Ritratti
04 Luglio 2021

Aldo Montano, la scherma nel sangue

Cinque olimpiadi e non sentirle.

Aldo Montano entrò nella storia dello sport azzurro – e, nello stesso istante, del costume nazionalpopolare – con lunghi favoriti da poeta romantico a mandare in sollucchero le gentili telespettatrici Rai. E i palmi delle mani che, medaglia d’oro olimpica appesa al collo, sporse a favore di telecamere in mondovisione con quattro cifre sopra. 05 nella destra, 86 nella sinistra: tuttoattaccato 0586, il prefisso telefonico di Livorno. Un gesto tremendamente local e global al tempo stesso: in un’epoca ancora pre-social, va aggiunto.

Quell’estate 2004, d’altronde, era un periodo da Ardenza Caput Mundi, con Carlo Azeglio Ciampi presidente della Repubblica in carica e gli amaranto di Walter Mazzarri freschi di promozione dopo 55 anni verso la Serie A, dove mancavano dalla stagione della tragedia di Superga. E, il giorno prima di Aldo, in quella stessa torrida Atene, il cecinese Paolino Bettini era andato a vincere l’oro nel ciclismo su strada.

Quando il prossimo 28 luglio scenderà in pedana per la gara a squadre, dopo aver rischiato addirittura di fare il portabandiera, saranno passati 17 anni meno qualche settimana da quel 14 agosto che lo vide esordire e vincere da ventiseienne outsider – per quanto campione d’Europa un anno prima a Zalaegerszeg, nell’Ungheria patria della sciabola – e lo vedranno chiudere da quasi quarantatrenne, due volte padre e con cinque complessivi Giochi nel curriculum (in più un argento, in quella stessa estate, e due bronzi a squadre a seguire). Degli attuali compagni in azzurro non potrebbe forse essere il padre ma uno zio sì: il napoletano classe ’94 Luca Curatoli, il romano ’92 Enrico Berrè e il foggiano ’87 Luigi Samele, tutti alla loro prima avventura a cinque cerchi.

Eccellenza (sportiva) italiana

Sulla pista dell’Hellinikon, dopo l’affondo decisivo e chilometrico che spedì la lama della sua sciabola contro il petto del magiaro e quasi coetaneo Zsolt Nemcsik per la stoccata del definitivo 15-14, quella perfetta capriola di gioia non l’aveva vista nessuno prima. Nemmeno fosse stato, lui, il terzo attaccante di un tridente dei sogni con Igor Protti e Cristiano Lucarelli. Quello che accadde poi fu puro caos in salsa labronica: amici, abbracci, magliette volate via, torsi nudi, boiadé.

Eppure Aldino, pur con quei modi apparentemente poco ortodossi per il compìto mondo biancovestito, era tutt’altro che un parvenu.

Anzi, era (ed è) semmai l’ultimo pargolo ribelle di una delle dinastie d’oro della scherma europea, tra nonni, padri, zii e cugini. E allenato a diventare campione – paradossi della vita – dal siberiano Viktor Sidjak, il quattro volte oro olimpico, già nemico pubblico numero uno dei Montano della generazione precedente. D’altra parte essere livornese è così, non concede sconti. È una linea che comincia dal porto franco voluto dai Medici nel Cinquecento come affaccio sul mare per Firenze e in cui pascolava ogni genere d’umanità arrivata da ogni dove del Mediterraneo, dove si stampavano i libri proibiti come l’Encyclopedie di Diderot e d’Alembert.

E arriva, quel filo rosso, in pieno Novecento, fino a Modì, a Piero Ciampi, a Nada Malanima e agli Ovosodi di Virzì. E, “da corso Amedeo al Cisternone”, in mezzo c’è passato tutto il resto: Giovanni Fattori e i macchiaioli che se fossero stati parigini altro che impressionisti (ma loro avrebbero detto che in fondo Parigi è solo una Livorno a cui manca il mare), i romanzoni storici di quell’attaccabrighe di Francesco Domenico Guerrazzi, il talento di Pietro Mascagni, fino alle pagine liriche di Carlo Coccioli e Giorgio Caproni e alle malinconie contemporanee di Bobo Rondelli (Viaggio d’andata senza ritorno / Bella Livorno, mi fermo qui), tutti personaggi spigolosi, scabri, come un ponce al rumme in una giornata d’inverno.

Aldo Montano oro olimpico
Aldo Montano mentre bacia l’oro olimpico ad Atene 2004

E, per stare alla scherma, la patria di Tremamondo Malevolti, figlio d’un mercante alla conquista d’Europa, e di Giuseppe Gianfaldoni, eroe romantico di un Settecento di sospiri e rumor di spade. E poi di Eugenio Pini e di Beppe Nadi, il severo pompiere che fece dei suoi figli Nedo e Aldo i più perfetti atleti della prima parte del Novecento schermistico.

Fino allo stupore del Fides, mas que un club: un circolo, fondato proprio da quel Beppe Nadi, capace di vantare nel suo palmarès roba come 61 medaglie olimpiche (30 d’oro, 28 d’argento e 3 di bronzo) e 107 medaglie ai Campionati del Mondo (41 d’oro, 42 d’argento e 24 di bronzo). In terra greca, ci furono tutti gli indizi di una tragedia, nel senso bello del termine. Quelle maschere di plexiglas introdotte a favore dello spettacolo televisivo ma che facevano degli atleti delle specie di palombari di terraferma. L’infortunio in finale sul 13-14, con l’avversario che va ad aiutarlo a superare il morso dei crampi e diventa una cartolina universale di fair-play. Ma poi Aldo Montano non perdona chi gli ha comunque teso la mano in una scena da Libro Cuore. Pronti, a voi: arma in linea e cavazione in tempo per il 14 pari.

E infine quella stoccata, improvvisa e perfetta, fu la chiusura di un cerchio aperto in famiglia 68 anni prima, con l’argento del nonno omonimo nella più celebre estate di Berlino.

Fu un oro che all’Italia mancava addirittura dai tempi di Nedo Nadi, Anversa 1920: poi era quasi sempre andato ad est, tra Ungheria, Unione Sovietica, Polonia (e solo un po’ di Francia). Fu la decima medaglia in famiglia, compresa quella volta che ben quattro cugini Montano (Mario Aldo, Mario Tullio, Tommaso e Carlo) andarono a podio nella stessa Olimpiade, a Montréal 1976, cose che nemmeno nel guinness dei primati.

Arrivò ad Atene con tre titoli italiani alle spalle e tante belle speranze, il figlio di Mario Aldo detto Mauzzino, ne ripartì con orizzonti nuovi. Il jet set attirava il bel manzo di bianco vestito. E lui non seppe dire di no. Finì a Quelli che il calcio. Piombò nel talamo di Manuela Arcuri, come un Coco qualsiasi, e in quello di Lory Del Santo. Nel 2006 finì perfino al reality La Fattoria, prima di accompagnarsi poi con Antonella Mosetti per lunghi anni.

Aldo Montano, italianissimo (a volte pure troppo)

Finisce a ripetizione, e rigorosamente con addominali in bella mostra, sulle copertine di For Men e di Men’s Health, fa il testimonial di John Richmond e dei deodoranti Intesa, dei costumi Rosso Porpora. Eppure, nonostante tutto, resta un atleta di altissimo livello. Gli scatti un po’ ammiccanti che, ancora oggi, ogni tanto carica su instagram non traggano in inganno. Resiste a tutti e a tutto, Aldo. A 40 anni suonati da un bel pezzo, gli resta un fisicaccio che gli invidierebbero i ventenni. Anche se quello stesso fisico lo ha messo spesso alla prova con infortuni in serie (dalla spalla agli adduttori, dai tendini alle caviglie, passando per la pubalgia) e provato in ogni modo a cacciare dalla scherma che conta.

Tra un stop e l’altro in infermieria, vince comunque l’oro Mondiale nel 2011 a Catania e una altra manciata di titoli italiani. Gli altri sciabolatori passano, lui resta, per nulla spaventato dagli “anta”, con la tempra di un Maldini o di un Totti da speravo de’ morì prima.

Uno di quegli sportivi che invecchiano solo nella carta d’identità ma non nel cuore di chi li osserva e li ama.

Si gioca altre tre olimpiadi, portandosi a casa sempre qualcosa: i due bronzi a squadre a Pechino e Londra, fallendo solo quella di Rio dove non ci fu la prova collettiva e nell’individuale lui, reduce dalla sala operatoria poco prima della vigilia, finì fuori agli ottavi col russo Kovalev. Nella vita privata, in questi due decenni, ha messo la testa a posto. Alle more di un tempo ha preferito la bionda Olga Plachina, talentuosa ostacolista russa classe 1997. E intanto, dopo la piccola Olympia (nomen omen) la coppia ha messo al mondo un secondo figlio, proprio prima dei Giochi. Si chiama Mario, che è un nome che sta alla dinastia Montano come Vittorio Emanuele a quella dei Savoia.

Ci siamo. Tra un mese e mezzo saranno 85 anni da quando, al sorgere della genealogia labronica, tutto cominciò con nonno Aldo senior nella Berlino di Jesse Owens. Un altro cerchio che si chiude. Il quinto appunto.

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