“Uomo libero, sempre amerai il mare!”: è un principio di vita e destino, un comandamento esistenziale, nei versi di Charles Baudelaire. L’uomo libero è a cuore indomito nel mare aperto, impavido nello sciabordio, non teme guerre di corsa né la ventura; l’indole temeraria del bucaniere è in Alessandro Gattafoni, 36enne marchigiano, una fibrosi cistica diagnosticata all’età di quattro mesi e una vita cadenzata da premure e attenzioni che il corpo obbliga. Nell’epoca del nichilismo camuffato da resilienza, la sua è una vicenda di audacia e ostinazione, di sport come volontà di varcare limiti, paure e condizionamenti che natura impone.
Attraverso lo sport, Alessandro alimenta quel soffio vitale che la fibrosi potrebbe affievolire fino all’asfissia: ne fa respiro animoso, anelito di vita. E pensare che lui non avrebbe potuto praticare sport all’aperto. Da bambino, i medici lo avvertono che le intemperie ne potrebbero compromettere lo stato di salute; le uniche attività concesse sono quelle al chiuso, come la palestra (che però non è uno sport) o il nuoto. Fino a quando, stufo di dover sopportare limiti a lui incomprensibili, a 14 anni Alessandro decide di iniziare a giocare a calcio, contravvenendo a dettami e apprensioni di medici e genitori; tre anni dopo, attraverso una ricerca internet, scopre che l’aspettativa di vita per quelli come lui è di trent’anni.
Il tempo a disposizione è limitato, si accorge di “dover fare di più”, di voler “mordere la vita”, perciò aggiunge altre attività: kick boxe, pugilato, Spartan Race e, da un anno a questa parte, kayak, con cui ha lanciato l’iniziativa 125 miglia per un respiro, la traversata adriatica (Civitanova-Croazia) a scopo di sensibilizzazione e beneficenza. Lui, che non aveva mai imbracciato i remi, nel 2021 ha deciso di farlo per raggiungere l’altra sponda dell’Adriatico: 21 ore consecutive di pagaiate, 125 miglia di navigazione per quell’idea di ostinata libertà che è la sua vita.
Alessandro, che ha un figlio ed è prossimo al matrimonio, attraverso lo sport vuole farsi esempio per coloro che si trovano nella sua stessa situazione e per la sua famiglia, perché il figlio possa tenere a memoria i valori che hanno mosso il padre: la fame di vita, la forza di spirito, un’autentica libertà. Le azioni di Alessandro Gattafoni sono esemplari così come le parole, che semplici e consapevoli arrivano immediate ad offrire un insegnamento di cui, ci si rende conto in seguito, non si può fare a meno.
Alessandro, il mare come destino, lo sport come valore spirituale?
In generale, per me è stato una rivalsa, verso me stesso e verso una vita che cominciava a starmi stretta: negli ambienti che frequento, non parlo della mia mia patologia a nessuno, perché mi oppongo da sempre a favoritismi o protezioni. Sono sempre stato molto grintoso e combattivo, per cui fin da ragazzo mi infastidiva ricevere cure e attenzioni particolari, perché io non mi sentivo inferiore e volevo competere senza sconti.
È per questo che poi, a febbraio del 2021, ho scelto il kayak; non avevo mai praticato canottaggio o sport simili, ma ero affascinato dal fatto che in mare non esistano barriere, confini o paternalismi; il mare è il mare, non guarda in faccia nessuno, è molto spietato da questo punto di vista, e io volevo sfidare apertamente tutti i limiti, senza che nessuno mi riservasse trattamenti di favore. Da una sfida personale è nata poi “125 miglia per un respiro”, l’iniziativa che vuole sensibilizzare e informare un bacino più ampio possibile di persone sulla fibrosi cistica.
Hai tatuato il “Molon Labe” di Leonida, a tuo figlio hai dato il nome di Giona: il primo si rivolse ad un oracolo, il secondo a Dio. Alessandro a chi si rivolge?
Partiamo da una premessa: sono una persona atea, in quanto fatico ad accettare, dal punto di vista esistenziale, la mia condizione. Per quanto io sia volitivo ed energico, alle volte sento di non potermi accontentare di questa vita “a tempo”: ho un figlio e una compagna meravigliosi, l’idea che io non possa garantire loro una presenza stabile mi fa venire in mente la celebre frase per cui “se dio esiste dovrà chiedermi scusa”. Perché che ci sia o meno uno spirito che muove le cose, ciò che io sono oggi lo devo ai miei incaponimenti, alla volontà di superarmi e superare una condizione, quella di malato terminale, che non potevo accettare: dovevo evitare a tutti i costi di essere morto prima di morire, di rassegnarmi alla malattia e arrendermi ad una vita che non poteva definirsi tale.
La pandemia ha imposto limiti e paura della morte, mentre la depressione impera tra i giovani, che sempre più spesso ricorrono a psicofarmaci o addirittura al suicidio: come convivi con la morte, e quindi con la vita?
Ovviamente è un tema a me molto caro e vicino: a trent’anni ho trascorso un grave momento di crisi, ho smesso con lo sport e non nego di aver preso in considerazione tutte le possibilità; in questi casi c’è bisogno di un motivo per vivere e andare oltre. Nel momento in cui andavo perdendo il mio, è arrivato Giona, che mi ha risollevato dalla depressione e mi ha dato una ragione per ricominciare. Tuttavia, nei confronti della morte autoimposta condivido l’approccio pieno di dignità dei popoli orientali; quando ho compiuto la traversata ho indossato il giubbetto di un caro amico che, in seguito ad un momento di crisi, ha scelto di farla finita.
Anche a lui ho dedicato la traversata, onorandone la memoria e la morte. Spesso, poi, mi viene spontaneo guardare alla morte con fare rinunciatario, in quanto ho già oltrepassato la “soglia” dei trent’anni; poi mi rianimo perché ciò che conta, lo insegna anche la filosofia classica, è farsi trovare compiuti, pronti moralmente, esercitandosi a vivere, a morire e facendosi esempio. “Voglio farmi trovare vivo dalla morte”, dice Alex Bellini, e io non voglio certo farmi trovare già morto e arreso alla vita.
Si va diffondendo sempre più l’idea di resilienza, di sopportazione inerme e passiva alla vita: come vinci i tuoi limiti e quest’idea patologica di rassegnazione?
La mia condizione inevitabilmente ti porta a dover sopportare, ad essere “resiliente”. Sto male per nove mesi all’anno: ho un ginocchio ormai fuori uso, il polso in tormentato dall’artrite, senza scordare le solite difficoltà respiratorie e le analisi spesso sballate. In questa settimana mi sono allenato tre volte, per quattro ore, con i valori spirometrici al 79% e la saturazione al 90%, condizioni più che sufficienti per restare a riposo, con antibiotici e medicine varie. Si fa tutto, comunque, perché bisogna farlo: se accettare i limiti è necessario, subirli può essere letale. Quest’idea malata di passività mi dà la forza per reagire.
In ogni parola, Alessandro si dimostra un corsaro della vita con l’animo fisso a nuovi approdi. Ha lo spirito del navigatore, il suo destino è nei flutti, incalcolabile e assoluto. La rada non è una possibilità, e se la vita è necessariamente legata alla finitudine di ciò che è terreno, si può raggiungere l’eterna pienezza dell’esistenza per mezzo del sentimento e delle azioni. È l’insegnamento di Alessandro Gattafoni: viva incarnazione del fatto che, davvero, non è necessario vivere, necessario è navigare.