Nel nome della passione, del Padre e della Madre.
Non chiamatelo Condor. Guai a ridurlo ad un soprannome da rivista patinata, a circoscriverne l’amore per il calcio alla carriera da dirigente. Perché Adriano Galliani vive lo sport secondo un impulso esistenziale, viscerale, che nasce da bambino quando la madre lo accompagnava prima in Chiesa e poi allo stadio a tifare Monza. Un impegno domenicale, solenne e quindi sacro già allora, ai tempi in cui il piccolo Adriano scappava dai genitori per seguire la finale dei mondiali di calcio, pedalava a perdifiato per imitare Ercole Baldini oppure, appena patentato, raggiungeva ovunque l’Olimpia Milano a bordo della sua Cinquecento, rigorosamente supportandola alla sua maniera “da ultrà”.
Ogni sport lo entusiasma, ma la passione più nota, quella per il calcio, lo conduce nel 1975 alla vicepresidenza del Monza; la svolta arriva nel ’79, quando entra in società con Sua Emittenza Silvio Berlusconi, ad una condizione: «posso lavorare giorno e notte, ma se gioca il Monza devo seguirlo». I due si danno la parola ed è il principio di una storia di calcio e politica, d’impresa e di uomini; più che una collaborazione, un rapporto nobile, feudale, tra il Cavaliere e colui che sempre resterà il suo scudiero.
Dal 1986, dopo la nomina ad amministratore delegato del Milan, rimane “in prestito” ai rossoneri – così dice – per trentun anni; fino a quando, nel 2018, durante un pranzo ad Arcore Berlusconi accoglie la sua suggestione di acquistare il Monza e gli affida la trattativa: «Adriano vai, fai tu». Nel giro di poche ore Galliani conclude la negoziazione e può tornare a casa: lo fa perché deve, perché sempre si parte per tornare e perché ha in sospeso un desiderio più grande di lui, una promessa a lungo taciuta. Ritorna al vuoto di lui quattordicenne, sospira:
«Il Monza è stato ritrovare la mia mamma», dice e si commuove.
Perché il calcio di Adriano Galliani è un ideale intimo e profondo, passionale prima che imprenditoriale, che sempre antepone l’umanità al metodismo. Dalla notturna di Champions a Marsiglia, quando scese in campo per ritirare la squadra, al ferragosto passato ad urlare in Costa Smeralda nell’ufficio del suo agente immobiliare perché trovasse un modo per ottenere i fax dal San Paolo per Kakà, molti sono gli abilissimi ed estremi rimedi di Galliani, capace di chiudere a chiave Gattuso nella stanza dei trofei per rimotivarlo dopo la disfatta di Istanbul o di piombare a casa di Ibrahimovic (per acquistarlo, tra l’altro, ad un terzo del valore di mercato) senza avvisare nessuno, ammonendo perentorio il giocatore: «finché non firmi non me ne vado».
Un modus operandi personalissimo, ad un tempo razionale e spregiudicato, riproposto per riportare a Monza Matteo Pessina, fermamente voluto come capitano: «Lo chiamo e gli dico “siamo stati promossi in Serie A” e riattacco il telefono». Una carriera costellata da fenomeni e fenomenali trattative (basti pensare allo scambio Guglielminpietro e il paparazzato Coco per Pirlo e Seedorf), pur con qualche rimpianto, come il mancato acquisto dei giovanissimi Del Piero e Cristiano Ronaldo o le trattative clamorosamente sfumate per Baggio nel ’90 e più recentemente per Carlos Tevez.
Tuttavia, trattando dei suoi “colpi”, Galliani raggiunge l’estasi narrando di Marco Van Basten, idolo venerato alla Carmelo Bene: «ancora oggi quando lo vedo mi inginocchio, mi pare di vedere la Madonna».
Cattolico convinto e penitente, «codardo come quei marinai che pregano Dio nella tempesta», Adriano Galliani la prega per davvero la Madonna, soprattutto da quando ha sentito la fede rinvigorirsi a seguito del Covid. «Sono sempre stato credente, ma vado in chiesa più di prima e prego di più». Allo stadio, dopo un’ora di gioco lascia le tribune per andare in Chiesa: «scappo dallo stadio all’intervallo e mi rifugio nel Duomo di Monza, a cellulare spento. Esco solo dopo il fischio finale; quando abbiamo battuto la Juve mi ha avvisato un chierichetto».
Vivendo lo sport come mania e come sferomachia, per dirla con Arpino, Adriano Galliani ha bisogno di esorcizzare i timori, sublimare la passione, guardare in alto e pregare la Madonna, «nel male ma anche nel bene perché sempre ne abbiamo bisogno». E perché di non solo campo vive l’uomo (di sport) ma anche di trascendenza, di non solo numeri ed algoritmi ma anche di sensibilità, preghiere, fede.
Per Adriano Galliani il calcio è una rincorsa all’esistenza, intima e solenne come le domeniche con la mamma, forsennata come le sue pedalate da bambino e come oggi le sue esultanze: «Quando facciamo gol sento una botta al cuore e non riesco a trattenermi: il dottor Tavana mi dava tante gocce di En, un calmante, perché non riuscivo a reggere l’emozione. Sono fanciullesco». E infatti la sua vicenda, sportiva e dirigenziale, è tutta umana:
«Io non riesco a rassegnarmi ad una vita senza emozioni», dichiara dopo mezzo secolo di carriera, 90 mercati e 30 trofei, tra cui 8 scudetti, 5 (!) Coppe dei Campioni e 3 Mondiali per club.
E stupisce come, dopo così tanti anni ai massimi livelli in un mondo del genere, ancora blocchi l’ingaggio di Sarri sulla panchina del Milan per eccesso di lealtà: «Cambiai idea quando lessi che aveva dichiarato: Renzi è addirittura peggio di Berlusconi. Così prendemmo Mihajlovic». Fedele nei secoli e più realista del Re, quel Berlusconi che pure, da parte sua, ha sempre messo sotto contratto con le sue reti, i suoi giornali, la sua casa editrice personaggi che si sono arricchiti scrivendo (anche) contro di lui. Ma per Adriano no, parole del genere verso «l’amico, il maestro di tutto, la persona che mi ha cambiato la vita per oltre 43 anni» non potevano passare in cavalleria.
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Perché in tutti i suoi trionfi, in tutte le migliori compagini – dal Milan degli Olandesi a quello di Ancelotti, fino al Monza undicesimo in Serie A – prima di ogni cosa c’è il cuore, il suo tamburo, a muoverlo in una carriera alimentata non dal cinismo degli affari ma, assicura lui, “solo dalla passione”. Come quando ha confessato che, al momento di vendere Kakà al Real, gli tremava la mano: «Quella volta, mentre firmavo, piangevo proprio. Il mio amico Florentino Perez ci rimase male: Adriano, se vuoi annulliamo tutto. Ma ormai certi costi non potevamo più permetterceli».
O, a proposito di Real, quando ha incontrato il suo idolo Di Stefano: «Al sorteggio di Champions lui rappresentava il Real Madrid e io il Milan; già questo mi emozionava. Quando poi per alzarsi in piedi si afferrò al mio braccio, ho pensato a mia mamma e mi sono venute le lacrime agli occhi». Per questo solo una stampa semplicistica, che ha perso Dio, il Padre e la Madre tra bilanci, statistiche e ‘bombe’ di mercato, può chiamarlo Condor. Come se il suo fosse unicamente un cinico e calcolato volteggio nei cieli del pallone, in attesa della preda e dell’occasione dell’ultimo minuto su cui piombare.
Quelli sono i giorni, del Condor, omaggio tra l’altro ad un grande film di Sydney Pollack e adattamento, a sua volta, del romanzo di James Grady. Giorni singoli, tuttavia, in un’esistenza intera. E se Galliani ha scritto la storia del calcio è perché la sua è innanzitutto una grande storia d’amore – e solo per questo un’epopea dirigenziale. Un amore disperato, giovanile, infantile, assoluto e mai sazio, che non si appaga con i trofei o i riconoscimenti. Una ricerca continua e una malattia giovanile, quella per il calcio, che dura una vita intera. Il tutto in attesa dell’ultimo capitolo, inesorabile per chiunque, umili e potenti.
«Spero che esista l’aldilà per mettere fine alla mia ricerca. Perché, per tutta la vita, ho cercato la mia mamma».
Adriano Galliani, maggio 2023