La genesi del rapporto tra Albert Camus e il calcio è spesso ridotta alla celebre – quanto inesatta – citazione che recita: “Ce que je sais de la morale, c’est au football que je le dois” (Quel che so della morale lo devo al calcio). Come cercheremo di mostrare, però, queste parole riassumono in modo approssimativo sia 1) il rapporto di Camus col pallone sia 2) il ruolo che quest’ultimo ha avuto sul Camus politico, letterato, filosofo. Tanto per cominciare, la reale citazione di Camus sulla morale è sensibilmente diversa da quella di cui sopra:
“Le peu de morale que je sais, je l’ai appris sur les terrains de football et les scènes de théâtre qui resteront mes vraies universités” (Quel poco che so della morale l’ho appreso sui campi di calcio e le scene di teatro –le mie vere università).
Questa citazione, più lunga della prima, è anche più significativa. Camus non si limita ad unire l’elemento teatrale a quello calcistico – à là Pasolini – ma sottolinea la propria estraneità al mondo accademico-intellettuale. La “vera università” di Camus è l’area piccola,l’amicizia che si coltiva in uno spogliatoio, le lacrime e i sorrisi prima e dopo i novanta minuti, lo spazio teatrale, infine, come riflesso dell’innocenza calcistica.
Quando Charles Poncet chiede a Camus cosa preferisca tra il calcio e il teatro, lui risponde: «Il calcio, senza esitazione». Anche perché nel teatro letterario che popola la produzione di Albert Camus, il calcio trova sempre il modo di entrare nella narrazione. Ne La Peste (1947), l’amicizia di Rambert e Gonzalès germoglia intorno all’amore per il calcio. Ne Il Primo Uomo (romanzo postumo e incompiuto pubblicato nel 1994), l’alter ego di Camus, Jacques, scopre il calcio giovanissimo, durante la prima ricreazione scolastica della sua vita. Lo scrittore si proietta anche in Jean-Baptiste Clamence, l’eroe de La Caduta (1956):
«Ancora oggi le partite della domenica in uno stadio affollato e il palco di un teatro, che ho amato con una passione senza pari, sono gli unici posti al mondo in cui mi sento innocente».
Albert Camus a 7 anni (al centro vestito di nero) nel laboratorio di suo zio, Algeri, 1920 (foto The Vision)
Le radici di Albert Camus
Fondato nel 1927, il Racing Universitaire Algérois – d’ora in avanti RUA –, «frutto della volontà di uomini desiderosi di commemorare il centenario dell’Algeria francese e delle sue università» (scrive Michael Manchon, autore di un libro sulla sua storia), viene eletto club di Francia dall’Equipe nel 1951. Rappresenta l’élite dello sport algerino. Non solo. Rispecchia, più in generale, l’appartenenza “sociale” di questa élite, come è facile constatare da un verso del suo Inno:
«Les étudiants costauds, carabins et notaires, avocats, pharmaco / Poussent leur cri de guerre: RUA RUA RUA, club universitaire».
Secondo M. Manchon, «il RUA è stato senza alcun dubbio, per [Camus], uno dei simboli dell’identità algerina». Le radici culturali e politiche del giovane Albert ruotano in effetti attorno al RUA. Prima di diventarne tifoso, vi gioca – da titolare – nel ruolo di portiere. Il RUA è etnicamente bersagliato dai suoi nemici per il sangue algerino che scorre nella sua storia – come nella sua rosa. Camus stesso, come è noto, nasce e cresce a Belcourt, quartiere di Algeri.
Il piccolo Albert Camus, con cappellino e sciarpa, portiere titolare del Racing (foto Bibliothèque Méjanes)
Come scrive Emmanuel Roblès, amico di Camus e tifoso del CDJ (Club des Joyeusetés): «Nous étions contre le RUA, à mort, (…) Pour commencer, vous étiez algérois! Malheur! (…) Algérois: cela signifiait ‘chiqueur’, ‘des-qui-s’croient-le-cul-béni’, des ‘mariolles’ et, pour aggraver leur crime, les ruaïstes étaient des étudiants, des fils à papa, ô Camus!…». Algerini e figli di papà. Niente di peggio per Roblès, qui metonimia dell’odio anti-RUA.
Camus ricorda bene quegli anni: «On jouait dur avec nous. Des étudiants, fils de leurs pères, ça ne s’épargne pas» (Con noi studenti, figli di papà, giocavano duro). Partito senza scarpini, il promettente calciatore è costretto ad appenderli al chiodo prima del previsto, a causa di una maledetta tubercolosi. Secondo Eduardo Galeano, Camus gioca in porta perché abituato a giocare senza scarpe. La sua breve carriera inizia nell’AS Monpensier e finisce nel RUA, dove si trasferisce nel 1929. Ha appena 17 anni quando i primi sintomi del malessere fisico iniziano a manifestarsi.
Orfano di padre a neanche un anno di vita, cresce con la madre e la zia. È senz’altro vero che già questo basterebbe a spiegare la venatura esistenziale del pensiero di Camus. Ma la tesi di questo articolo è che, più che la morte del padre, sarà proprio la tubercolosi a spegnere l’infanzia felice del piccolo Albert. Non rimane che l’illusione della libertà. Lo si legge a chiare lettere in uno dei suoi scritti più geniali, Il mito di Sisifo (1942):
Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.
Sisifo che trasporta il masso, 1920, nell’interpretazione di Franz von Stuck
Uno su mille ce la fa, e allora Camus si butta in politica. Ma se è vero che «entre ma mère et la justice, je choisis ma mère» (tra mia madre e la giustizia, scelgo mia madre), l’impegno civile va giudicato più alla luce di un disimpegno dalla vita – in particolare quella calcistica – che di un reale sommovimento dell’anima. Tra i seggi elettorali e i seggiolini da stadio, neanche a dirlo, Camus sceglie i secondi, da sempre:
«Il n’y a pas d’endroit où l’homme est plus heureux que dans un stade» (Non c’è luogo dove l’uomo sia più felice che in uno stadio).
Cosa lega Camus alla propria terra? Innanzitutto il proprio sangue. Egli fa parte di quella stirpe così rara e preziosa per la Francia che va sotto il nome di Pieds-Noir (letteralmente “Piedi Neri”), sinonimo dei francesi algerini che, con la conquista dell’indipendenza dell’Algeria (nel ’62), finiranno per essere l’anacronismo vivente di un ricordo passato. Come Camus, Pieds-Noir celebri, tanto per fare qualche nome, sono Jacques Derrida, filosofo, Claudia Cardinale, attrice a noi più nota, Yves Saint-Laurent, celebre stilista.
Camus s’inebria di politica in assenza di un vino migliore. Ma sono anni decisivi per l’Algeria. Il Nostro spinge per la “tregua civile” (il suo appello risale al 22 gennaio 1956) e difende, nelle sue Chroniques algériennes (maggio del ‘58), la politica di integrazione. Tuttavia, proprio non riesce a dimenticare il calcio, nemmeno nel bel mezzo di un conflitto tanto importante per lui e la “sua” gente: «A vent’anni di distanza, la parola “RUA” pronunciata da un amico mi fa ancora battere il cuore come nient’altro al mondo», annota da qualche parte.
Sì, ma perché allora Camus segue il Racing Club de Paris? Non è forse, questo, un tradimento degli antichi colori? In realtà, come lui stesso dichiara, Camus va allo stadio
«uniquement parce qu’il porte le même maillot que le RUA, cerclé de bleu et de blanc. Il faut dire d’ailleurs que le Racing a un peu les mêmes manies que le RUA. Il joue ‘scientifique’, comme on dit, et scientifiquement, il perd les matchs qu’il devrait gagner» (solo perché indossa la stessa maglia del RUA, cerchiata in blu e in bianco. Inoltre il Racing ha un po’ le stesse stranezze del Rua. Gioca ‘scientifico’, come si suol dire, e scientificamente perde le partite che dovrebbe vincere).
Non solo la stessa maglia, gli stessi colori, ma le stesse stranezze (manies) del RUA. Anche il Racing di Parigi sembra perdere scientificamente le partite che dovrebbe vincere. Nel Racing Club de Paris, Camus, trasferitosi nella capitale e allergico alla vita di corte, ritrova l’amico di sempre: il calcio.
Albert Camus allo Stadio
Lontano dal mondo intellettuale
È appena ventenne il Camus che vince una borsa di studio e si proietta, anche solo virtualmente, nell’élite intellettuale parigina del primo Novecento. I suoi incontri con René Char e Jean-Paul Sartre, in questo ambiente, sono senza dubbio decisivi. L’accademia non vede di buon occhio l’amore di Camus per il calcio. E quest’ultimo, dal canto suo, per il calcio, ha addirittura un occhio di troppo, come direbbe Hölderlin parlando del Re Edipo. Niente come il calcio, lo testimonia lui e lo svelano i suoi testi, ha scandito la vicenda intellettuale ed esistenziale di Albert Camus.
Trasferendosi a Parigi, lo scrittore si scopre povero: «la pauvreté me paraissait l’air même de ce monde» (la povertà mi apparve come l’aria stessa di questo mondo). Cresciuto con poco e un pallone – quindi con tutto ciò di cui aveva bisogno –, Camus nemmeno si era mai posto il problema della povertà come tale. La scopre, per così dire, nel bel mezzo della ricchezza. Dove vogliamo arrivare? José Lenzini, esperto camusiano, scrive che
«alla fine della sua vita (4 gennaio 1960), [Camus] è inviso all’intellighenzia di destra come a quella di sinistra. Egli si sente solo. Se non fosse per la tubercolosi, Camus avrebbe speso tutto il proprio tempo a giocare a calcio».
Camus non è un uomo di Versailles, ma di Belcourt. È un uomo del popolo che ama lo sport più popolare al mondo: il calcio. Privato della sua più grande passione, non ha smesso di anelarvi. È il 1957. Albert Camus vince il Premio Nobel per la Letteratura. Con i soldi del riconoscimento, decide di acquistare una proprietà a Lourmarin nel Lubéron, lontano dal caos algerino come da quello parigino.
L’idillio bucolico è tutto concentrato nelle domeniche passate a bordo campo a guardare i ragazzi del club locale battagliare con la squadra ospite. Arriverà a sponsorizzarli e a pagare le loro maglie. Sconfiggerà, in quegli occhi sognanti, i propri incubi di giovane calciatore incompiuto. Morirà portiere, letterato, filosofo, il 4 gennaio del 1960.