

Retegui nasconde la polvere sotto il tappeto

Quello dell'attaccante, per l'Italia, è un problema serissimo.

Ultime

Tutte
Calcio
Altri sport
Papelitos
Interviste
Dovremmo tutti ascoltare Maurizio Viscidi
Calcio
Giovanni Casci
23 Marzo 2023

Dovremmo tutti ascoltare Maurizio Viscidi

Perché non produciamo più talento (offensivo)?
L’arte di perdere, il 6 Nazioni dell’Italrugby
Altri Sport
Lorenzo Innocenti
22 Marzo 2023

L’arte di perdere, il 6 Nazioni dell’Italrugby

Abituati a vivere di rincorse e abbordaggi, abbiamo ceduto alla paura di vincere.
C’era una volta a Viareggio
Calcio
Gabriele Fredianelli
20 Marzo 2023

C’era una volta a Viareggio

C'è ancora spazio per la (ex) Coppa Carnevale?
La Lazio ha governato un derby elettrico
Calcio
Gianluca Palamidessi
20 Marzo 2023

La Lazio ha governato un derby elettrico

E lo ha vinto con merito.
Lazio contro Roma, due anime diverse
Interviste
Marco Impiglia
18 Marzo 2023

Lazio contro Roma, due anime diverse

Un'intervista doppia per indagare storia e carattere delle due tifoserie.
Patrick Tillman per capire gli USA
Altri Sport
Jacopo Gozzi
14 Marzo 2023

Patrick Tillman per capire gli USA

Una storia epica, oscura, meschina. Una storia americana.
Dovremmo tutti ascoltare Maurizio Viscidi
Calcio
Giovanni Casci
23 Marzo 2023

Dovremmo tutti ascoltare Maurizio Viscidi

Perché non produciamo più talento (offensivo)?
C’era una volta a Viareggio
Calcio
Gabriele Fredianelli
20 Marzo 2023

C’era una volta a Viareggio

C'è ancora spazio per la (ex) Coppa Carnevale?
La Lazio ha governato un derby elettrico
Calcio
Gianluca Palamidessi
20 Marzo 2023

La Lazio ha governato un derby elettrico

E lo ha vinto con merito.
Di Canio: “Inzaghi non è un grande allenatore”
Calcio
La Redazione
13 Marzo 2023

Di Canio: “Inzaghi non è un grande allenatore”

A partire dalla comunicazione, ha detto l'opinionista a Sky Calcio Club.
Quando lo Stadio (Olimpico) vince la partita
Calcio
Federico Brasile
10 Marzo 2023

Quando lo Stadio (Olimpico) vince la partita

L'importanza del dodicesimo uomo, soprattutto a Roma.
La Bundesliga è il campionato più combattuto d’Europa
Calcio
Emanuele Iorio
09 Marzo 2023

La Bundesliga è il campionato più combattuto d’Europa

E ad inizio stagione, chi lo avrebbe mai detto?
L’arte di perdere, il 6 Nazioni dell’Italrugby
Altri Sport
Lorenzo Innocenti
22 Marzo 2023

L’arte di perdere, il 6 Nazioni dell’Italrugby

Abituati a vivere di rincorse e abbordaggi, abbiamo ceduto alla paura di vincere.
Patrick Tillman per capire gli USA
Altri Sport
Jacopo Gozzi
14 Marzo 2023

Patrick Tillman per capire gli USA

Una storia epica, oscura, meschina. Una storia americana.
Marco Odermatt, il genio dello sci diventato re
Altri Sport
Mattia Azario
02 Marzo 2023

Marco Odermatt, il genio dello sci diventato re

Lo sciatore più talentuoso della sua generazione ha conquistato il titolo di campione del mondo.
Alessandro Gattafoni: nel mare, la vita
Altri Sport
Matteo Zega
23 Febbraio 2023

Alessandro Gattafoni: nel mare, la vita

Farsi trovare vivi dalla morte.
Enzo Ferrari senza filtri
Altri Sport
Giacomo Cunial
18 Febbraio 2023

Enzo Ferrari senza filtri

Nel dialogo con Enzo Biagi, il Drake si raccontò in profondità.
Fedez e dell’inutilità del karate
Altri Sport
La Redazione
03 Febbraio 2023

Fedez e dell’inutilità del karate

L'occasione per ripassare un po'.
Kvaratskhelia e il calcio bambino
Papelitos
La Redazione
12 Marzo 2023

Kvaratskhelia e il calcio bambino

Il gol contro l'Atalanta ci riporta in un'altra dimensione.
Quando lo Stadio (Olimpico) vince la partita
Calcio
Federico Brasile
10 Marzo 2023

Quando lo Stadio (Olimpico) vince la partita

L'importanza del dodicesimo uomo, soprattutto a Roma.
Commentare una partita e non capirci un tubo
Papelitos
Matteo Paniccia
07 Marzo 2023

Commentare una partita e non capirci un tubo

Se pure la telecronaca (Dazn e non solo) la fanno da remoto.
La non esultanza dell’ex, un’ipocrisia tutta moderna
Critica
Diego Mariottini
06 Marzo 2023

La non esultanza dell’ex, un’ipocrisia tutta moderna

Rispetto può voler dire tutto, ma anche niente.
Il ciclo vincente, bielsista e lunare di Lele Adani
Papelitos
Federico Brasile
05 Marzo 2023

Il ciclo vincente, bielsista e lunare di Lele Adani

Se anche le vittorie si devono interpretare.
Lumini a San Siro
Critica
Lorenzo Ottone
03 Marzo 2023

Lumini a San Siro

A nessuno frega più niente del patrimonio culturale italiano. Neanche agli italiani.
Lazio contro Roma, due anime diverse
Interviste
Marco Impiglia
18 Marzo 2023

Lazio contro Roma, due anime diverse

Un'intervista doppia per indagare storia e carattere delle due tifoserie.
Nel ventre di Napoli
Calcio
Mattia Di Lorenzo
28 Febbraio 2023

Nel ventre di Napoli

Laddove sacro e profano si mischiano, aspettando il Tricolore.
Alessandro Gattafoni: nel mare, la vita
Altri Sport
Matteo Zega
23 Febbraio 2023

Alessandro Gattafoni: nel mare, la vita

Farsi trovare vivi dalla morte.
L’utopia di Antonio Fernandez
Interviste
Andrea Antonioli
09 Febbraio 2023

L’utopia di Antonio Fernandez

Un uomo dalla doppia vita, ma dall'unica vocazione.
A Padova c’è bisogno di fede
Interviste
Jacopo Gozzi
29 Gennaio 2023

A Padova c’è bisogno di fede

Un lungo calvario che vuole essere superato.
Life on the terraces
Estero
Alberto Fabbri
13 Gennaio 2023

Life on the terraces

Seguire la Non League per esplorare l'anima di un popolo: il racconto di Stefano Faccendini.

Editoriali

Andrea Antonioli
17 Marzo 2023

A forza di vietare, non sappiamo più gestire

A forza di vietare, non sappiamo più gestire
Lo abbiamo scritto tante volte: gli ultras sono il capro espiatorio perfetto. Il nemico pubblico numero uno, gli uomini neri da sbattere in prima pagina, magari scrivendo anche che sono nazisti – come fatto da Jacoboni della Stampa con quelli dell'Eintracht (peccato sia vero il contrario). Insomma il bersaglio naturale e ideale per non interrogarsi su altre (e ben più pesanti) responsabilità. Un copione scritto e riscritto, esemplificativo della "povertà mediatica" – rubiamo l'espressione a Simone Meloni – nostrana. Così, nelle ultime ore, sono rimasti tutti sconvolti dal comportamento degli ultras dell'Eintracht Francoforte – e dei loro alleati bergamaschi – in quel di Napoli. Eppure dovremmo saperlo: gli ultras fanno gli ultras, sia quelli dell'Eintracht che quelli del Napoli. Ma l'ordine pubblico chi lo gestisce? E come? Qualche giorno fa Lorenzo Contucci, un'autorità in materia di tifosi, scriveva: «Quando la Gazzetta dello Sport (come tutti gli altri giornali) scrive "Tar Campania, arriva il no definitivo ai tifosi dell'Eintracht: la trasferta resta vietata" ti rendi davvero conto di come funziona l'informazione. Ed allora, il TAR Campania ha respinto il secondo ricorso contro il nuovo provvedimento del Prefetto di Napoli che ha escluso la città di Francoforte dalla vendita dei biglietti. Ciò significa che i biglietti possono essere venduti solo fuori Francoforte MA CHE LA TRASFERTA NON È AFFATTO VIETATA». E ancora: «Ciò che non si è considerato, peraltro, è che i tifosi dell'Eintracht sono per lo più di fuori Francoforte. Quindi si è scelto di impedire una trasferta organizzata PERFETTAMENTE dall'Eintracht Francoforte e di permettere all'80% dei tifosi dell'Eintracht di giungere a Napoli come vogliono loro, senza l'organizzazione del club tedesco. Viene da sorridere, se non ci fosse da piangere. Ora sarà l'Eintracht a decidere se vendere o meno i biglietti che comunque possono essere venduti tranquillamente in tutta la Germania». Chiedendosi infine: «cosa resta da questa telenovela all'italiana?», e concludendo innanzitutto con «una pessima figura internazionale dell'Italia con i tedeschi - letteralmente infuriati - e con la UEFA». Ecco la cornice in cui è maturata la vergogna dell'altra sera: vergogna, ancor prima che degli ultras, di chi doveva gestire l'ordine pubblico. Di una gestione farsesca messa in campo per un appuntamento del genere ben consapevoli di qual era, e quale sarebbe stato, il contesto. Per gli ultras però le logiche si ribaltano, e a parte il classico teatrino politico e gioco delle parti – in cui le opposizioni accusano il governo e il Ministro degli Interni di turno – la gran parte dell'opinione pubblica e dei media è pronta a mettere alla sbarra un unico e solo colpevole: l'ultras. Come se domani un gruppo di anarchici invadesse il Parlamento e tutti si concentrassero sugli anarchici, non su chi ha consetito loro di entrare e imperversare nei palazzi del potere. Chiaramente, il problema è come sia stato possibile che i tifosi tedeschi abbiano fatto il bello e il cattivo tempo per quasi due giorni a Napoli; che 600 persone non riescano ad essere gestite da un Paese del G7, il quale si propone di essere grande e di ospitare grandi eventi, fino a subire la devastazione di un centro cittadino. Come sia potuto maturare un simile "disastro" nella gestione dell'ordine pubblico, a partire da quella dei tifosi ospiti. A questi ultimi, arrivati malgrado lo pseudo-divieto in centinaia già dal giorno precedente alla partita, è stato consentito di prenotare alberghi, essere scortati per più di un giorno dalla polizia (con tanto di spostamenti in autobus, sfilate in città e marce a suon di cori e provocazioni, nel cuore di Napoli contro i napoletani) fino al clima da guerrigli urbana finale. Il prefetto di Napoli Palomba si è giustificato spiegando che è più facile controllare un corteo di centinaia di persone che tanti gruppetti di 30 o 50 individui, e ha ragione, ma è stato anche costretto ad ammettere che per le prossime partite internazionali a Napoli «si stanno facendo sopralluoghi per trovare spazi per l'arrivo dei bus dei tifosi dall'estero». Per concentrare «l'arrivo nella zona del porto e poi portare i tifosi allo stadio». Per le prossime, naturalmente. Ma in questa qual era il piano, oltre al (facile) divieto? Far scorrazzare 600 tifosi tedeschi per "48 ore", come dice il prefetto, per il centro cittadino di Napoli e bloccare (approssimativamente) una città cercando di contenere lo scontro fra tifoserie rivali e mandando allo sbaraglio le forze di polizie – comprensibilmente, piuttosto incazzate? Palomba lo ha rivendicato come un successo, il fatto che siano stati feriti solo 6 agenti e nessun tifoso, ma non possiamo arrenderci all'idea che tutto ciò sia normale. Così come non possiamo rassegnarci a una gestione dell'ordine pubblico lacunosa e insufficiente, non avvezza a fronteggiare simili situazioni perché abituata a praticare, fin dalle leghe minori, la politica dei divieti. Se le trasferte sono vietate, il problema non si pone. Se non parti, non puoi fare danni. Una logica stringente e super efficace, non c'è che dire, ma il fallimento e la resa definitiva di chi l'ordine pubblico dovrebbe gestirlo, non rimuoverlo o esorcizzarlo. Per questo ci ha un po' colpito la stampa nostrana che se l'è presa con il TAR e Ceferin, colpevoli di essersi schierati contro il divieto di trasferta: perché dire semplicemente che 'questa trasferta non s'aveva da fare' è un'ammissione di impotenza; e perché per una volta l'UEFA ha ragione: se non si è in grado di garantire l'ordine pubblico e impedire la devastazione di centri cittadini, non si dovrebbe neanche poter organizzare grandi eventi. Come ha scritto il "nostro" Simone Meloni «quante trasferte con migliaia di tifoserie (anche turbolente) avvengono ogni anno in Europa? Infinite. Quanti divieti vengono comminati? Pochi, pochissimi. E spesso con ragioni quantomeno sensate, non certo per manifesta ammissione di non voler svolgere regolarmente e seriamente il proprio compito». E ancora: «Se non si sanno gestire 5-600 persone, come si vuole organizzare grandi eventi? . D'altronde «è più facile dividere il mondo in buoni e cattivi. Come più facile è vietare». È proprio questo il punto, evidenziato anche da Philipp Reschke, membro del consiglio d'amministrazione dell'Eintracht e responsabile dei rapporti con i tifosi e dell'organizzazione delle trasferte: «I divieti non portano a nulla, privano i tifosi di una partita del genere e non evitano che certe persone arrivino comunque a incontrarsi. Caos e improvvisazione hanno sostituito l'organizzazione che avevamo preparato». Così i tifosi dell'Eintracht, quasi tutti senza biglietto, non solo sono arrivati a Napoli il giorno prima –ricongiungendosi con i bergamaschi –, scortati dalla polizia e imperversando per il centro cittadino, ma hanno anche approfittato di un tragitto che non era predisposto per condizioni simili sfigurando la città e assaltando le forze dell'ordine. Fitti lanci di oggetti, sedie, tavoli e cassonetti, auto bruciate, agenti feriti e scene che non si vedevano da decenni. Il tutto nella mancanza di uomini e mezzi adeguati per la polizia, tra pistole cadute in terra, autobus oggetti di sassaiole (con tanto di autisti feriti) e una giornata di imbarazzo e follia nazionale. Una situazione denunciata anche dai diretti interessati, poliziotti mandati allo sbaraglio in prima linea, come fatto dal segretario del sindacato 'Italia Celere': «A cosa servono tutti quegli uomini se poi sono nascosti altrove e nei punti nevralgici alla fine c’erano solo poche decine tra poliziotti e carabinieri? (...) Chiederemo interpellanza parlamentare, pretendiamo di sapere come mai pochi uomini da soli costretti a ripiegare a fronte dei tantissimi che il questore di Napoli aveva a disposizione dalla mattina. (...) Certe scene denotano una grande e paurosa insicurezza nella gestione dell’Ordine pubblico». Quindi la conclusione: «Perché solo in Italia si vietano le trasferte? Per arginare il problema della violenza-ultras abbiamo gli strumenti, ovvero prevenzione e repressione, vietare le trasferte è un palliativo che non risolve alcunché e quanto sta accadendo ultimamente nel fenomeno calcistico italiano ne è la dimostrazione: alla prima occasione si contano feriti gravi, violenze inaudite, macchine della polizia bruciate e danni al patrimonio. Ognuno tiri le proprie conclusioni, noi le nostre le abbiamo tirate…». A questio punto ci chiediamo, come fa tutto ciò ad essere solo colpa dei tifosi? Veramente un Paese come l'Italia non è in grado di prevedere e controllare l'arrivo di 600 persone? Davvero vogliamo arrenderci a ciò, al fatto che l'unico modo per evitare una simile vergogna (inter)nazionale fosse esclusivamente il divieto della trasferta? In questo caso dovremmo farci qualche domanda non sul calcio e sugli ultras, bensì sul nostro Paese: sulla resa incondizionata di governo, intelligence e forze di sicurezza nazionali. Anche perché la demonizzazione del tifo, seppure caldo e massimalista, è sempre di più una specificità italiana. Tant'è che qui abbiamo vissuto la maglia numero 12, poggiata sulla panchina dell'Eintracht in solidarietà ai tifosi, come un paradosso, un affronto nel giorno in cui la città veniva devastata proprio dal "dodicesimo uomo". Quel 12 quasi fosse una rivendicazione della violenza, come ha lasciato intendere qualcuno. Semplicemente, invece, era il simbolo di un altro modo di vedere il mondo, di un altro modo di vedere il calcio: un calcio che i tifosi li valorizza come una risorsa imprescindibile, e che quando serve li gestise, li controlla, li limita; e si assume responsabilità per evitare che le cose degenerino. Sopra la panchina dell'Eintracht la maglia con il numero 12 (il dodicesimo uomo) in solidarietà ai tifosi. Che qui, chiaramente, abbiamo vissuto come una provocazione Noi invece abbiamo agito all'italiana, nel senso peggiore dell'espressione: con un divieto illegittimo annullato dal TAR, condannato dalla UEFA e poi limitato agli abitanti di Francoforte che comunque sono partiti per Napoli (sembra una barzelletta, ma purtroppo non lo è). A quel punto, rimasti senza il piano A (il divieto), abbiamo mostrato tutta la nostra incapacità nel mettere a punto il piano B (la prevenzione/gestione). Rassegnandoci all'idea che quei 600 esagitati non si potessero controllare. Così De Laurentiis ha chiesto al governo Meloni misure ancora più repressive verso il tifo violento, e di importare sostanzialmente "la legge inglese sugli stadi"; non capendo, anzi fingendo di non capire, che quanto si è verificato a Napoli non c'entra assolutamente nulla con gli stadi. Gli incidenti negli impianti o nei pressi degli stessi non si verificano in Italia da anni, e pure in Inghilterra i tifosi violenti continuano a fronteggiarsi in strada – settimana scorsa è morto un uomo a Blackpool, fuori da un pub, per gli scontri in occasione di Blackpool-Burnley: è una questione di ordine pubblico, non di stadi. ADL lo sa benissimo ma, con simili dichiarazioni in un momento del genere, persegue in realtà il suo obiettivo che è quello di liberarsi una volta per tutte del tifo scomodo: modello Florentino Perez, Andrea Agnelli e compagnia. Peccato ci sia anche qualcuno, come il Sottosegretario agli Interni Prisco (FDI), che si accoda al trend, solletica un po' la voglia sommaria (e confusa) di giustizialismo popolare e non esclude "nuove misure contro il tifo violento", in quanto "bisogna allontanare i violenti". Ma da dove, dagli stadi? A costo di essere ripetitivi: non ci sono violenze negli stadi. E allora da dove li si vuole allontanare? Esattamente, di cosa stiamo parlando? In somma, e in conclusione, è troppo facile sparare sugli ultras: facile come vietare e rifiutare a priori la gestione di situazioni critiche. Forse, è proprio per questo che la musica non cambia. Nel caso contrario dovremmo suonare tutto un altro spartito e indagare non solo responsabilità politiche, ma anche l'inadeguatezza di un intero sistema nell'organizzare e gestire l'ordine nelle maggiori città italiane – così come l'incapacità, italianissima, di far rispettare la legge. La questione sarebbe ben più complessa e ben più spinosa. Per nostra fortuna però, è proprio il caso di dirlo, ci sono gli uomini neri.

Ritratti

Marco Metelli
07 Marzo 2023

Gino Corioni, tutto per il Brescia

Annibale Gagliani
21 Febbraio 2023

Morten Hjulmand, il duca di Lecce

Marco Metelli
24 Gennaio 2023

Franco Baresi: uomo, capitano, icona

Marco Armocida
16 Gennaio 2023

Victor Osimhen, calciatore selvaggio

Ciro Cuccurullo
10 Gennaio 2023

Cristiano Giuntoli, sacrificio e visione

Ciro Cuccurullo
14 Dicembre 2022

Perdere la testa per Sofiane Boufal

Thomas Novello
24 Novembre 2022

La musica e l’anima di Rafael Leao

Annibale Gagliani
18 Novembre 2022

Ernesto Chevanton, senza padroni

Raffaele Scarpellini
11 Novembre 2022

Luva de Pedreiro tra la polvere e i milioni

Marco Metelli
23 Ottobre 2022

Domenico Luzzara, il presidente-ultras

Tifo

La mia trasferta al do Dragão
Tifo
Jacopo Gozzi
19 Marzo 2023

La mia trasferta al do Dragão

Birre, rabbia, fame, stanchezza. E la gioia finale.
Lazio contro Roma, due anime diverse
Interviste
Marco Impiglia
18 Marzo 2023

Lazio contro Roma, due anime diverse

Un'intervista doppia per indagare storia e carattere delle due tifoserie.
Quando è gol
Tifo
Gianluca Palamidessi
15 Marzo 2023

Quando è gol

Cosa accade se la nostra squadra segna?

Cultura

Jacopo Gozzi
14 Marzo 2023

Patrick Tillman per capire gli USA

Patrick Tillman per capire gli USA
Tampa Stadium, Florida, 27 gennaio 1991. Pochi minuti all’inizio del Super Bowl. Sta per cominciare l’esecuzione pre partita di The Star-Spangled Banner, inno nazionale statunitense. Il clima è vibrante, solo dieci giorni prima era scattata l’operazione 'Desert Storm' per punire le velleità dell’Iraq del malvagio Saddam. Sugli spalti sventolano migliaia di bandiere a stelle e strisce. Il Medioriente è lontano ma è dal conflitto vietnamita, sedici anni prima, che gli Stati Uniti non combattono una guerra convenzionale. Ancora non si capisce che tipo di conflitto sarà e la preoccupazione che decine di migliaia di giovani americani laggiù trovino la morte è tangibile. Per cantare l’inno è stata designata un’emergente cantante afroamericana di 27 anni, Whitney Houston, che regala al pubblico una versione differente dal solito, più lenta, più emozionale, più partecipata. Appena finisce, una pattuglia di caccia militari sorvola lo stadio per il tripudio generale. L’America accantona ogni timore e si riscopre unita e pronta a combattere. Pronta a vincere. https://www.youtube.com/watch?app=desktop&v=N_lCmBvYMRs Nello spettacolo del giorno in cui l’America consuma più cibo dopo il Ringraziamento l’esercito, come testimoniano le immagini dei soldati sull’attenti dalle basi militari all’estero, è sempre molto presente. In una nazione massimalista come gli Stati Uniti è fondamentale mostrare la vita militare come concreta via per la realizzazione di sé, creando il meglio e il peggio dell’ethos americano. Il protagonista della nostra storia lo dimostra a pieno. Una storia epica, oscura, eroica, meschina. Una storia americana. Patrick Tillman nasce a Fremont, California, nel 1976. Cresce a New Amaden, cittadina con importanti riserve di mercurio vicino San Jose. È il maggiore di tre fratelli, ai quali è molto legato. Al liceo scopre di avere talento per il football. Si innamora, ricambiato, di Marie, dalla quale non si separerà per il resto della vita. La predisposizione per il football, unita a una feroce applicazione, lo conduce a una borsa di studio ad Arizona State. È da subito uno dei cardini della squadra universitaria in cui gioca linebacker, in difesa, una sorta di libero calcistico. Doti richieste: capacità di leadership e lettura del gioco, grande velocità, forza fisica, notevole aggressività. Tutte doti che Pat possiede in abbondanza e che è ben felice di azionare sulla linea di scrimmage. Diventa una stella della squadra, al campus tutti lo adorano ma lui ama il basso profilo, legge biografie di personaggi storici, adotta uno stile alla Kurt Cobain, capelli lunghi e jeans, ogni tanto si arrampica in cima ai pali della luce dell’immenso Sun Devil Stadium per ammirare in solitaria contemplazione l’orizzonte di Phoenix. C’è anche una vena di temeraria follia, come quando in autostrada a 100 orari uscendo dal finestrino si arrampica sul tetto del pick up per salutare i suoi sbigottiti amici davanti al parabrezza. Per il resto niente vizi né manie di protagonismo. Del resto è un All-American, onorificenza assegnata ai liceali migliori della nazione nei rispettivi sport. Patrick Tillman nella sua prima vita Sfiora la vittoria del titolo nazionale NCAA 1997. Si laurea in marketing con il massimo dei voti. Un agente, Frank Bauer, si accorge di lui e gli spiega come, nonostante sia troppo basso e troppo piccolo per i professionisti (1,80 per 90 kg), potrebbe comunque provare a entrare nel giro. Nel draft 1998 se lo aggiudicano gli Arizona Cardinals alla loro ultima chiamata. Scelta 226 su 241. Spesso chi è chiamato all’ultimo giro non resta in squadra che pochi mesi, tanti vengono svincolati prima dell’inizio del campionato. Lui è subito chiaro con coach McGinnis: «Coach, lo so che mi avete preso perché sono popolare da queste parti e sperate di vendere qualche biglietto in più, ma se mi insegna qualcosa le garantisco che posso diventare la stella della difesa». Cambia ruolo adattandosi a safety e diventa presto la rivelazione della stagione. Nel 2000 l’anno di grazia, tanto che lo contattano i Sant Louis Rams, campioni in carica della Nfl, offrendogli 9,8 milioni per cinque anni e 2,5 di bonus alla firma. Tillman, che prende poco più di 500.000 l’anno, dice al suo agente che ha bisogno di pensarci. Bauer sbianca: «Scusa Pat, ma cosa devi pensare? Sono nove milioni di dollari. Ti sistemi per la vita». Rifiuta. «Avete puntato su di me quando nessun altro ne ha avuto il coraggio. Come faccio a voltarvi le spalle solamente per soldi?». Una scelta di cuore che lo consacra bandiera della squadra. Il tempo libero, dedicato a Marie e agli amici, lo passa all’aria aperta nuotando nei fiumi, facendo arrampicate o passeggiate nella natura. Si muove in bici. È ateo, cosa strana per un autentico americano, ma si preoccupa di conoscere la religione leggendo Bibbia e Corano. La sua curiosità comprende anche le fonti ideologiche dei totalitarismi del ‘900, e nella sua biblioteca appare Il manifesto del Partito Comunista e persino il Mein Kampf. Ma uno spettro si aggira per l’America: lo spettro del terrorismo islamista. Un (neanche troppo) tipico All American L’11/09 ha un impatto terribile sulla mente sensibile e aggressiva di Pat, convinto che la sua Nazione ha bisogno di tutto l’aiuto possibile, in primis del suo. Intanto c’è da rinnovare il contratto con Arizona, e il suo agente è arrivato a strappare un triennale da 3,6 milioni più 1,5 di bonus. «Grazie Frank, ma sto pensando ad altro per la mia vita. Per questo c’è tempo. Pensa ai tuoi altri assistiti». La decisione è ormai presa. Va nell’ufficio del suo allenatore. «Grazie per l’offerta coach, ma devo rifiutarla. Mi arruolo. Voglio diventare un Ranger». È una scelta che fa subito scalpore, per la celebrità del personaggio, per i soldi lasciati sul tavolo. Ma, se analizzata meglio, è una scelta perfettamente esplicativa del modo di ragionare dell’abitante di una superpotenza. Gli imperi sono tali perché la loro popolazione antepone l’onore collettivo alla ricchezza individuale, la gloria della propria civiltà al benessere materiale. Suo nonno cercava di abbattere i kamikaze giapponesi a Pearl Harbor, lui gioca soltanto a tirare giù persone su un campo da football. Senza scordare che nella mentalità della sua comunità elettiva, forgiata dalla durezza del deserto della repubblicana Arizona, non ci sono alternative: quando c’è una guerra, ci si aspetta che tu vada a combattere senza troppe lamentele. Gli apparati mediatici di Pentagono e Casa Bianca cercano subito di farlo diventare l’uomo copertina della guerra al terrore, ma lui si è arruolato per combattere e catturare bin Laden, non per rilasciare interviste. Non è solo, lo segue anche suo fratello Kevin. Sono laureati e potrebbero entrare come ufficiali, ma rifiutano ogni trattamento di favore. Nel giugno 2002 Pat inizia l’addestramento nel 2º Battaglione del 75º Reggimento Rangers. È un corpo d’élite di fanteria leggera, pensato per le operazioni speciali, estremamente mobile e adattabile. Il loro motto è “Rangers Lead the Way”. Fecero strada da protagonisti nello sbarco in Normandia, meno dalle parti di Cisterna, dove i panzer tedeschi massacrarono 755 dei 767 uomini del 1º e 3º battaglione Rangers, facendo in modo che l’intero corpo si ritirasse dalla penisola. Patrick e Kevin Tillman pronti a combattere per la Patria In quegli anni gli Stati Uniti vivono una fase unica della loro storia imperiale: sparita la minaccia sovietica ed essendo ancora lontani i revanscismi russi e cinesi, sono indiscussa guida di un equilibrio di potenza unipolare, ben manifestato dal messianismo della loro leadership, incarnata da tre personaggi principali: il petroliere texano George Bush jr, ex alcolista convertitosi al metodismo e cristiano rinato, il suo vice Dick Cheney, garante della partnership tra settore militare e grande industria, e il machiavellico segretario alla Difesa Donald Rumsfeld. L’intelligence militare è pesantemente inclinata su posizioni neoconservatrici. I funzionari e analisti d’ispirazione neocon sono animati da uno zelante dinamismo, sempre all’attacco. Noti commentatori geopolitici li hanno rinominati “gli zemaniani della geopolitica”. Si ragiona per dicotomie: paradiso/inferno, bene/male, buoni/cattivi. Questa visione teologica e morale, saldata alle eterne connessioni tra industria pesante ed esercito, getta le basi per la seconda operazione contro il perfido Saddam. L’Onu non è per niente convinta, Patrick Tillman meno ancora. Si sfoga con amici e familiari, giudicando la campagna irachena «fucking illegal». Però è un soldato e i soldati obbediscono agli ordini, anche e soprattutto a quelli non condivisi. Nella primavera 2003 viene spedito proprio in Iraq. Il suo reparto collabora assieme ai Navy Seal alla liberazione di Jessica Lynch, una giovane magazziniera dell’esercito fatta prigioniera dai Fedayn (quelli veri, altro che le parodie ultras) di Saddam. Il rapimento di Jessica viene rappresentato come un film a metà tra Salvate il soldato Ryan e Black Hawk Down, con la temeraria soldatessa che prima di cadere nelle braccia dei fanatici svuota contro di loro l’intero caricatore del suo M16 per poi venire torturata e violentata nell’ospedale di Nassirya, fino al prode recupero grazie all’azione congiunta del meglio delle forze speciali americane. È tutta finzione. Appena tornata a casa Jessica conferma la versione dei medici iracheni: è svenuta subito dopo l’incidente del suo convoglio, non sparando nemmeno un colpo. In ospedale aveva addirittura un’infermiera a lei dedicata. E il blitz di liberazione è stato compiuto solo il giorno dopo che l’esercito iracheno sloggiò dalla struttura. Rumsfeld, Bush e Cheney, sorridenti mentre hanno il mondo in mano A Tillman queste cose non piacciono. L’intervento in Afghanistan a caccia di bin Laden è un conto, questa macabra parata mediatica un altro. Germoglia in lui, cosa frequente in chi la guerra la fa davvero, il sentimento di chi non è disposto a sacrificarsi per cause secondarie. Le motivazioni arrivano da sole per combattere contro la Germania di Hitler, l’Unione Sovietica o Al Qaeda o la Cina, ma fare la guerra al rais di turno, in un contorno di propaganda e atrocità, è roba per stomaci forti. Annota su un diario i suoi pensieri, sempre più critici verso il sistema in cui si è ritrovato. Dopo il periodo iracheno torna a casa. Agli amici confessa di persona tutto il suo scetticismo. Avendo prestato servizio all’estero potrebbe lasciare l’esercito e tornare sui campi da football, magari in un team di grandi ambizioni, per vincere un campionato e poi scrivere un libro, fare comparsate in tv, buttarsi in politica. Ma anche stavolta la sua disciplina non consente retromarce: ha firmato un impegno triennale con l’esercito e intende onorarlo fino alla fine. Tramite un amico comune concorda un incontro con Noam Chomsky, intellettuale noto per il suo attivismo anti militarista. Ma prima di quell’appuntamento Pat ne ha un altro, che di nome fa Enduring Freedom e si svolge in Afghanistan. Così, nella primavera del 2004, Pat può finalmente partire per la missione che sogna dal maledetto 11 settembre: volare nelle montagne afgane e ricacciare agli inferi i nemici della sua patria. All’alba del 22 Aprile 2004 il plotone di Pat sta attraversando una gola nell’Afghanistan orientale, vicino al confine pakistano. Il posto è infestato dai talebani, che conoscono quelle montagne molto meglio dei Rangers. Un Humvee del convoglio si ferma, ha un guasto di non semplice riparazione. Dal comando ordinano di spezzare in due il plotone. Il primo convoglio, quello di Tillman, va avanti, il secondo convoglio deve tornare indietro. Ma rientrando viene attaccato da un commando talebano, e risponde al fuoco. I Rangers del primo convoglio, già fuori dalla gola, capiscono che c’è bisogno di loro. Smontano dagli Humvee e corrono sul crinale della gola per coprire i commilitoni dall’alto. Pat è assieme a O’Brian, un diciannovenne dell’Arizona al suo primo scontro a fuoco, e a un soldato afgano. L’afgano viene subito crivellato. O’Brian si ripara dietro un masso, Tillman no. In men che non si dica tre colpi raggiungono la sua testa, uccidendolo all’istante. Patrick Tillman è andato incontro al suo destino. L’America è sotto shock. Al funerale di Patrick Tillman Otto giorni dopo il generale McChrystal gli assegna la terza più importante onorificenza militare, la Silver Star, e la promozione postuma a caporale. Il primo Maggio Bush sottolinea il suo coraggio e il suo sacrificio, ma senza accennare alla dinamica della morte del soldato più famoso d’America. Il 3 Maggio lo straziante funerale in diretta su ESPN. Dal pulpito Stephen White, un sottufficiale dei Navy Seal amico di Pat e Kevin dai tempi dell’Iraq, descrive brevemente i concitati momenti della sua morte. Lui non era là, e il suo discorso gli è stato sommariamente dettato al telefono da un ufficiale, che si premura che il Seal rimarchi il conferimento della Silver Star. La miglior morte di un eroe americano: Pat, pur potendosi mettere in salvo, ha permesso ai suoi di salvarsi sacrificandosi al posto loro, ingaggiando un conflitto a fuoco con il nemico. Il 24 Maggio però l’unità di Kevin rimpatria a Fort Lewis, e un ufficiale gli confida che a uccidere suo fratello non sono stati i talebani, ma i suoi commilitoni. Un tragico caso di fuoco amico. Affranto chiama White, chiedendogli spiegazioni che il Seal, costernato nella sua ignoranza, non può dargli. Mary, sua madre, scopre la cosa quattro giorni dopo grazie alla chiamata di un reporter. Il giorno seguente l’esercito ammette la verità: a uccidere Tillman sono stati proiettili americani. La famiglia è sconvolta, come tutta l’America. L’indagine ufficiale è stata condotta dal tenente colonnello Kauzlarich, uno degli ufficiali che hanno scritto la raccomandazione per la Silver Star. Risentito per l’ostinazione della famiglia e dell’opinione pubblica sulla faccenda, non lesinerà osservazioni sulla mancanza di fede della famiglia Tillman. «Quando muori si suppone che tu vada in un posto migliore, giusto? Beh, se sei ateo e non credi in nulla, quando muori dove vai? Da nessuna parte, sei terra per i vermi. Io non so come ragiona un ateo. Dev’essere piuttosto dura per loro, credo che vogliano soltanto la testa di qualcuno sul piatto». Se la notorietà può avere danneggiato Pat dal momento in cui ha rifiutato di fare il testimonial alla guerra al terrore, ora aiuta la sua famiglia nella ricerca della verità. Il senatore John McCain, repubblicano di una certa onestà intellettuale ed eroe di guerra per via dei sei anni consumati da prigioniero dei vietkong, si schiera accanto alla famiglia Tillman. Da ex militare intuisce subito quanto questa faccenda sia un vero dramma per l’esercito. A fine 2004 Kevin incappa nel capitano Scott, che gli rivela come sia stato incaricato informalmente di condurre una prima indagine, iniziata il 24 aprile e consegnata ai superiori il 4 maggio. Un’indagine di cui l’esercito non ha mai reso nota l’esistenza. Le due vesti di un eroe americano. Che, forse, serviva più da morto che da vivo... Il capitano, amareggiato, spiega a Kevin che i testimoni avevano cambiato versione nella seconda inchiesta. A lui avevano detto che non c’erano problemi di visibilità, poi ritrattano dicendo che era buio. A Scott dicono che la distanza tra i tiratori e Pat era molto ridotta, nell’indagine di Kauzlarich la distanza aumenta. A Scott avevano riferito che si è sparato per svariati minuti, a Kauzlarich che è successo tutto in pochi secondi. Il capitano concluse il rapporto spiegando che almeno tre sparatori si erano macchiati di gravissime negligenze, e che alcuni Rangers avrebbero persino potuto essere incriminati per intento criminale. Nel frattempo il Congresso passa a maggioranza democratica e il cambio di bandiera, se non altro per mero calcolo politico, aiuta le indagini. Agli inquirenti arrivano pian piano oltre duemila pagine di varie testimonianze e perizie delle indagini militari. La famiglia le condivide con alcuni media per tentare di capirne di più, e si scorpono cose sinistre. La raccomandazione per la Silver Star è stata inoltrata il 27 Aprile e approvata due giorni dopo, prima che l’indagine di Scott venisse terminata – cosa strana in un Paese in cui le medaglie richiedono approfondite indagini. Delle 45 Silver Star concesse fino a quel momento in Afghanistan, quella di Pat è l’unica guadagnata per fuoco amico. Né il soldato afgano morto accanto a lui né gli altri due Rangers feriti hanno avuto alcun riconoscimento. L’uniforme di Tillman, assieme al suo giubbotto antiproiettile, è stata bruciata tre giorni dopo la morte. Il suo diario non è mai stato restituito. Alcune memo interne confermano che i vertici dell’esercito, al momento del funerale di Pat, erano perfettamente consapevoli delle reali cause della morte, come persino alcuni commilitoni. Nell’estate 2006 ESPN dedica al caso un’inchiesta di 18.000 parole. Molti dei Rangers contattati dicono di aver firmato accordi di riservatezza, c’è chi ricorda come nei giorni seguenti alla tragedia nella loro base vennero affissi memorandum di non parlare né con i giornalisti né con la famiglia del caso Tillman. Alcuni dei presenti alla sparatoria, poi, sono stati licenziati dal corpo dei Rangers ma non dall’esercito, venendo smistati in altri reparti e continuando a partecipare alle missioni. La copertina dedicata da ESPN alla storia: il nome 'Enduring Freedom' (libertà duratura) si trasforma in 'Enduring Guilt' (colpa duratura) Non un singolo ufficiale o soldato venne ufficialmente incriminato. Nella primavera del 2007 viene inoltrata alla Casa Bianca la richiesta di ulteriori documenti, ma a inizio luglio viene opposto il segreto di stato, mettendo la pietra tombale sulla vicenda. A fine luglio, quasi per scherno, l’Associated Press svela parte dei contenuti secretati, rivelando perizie mediche per le quali le ferite sul corpo di Tillman non sono frutto di proiettili sparati da una mitragliatrice a 50 metri bensì da un fucile M16 a 10 metri. Nessun Rangers è stato ferito da pallottole che non fossero americane, nessun veicolo presentava tracce di proiettili: molto strano per un’imboscata. In sostanza, nessun rapporto indica la minima presenza di tracce di fuoco nemico. Le cose in quel periodo non stavano andando bene: né per l’amministrazione Bush, indaffarata verso le elezioni, né per l’esercito, provato dal doppio fronte operativo. Nemmeno un mese prima della morte di Tillman quattro mercenari della Blackwater furono uccisi in un’imboscata a Falluja, i loro corpi bruciati e appesi a un ponte sopra l’Eufrate, diventando rapidamente la maggior attrattiva dei bambini locali, che si facevano immortalare felici e sorridenti sotto i cadaveri arrostiti. Ma il peggio arrivò il 28 Aprile, sei giorni dopo la morte di Pat. CBS News quella sera mandò in onda uno speciale con le foto di quel che accadeva nella prigione irachena di Abu Grahib. Il mondo vide il lato peggiore dell’animo umano: prigionieri costretti a posare crocifissi, sottoposti a scariche elettriche, tenuti al guinzaglio, ricoperti di escrementi, stuprati, i più fortunati uccisi dagli stenti. Il tutto tra i selfie sorridenti dei loro aguzzini. A peggiorare le cose, pare che i diktat sul trattamento dei prigionieri in vista degli interrogatori arrivassero dai più alti vertici statunitensi. È difficile non riconoscere che la morte di un eroe americano per mano talebana sarebbe stato un formidabile assist per controbilanciare un tale disastro mediatico. Molti pensano che Pat sia stato deliberatamente ucciso per motivi propagandistici. In un colpo solo, si avrebbe avuto sia il martire che il silenzio di una voce potenzialmente molto scomoda per l’apparato militare. È una supposizione suffragata da più di qualche indizio, ma prove concrete non ve ne saranno mai. Possiamo però fare ciniche speculazioni sull’opportunità di un eventuale omicidio, e qualche considerazione sulla mentalità che guida certi apparati. Una foto simbolo di Abu Ghraib e del (conflitto al) terrore Il maggior lascito culturale di Donald Rumsfeld al mondo è il seguente: «Ci sono tre categorie del conosciuto. I known knowns: cose che esistono e sappiamo che esistono. Gli unkown knows, sappiamo che esistono ma non le conosciamo nel dettaglio. E poi gli unknowns unknowns, non sappiamo che esistono e non li conosciamo nello specifico». Un criterio gnoseologico già in uso da decenni nell’intelligence americana che Rumsfeld, rendendo di pubblico dominio, consegna alla storia. Gli unknowns unknowns sono senza dubbio la categoria più importante e pericolosa. E la storia di Pat Tillman ne è piena. Ma è impensabile che un’istituzione come il Pentagono, maggior datore di lavoro al mondo con oltre tre milioni di dipendenti, non si regga anche su qualche segreto. Segreti che però, proprio a causa dell’immensa mole dei suoi dipendenti, spesso da unknowns unknowns sono destinati a diventare quantomeno dei temibili unkown knows. Le conseguenze sono colme di rischi, spesso non pienamente comprensibili se non nel medio/lungo periodo. Il popolo all’assalto del Campidoglio ne è stata la prova. La sfiducia nelle alte sfere, nel deep state, nei colletti bianchi dei vertici degli apparati presta il fianco a teorie del complotto, aggressività, disillusione. Creando uno iato tra la realtà e il tipo di società auspicata dagli apparati. I casi Tillman e Lynch, tradendo il sentimento che ha portato Pat e molti altri ad arruolarsi, sono il carburante della frustrata disillusione dell’America profonda verso certe narrazioni: una disillusione che ad oggi è probabilmente il nemico più grande per gli Stati Uniti, un nemico temibilissimo perché interno alle anime dei suoi abitanti. Una foto, dall'assalto del 6 gennaio, che restituisce il sentimento di milioni di americani: oggi soprattutto repubblicani per cui non c'è più alcuna differenza tra Bush e Clinton. Il nemico è il 'deep state' con i suoi apparati militari, economici, governativi, investigativi. Ma forse il vero interrogativo di questa storia non è nemmeno se la morte di Tillman sia stata pianificata, e in caso quanto l’esercito avesse da perdere o da guadagnarci. Ma se Tillman stesso, una volta saputo di Abu Grahib e resosi ulteriormente conto del marcio dietro quella guerra, avrebbe avuto il coraggio di rinnegare l’esercito tramutandosi in un predicatore pacificista alla stregua di Ron Kovic. In fin dei conti se avesse voluto diventare presidente avrebbe dovuto passare, almeno in parte, come eroe di guerra. Avrebbe senza dubbio criticato l’esercito, ma avrebbe davvero avuto il coraggio di rinnegare completamente il principale motivo della sua celebrità, quello che ancora più del football lo identificava come il prototipo dell’eroe americano, dell’All-American? Un’eventuale carriera politica avrebbe dovuto passare per questa mediazione. I Ron Kovic di turno scavano l’animo delle persone e ispirano film grandiosi come Nato il 4 Luglio, ma proprio per questo non possono diventare presidente, carica che comporta anche essere comandante in capo delle forze armate. Risposte che rimarranno volteggianti sul crinale di una gola nell’Afghanistan più remoto. Rimane l’epica e amara storia di Patrick Tillman, non repubblicano né democratico, ateo ma lettore di Bibbia e Corano. Uno che, pur disapprovando la campagna irachena, è stato parte del primo contingente a Bagdad. Uno che, pur disprezzando la retorica guerrafondaia, non ha esitato a imbracciare il suo M16 puntandolo contro il terrore. Questo era Patrick Tillman, uno sportivo, un soldato. Ma sopra ogni cosa, un patriota americano.

Negozio

Promozioni

Con almeno due libri acquistati, un manifesto in omaggio

Spedizione gratuita per ordini superiori a 50€