Il mio viaggio nei Balcani del calcio
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Tommaso Guaita
18 Settembre 2024

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Un'avventura che riconcilia col senso profondo dello sport.

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15 Luglio 2024

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Editoriali

Matteo Zega
08 Settembre 2024

Le Paralimpiadi, la guerra e noi

Le Paralimpiadi, la guerra e noi
Fuor di retorica è l’essenza vera e profonda delle cose: perciò, ben oltre le solite formule da lessico elettorale – inclusione, barriere, riscatto – le Paralimpiadi di Parigi hanno in pochi giorni offerto esempi, storie e vicende capaci di scardinare ogni narrazione, ribaltando le consapevolezze di milioni di spettatori (oltre a farci sobbalzare il cuore ben 71 volte). La cruda e sublime realtà dei giochi paralimpici si staglia ancor più impattante quando, durante Italia v Slovenia di sitting volley, il cronista spiega che lo strapotere di alcune nazionali, su tutte la compagine iraniana maschile, deriva dai tanti mutilati che la guerra offre. Un commento capace di accendere la coscienza collettiva su un evento, le Paralimpiadi, affermatosi nel tempo come serbatoio prezioso e inaspettato di ritratti illuminanti quanto misconosciuti: storie che talvolta diventano pop, instillano curiosità e certificano l’autoironia come metro di intelligenza sociale. È il caso della pesista non vedente Angela Legnante, che commentando l’argento dichiara “voglio andare a Los Angeles 2028 perché non ho mai visto l’America”, per poi rettificare “beh, non la vedrò neanche stavolta, però voglio andare in America”, o di Riggi Ganeshamoorthy, che col suo “che ve devo di’?”, “un po’ troppi disabili forse” è già idolo nazionale e icona social [1]. Si tratta di esistenze segnate da malattie rare, patologie ignote dai nomi impronunciabili, storie d’amore e di morte, destini tragici che lo sport trasforma in atleti ed esempi. Inoltre, come anticipato in apertura, la guerra come avviamento alla carriera paralimpica è purtroppo denominatore comune a molti: Yevhenii Korinets, paramedico volontario ucraino, dopo aver subito l’amputazione della gamba sinistra a Bakhmut, nel marzo 2023, ha scoperto un’insperata carriera nella nazionale di sitting volley [2], dove ha ritrovato il capo plotone di fanteria Dmytro Melnyk [3], commilitone prima e ora compagno di squadra: “La nazionale ucraina mi ha ridato la vita quando ero sicuro di averla persa per sempre” ha detto Korinets, aggiungendo poi “tutte le discipline sportive dovrebbero essere diffuse ancora di più nelle nostre città, in modo che i veterani di guerra, resi fragili dalle ferite, non stiano a casa senza sapere cosa fare, rischiando depressioni”. Aiutaci a mantenere sempre alta la qualità del nostro giornalismo. Aiutaci a rimanere indipendenti. Abbonati a Ultra! Vicenda simile è quella di Fadi Aldeeb, cestista su sedia a rotelle, unico atleta palestinese a Parigi, nato nella Striscia di Gaza e rimasto paralizzato nel 2001 durante la seconda intifada, a causa di un proiettile israeliano alla schiena: nella recente riacutizzazione del conflitto, Aldeeb ha perso suo fratello e due nipoti. Ad inizio paralimpiade ha dichiarato: “Ci sono tanti sentimenti, tante responsabilità. Non parlo di me stesso, non gioco per me stesso. Sono qui per tutti coloro che dicono di essere palestinesi, per tutti coloro che parlano di umanità e della libertà della Palestina. Quando alzo la bandiera provo un grande senso di responsabilità, ma anche tristezza”. Ci sono poi i Giochi come evasione e via di fuga: è il caso di Claudine Bazubagira, atleta ruandese sparita da dieci giorni, probabilmente per accedere allo status di rifugiata politica, o di Zakia Khudadadi, rifugiata evacuata dall'Afghanistan, stabilmente trasferitasi in Francia dopo che i Talebani, al potere nel 2021, l’avevano minacciata di morte. Una serie di esempi tremendi e impressionanti, capaci di far riflettere soprattutto a partire dal capovolgimento retorico rispetto alle precedenti Olimpiadi, caratterizzate più che mai dalle ridondanti e vuote narrazioni sui diritti, sulle sedicenti e arbitrarie categorie di oppressi che puntualmente parlano dalla parte privilegiata del mondo e della storia e che pertanto oppressi non sarebbero, e dai trend social che diventano manifesti politici, scioperi di comodo e barricate di piazza. Il confronto tra Paralimpiadi e Olimpiadi evidenzia il contrasto di prospettive tra la nobile libertà di chi è padrone di tutto perché tutto ha perso e l’accidiosa presunzione di chi in fondo è nullatenente perché abituato a poter avere ogni cosa. La consapevolezza dei primi è la stessa di Tyler Durden in Fight Club - “è solo dopo aver perso tutto che siamo liberi di fare qualsiasi cosa” -, mentre il carattere dei secondi è ben colto da Ennio Flaiano, quando col solito acume annotava che “quando l’uomo non ha più freddo, fame e paura è scontento”. Dunque, Parigi 2024 ha evidenziato il divario sostanziale tra due opposte dimensioni: quella della cultura del piagnisteo [4], di un Occidente annoiato, con le airpods alle orecchie e i disturbi post traumatici da stress, che in Raven Saunders et similia si ritrova e proietta, e quella ben più gravosa e nobile che celebra la vita vera e ritrovata, l’esistenza desiderata e piena, l’adesione ad una missione alta e superiore al di là di tutto. Se le lacerazioni sul corpo degli atleti sono le sferzate delle malattie, della storia e della guerra, le gesta atletiche sono la pronta e perentoria risposta al destino, la porta chiusa in faccia alla morte. A Parigi, nel giro di un mese, abbiamo potuto osservare tutta la differenza tra lo spirito post storico, tipico del nostro tempo, e lo spirito in movimento – motto delle Paralimpiadi 2024 – di chi anela ad un’esistenza totale. Certamente, dal punto di vista psicosociologico entrambi i fenomeni sono conoscibili, comprensibili, forse anche razionali e sovrapponibili, ma dal punto di vista strettamente umano non è possibile restare indifferenti davanti allo iato esistenziale tra i due approcci. “È la vita”, ha capito Riggi, in sedia a rotelle, con le cannule al naso e il sorriso sul volto: la vita veramente, verrebbe da dire, ed è tutto qui. [1] https://www.corriere.it/sport/olimpiadi/24_settembre_02/rigivan-ganeshamoorthy-che-devo-di-il-campione-del-mondo-e-l-intervista-piu-esilarante-delle-paralimpiadi-b752b278-c44a-4071-871e-9111036cfxlk.shtml [2] https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2024-08/ucraina-paralimpiadi-parigi-guerra-russia-medaglie.html [3] “La sua [di Melnyk, ndr] gamba sinistra è stata ferita in un incidente quando aveva solo 18 anni e ora è più corta di qualche centimetro. Quando è in piedi, il suo piede sinistro è in punta di piedi, mentre il piede destro è appoggiato a terra. Nonostante questo handicap, l'ufficiale ha fatto di tutto per convincere i suoi superiori a entrare nell'esercito. Il suo reclutamento? Lo deve alla sua determinazione e a "un po' di astuzia", ha detto. Dmytro Melnyk non ha fornito ulteriori dettagli, ma ha scherzato sul fatto che quando è con le sue truppe, finge di zoppicare perché i suoi stivali sono troppo stretti. Il pallavolista ha detto di aver prestato servizio come operatore di droni prima di diventare ufficiale di fanteria”. [4] Cfr. R. Hughes, Adelphi

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Il tifo dei Girondini, tra mille problemi e la discesa in National 2 del club, è più vivo che mai.
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12 Settembre 2024

La Fiumana, orgoglio del Carnaro

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È il 12 settembre del 1919. La città di Fiume è ormai divenuta, al termine della Grande Guerra, oggetto di contesa tra le ambizioni del nascente Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni e quelle, ancora più forti, dell’Italia uscita vincitrice dal conflitto. Da un anno regnava una situazione di stallo. L’unico a rispondere presente fu il Vate Gabriele D’Annunzio, già protagonista indiscusso di alcune controverse imprese (dal volo su Vienna, alla beffa di Buccari) che lo avevano reso celebre più di quanto già non lo fosse a livello letterario. Al comando di circa novemila legionari, D’Annunzio entrò a Fiume il 12 settembre del 1919 e il 12 agosto dell’anno successivo, dinanzi all’ulteriore immobilismo dei governi nazionali, il Vate proclamò con queste parole la nascita di uno Stato autonomo, in attesa dell’annessione all’Italia, denominato Reggenza Italiana del Carnaro: “La vostra vittoria è in voi. Nessuno può salvarvi, nessuno vi salverà: non il Governo d'Italia che è insipiente ed è impotente; non la nazione italiana che, dopo la vendemmia della guerra, si lascia pigiare dai piedi sporchi dei disertori e dei traditori come un mucchio di vinacce da far l'acquerello... Domando alla Città di vita un atto di vita. Fondiamo in Fiume d'Italia, nella Marca Orientale d'Italia, lo Stato Libero del Carnaro”. Si trattò tuttavia di un vano tentativo. Pochi mesi dopo con il Trattato di Rapallo, lo Stato italiano decise di intervenire cacciando D’Annunzio da Fiume e contribuendo alla costruzione dello Stato libero di Fiume, entità autonoma e neutrale al confine tra l’Italia e la Jugoslavia. Fu solo con il trattato di Roma del 27 gennaio 1924 che fu definita la spartizione del territorio di Fiume tra la Jugoslavia e l’Italia. Ed è proprio a partire dal 1924 che la città di Fiume divenne il luogo simbolo dell’Italia vincitrice della guerra. In pochi mesi fu istituita la Provincia italiana del Carnaro. Due anni dopo nacque ufficialmente l’Unione Sportiva Fiumana. Questa, assieme al Grion di Pola, divenne in breve la più importante squadra istriana. Le due squadre divennero acerrime rivali nel corso della loro breve storia, ed è curioso che l’uomo che ha ricostruito in parte la storia della Fiumana sia stato proprio un nemico del Pola, Elvino Tomasini: “La Fiumana era, calcisticamente parlando, la nostra acerrima “nemica”, una “nemica” rispettabilissima, validissima, tenacissima. C’era molta rivalità, a quei tempi, tra Pola e Fiume. Le due squadre si battevano alla morte, gli incontri non erano incontri, erano piuttosto “scontri”; i giocatori si conoscevano tutti, personalmente e tecnicamente, non c’erano segreti”. Leggere la storia della Fiumana attraverso gli occhi di un tifoso rivale sarebbe oggi paragonabile ad una storia dell’Inter scritta da un milanista. In questo paradosso è racchiuso invece tutto il dramma e il senso d’identità di una comunità martoriata. Si era rivali sul campo, certo, ma figli della medesima comunità italiana d’Istria e Dalmazia destinata ad essere travolta dalla storia, dalla guerra e dalla vendetta dei partigiani iugoslavi di Tito. Ma questa è un’altra storia. Quella dell’Unione Sportiva Fiumana cominciò, come accennato, nel 1926, il che avvenne – similmente a quanto già stava avvenendo in molti campi – a seguito delle sollecitazioni del regime, intenzionato a diminuire il numero di sodalizi sportivi per ognuna delle grandi città, per favorire la pacificazione sociale. Ciò avvenne in maniera anche clamorosa, cancellando club storici come l’Unione sportiva Milanese e l’Inter, fuse nell’Ambrosiana, o come per i club romani dell’Alba, della Fortitudo e del Roman, che formarono la Roma . . . continua a leggere