La rivalità di due tennisti figli del sogno americano.
Si rispettavano, non si amavano. Per certi aspetti si specchiavano l’uno nell’altro. Certo è che due campioni del genere non capitano spesso nella stessa generazione sportiva. Uno è Andre Agassi. L’altro si chiama Pete, Pete Sampras. Due talenti unici, due combattenti che quando si incontravano tiravano fuori il meglio l’uno dall’altro. Anche perché, senza dare il massimo contro tennisti di tale levatura non si può pensare di vincere e neppure di presentarsi in campo.
AMERICAN DREAMS
Personaggi complementari, opposti che si sono attratti e combattuti per 34 volte nella loro carriera. In ogni contesto, su ogni superficie, a ogni latitudine. Se ci fossero due lune non sarebbe mai giorno, eppure ogni volta il sole deve sorgere e dunque almeno una luna è di troppo. Agassi e Sampras sono entrambi figli di immigrati. Il papà di Andre, Emanoul Aghassian (che poi cambierà le generalità in Mike Agassi), è stato nazionale iraniano di pugilato alle Olimpiadi 1948, prima di andare in Occidente e stabilirsi a Las Vegas. È Mike a mettere sopra la culla del figlio una pallina da tennis appesa a una corda, è sempre lui a fabbricare una macchina spara-palle nel giardino sul retro della casa. Lo sport ma soprattutto il mito del successo come necessità compulsive, trasferite per intero su un bambino. Il mito americano del vincente a tutti i costi portato all’esasperazione.
In Open, autobiografia di grande successo uscita in Italia nell’ottobre 2011, Agassi racconta le sessioni di training quasi disumane alle quali viene costretto in tenera età dal padre.
«Colpire 4.000 mila palline in due ore è meglio che colpirne 2.000 in quattro ore. (…) Se colpisci 2.500 palle al giorno, cioè 17.500 la settimana, cioè un milione di palle l’anno, non potrai che diventare il numero uno»
E scrive di essere arrivato anche a odiare il tennis, forse di averlo sempre odiato. Non si sente un talento naturale ma dai e dai, con quella forza mentale e quella voglia indotta di migliorarsi sempre, Andre un campione lo diventa. Chi invece un campione lo è per propria dotazione, è il suo avversario. Peter Sampras, detto Pete, classe 1971 (Agassi nasce nel 1970). Il ragazzo cresce in California. Il papà, Mark, è nato negli Usa ma ha chiare origini greche. Anche la mamma, Georgia, è connazionale di Platone. I due si sposano nel Maryland, dove Pete nasce. Mark lavora per il Dipartimento della Difesa e nel 1977 i Sampras si spostano sulle coste del Pacifico. Presto si forma l’interesse di Pete per il tennis.
La famiglia sembra meno normativa di quella di Andre, l’idolo di Pete è Rod Laver. Non sarà complicato per gli istruttori riconoscere un talento superiore, all’interno di un gruppo di ragazzi tutti bravi, tutti ambiziosi, tutti capaci di sacrificarsi. La rivalità nasce agli Internazionali di Roma nel 1989 con la vittoria di Agassi, ma diventa ancor più evidente l’anno successivo, in finale agli US Open. Nell’occasione è un Sampras perfetto a imporsi. Sampras sarà poi capace di bissare nelle semifinali del Masters 1994, al termine di un match spettacolare che “Pistol Pete” fa suo dopo avere perso il primo set.
Essendo chiara la lotta per la leadership nel ranking mondiale, il pubblico comincia a focalizzare sempre meglio le caratteristiche e la psicologia dei due contendenti. Sampras ha il miglior servizio, Agassi la migliore risposta. Agassi il più devastante rovescio lungolinea, Sampras il miglior dritto in corsa. Agassi è il trionfo della volontà. Al contrario, Sampras è il giocatore più pulito, più fluido, più naturale. Forse meno solido sul piano caratteriale (e “Open” racconta bene cosa si celi dietro l’apparente inossidabilità di Agassi), ma più campione “tout court”. Nel corso degli anni i due si studiano a vicenda, ma lo studio può avere un valore relativo. Del resto, quando ci si trova faccia a faccia per 34 volte in carriera, da un certo momento in poi le capacità tecniche e lo studio dell’avversario assumono un peso sempre minore.
Tutto si trasforma in una battaglia di nervi ed è la resistenza psicologica a prevalere. Sotto questo profilo la battaglia degli Australian Open del 29 gennaio 1995, l’unica finale di Slam vinta da Agassi su Sampras (4-6 6-1 7-6 6-4), è esemplare. A dire il vero, Sampras non si presenta nelle migliori condizioni. Il coach Tim Gullikson è malato e non c’è cura che lo possa salvare (morirà l’anno successivo). Nonostante tutto Pete è capace di rimontare per due volte uno svantaggio di due set, scoppiando in lacrime prima del quinto contro Jim Courier. E alla fine batte il connazionale. In finale però è il tennista di origine iraniana ad avere la meglio. Intervistato dopo la premiazione, Agassi dà immediatamente prova di grande onestà e di quel rispetto che tra i due non è mai mancato.
«Oggi non era al meglio» dice, «ma la verità è una: lui è davanti a tutti».
Chapeau. La rivincita avviene a Flushing Meadows, poi per molto tempo non c’è nessun confronto diretto nei tornei dello Slam fino a Wimbledon 1999. Il 4 luglio Sampras conquista il suo sesto torneo di Wimbledon, e il dodicesimo Slam della carriera.
«Oggi camminava sull’acqua» ammette a fine partita Agassi. «È stata la mia miglior partita da anni» replica un Sampras raggiante. «Andre ha tirato fuori il meglio di me portandomi a giocare a livelli fenomenali».
Il 6-3 6-4 7-5 finale fa di Pete Sampras il primo giocatore dell’era open a trionfare per sei volte nel tournament per eccellenza. Per rifarsi, Agassi deve saper attendere: l’occasione è la semifinale degli Australian Open del 2000. Stavolta Agassi vince 6-4 3-6 6-7 7-6 6-1. È un match spettacolare e ancora una volta ognuno deve attingere a ogni risorsa più riposta per rimanere in partita. Sampras perde per la prima volta in Australia al quinto set e dopo quella vittoria, che svuoterebbe chiunque altro sul piano mentale, Agassi vince il torneo contro Kafelnikov. Ma è solo il preludio al vero show, che va in scena l’anno successivo, durante il “Van Halen Tribute” a Flushing Meadows, New York.
STANDING OVATION
Jimmy Van Halen merita una pagina nella storia dello sport: è l’uomo che nel tennis ha inventato il tie break in luogo del doppio vantaggio al termine di ogni set: senza di lui chissà quanto sarebbe durato quel quarto di finale agli US Open 2001 e quanto durerebbero quasi tutti gli incontri ad alto livello. Quello fra Agassi e Sampras è ancora una volta uno dei match più belli di sempre. Più di tre ore e mezza di spettacolo puro che il pubblico saluta con una standing ovation all’inizio del tie break del quarto set. Ed è proprio quell’omaggio spontaneo il ricordo più forte che rimane impresso nella mente di Pete Sampras, come il campione stesso racconta al giornalista e commentatore televisivo Steve Flink per la riedizione del libro The Greatest Tennis Matches.
«Erano tutti in piedi e per cinque secondi questo mi ha spinto fuori dalla partita. Pensavo, ‘Wow, deve essere molto bello per loro’. Da atleti, noi due ne avevamo passate tante ma tutto si poteva riassumere in quel momento in cui i tifosi si sono alzati per applaudirci. Era come se stessero dicendo ‘Sono due grandi americani e potremmo non vedere niente di simile per i prossimi dieci, venti o cinquant’anni’. Così ci hanno mostrato tutta la loro ammirazione».
Un match in cui nessuno perde mai il servizio, ci sono solo nove palle break. Sampras mette a segno 25 aces, scende a rete 170 volte con il 70% di punti trasformati. Dall’altra parte del campo c’è un Agassi strepitoso, che gioca un match fatto di risposte e di anticipi che sfidano la fisica e che chiude con 15 errori e 55 risposte vincenti. Di fronte a lui quel giorno si smarrirebbe chiunque, ma Pete Sampras non è chiunque. Così Agassi si ritrova a perdere per la seconda volta in carriera a Flushing Meadows dopo aver vinto il primo set.
I due tornano nell’impianto del Queens nel 2002, per l’ultima di Pete Sampras. E Agassi non vuole rovinargli la festa. Elimina Hewitt in semifinale lottando, mentre Sampras ha vita più facile contro Sjeng Schalken. Sampras si muove meglio, è più fresco. Fa il suo tipico gioco serve & volley su prima e seconda di servizio, con la voglia di dimostrare di essere ancora il numero uno. E anche stavolta un Andre Agassi in grande condizione perde solo perché dall’altra parte c’è Pete Sampras, che chiude con un 6-3 6-4 5-7 6-4 e saluta tutti. Il confronto complessivodi 34 battaglie fra due campioni simili, diversi, opposti e complementari, finisce 20-14 per Sampras. Dirà anni dopo il campione di origine greca:
«Con me Agassi perdeva anche quando giocava meglio, perché sapeva che ero più forte».
Chissà. Una cosa è certa. Se l’american dream non è un’utopia, un americano di origini iraniane e un altro ragazzo figlio di genitori greci ne hanno assaporato il gusto. In fondo gli Stati Uniti non rappresentano la terra delle opportunità ma, a dispetto di altri posti al mondo, un’opportunità almeno teorica c’è. Bisogna essere Agassi e Sampras per sfruttarla.