All or Nothing Juventus ripercorre lo scorso campionato, quello con Pirlo in panchina. È una stagione calcistica complicata, che vede la Juventus protagonista di un cammino incerto e insolitamente altalenante. Il tema ricorrente è l’inseguimento del tanto agognato decimo scudetto. Il prodotto non è memorabile e si sviluppa attraverso temi piuttosto ripetitivi. Tuttavia, alcune scene meritano attenzione perché certificano il difficile momento di transizione di una società che ha dominato gli ultimi nove anni in Italia e che ora è nel pieno di una crisi identitaria.
A colpire innanzitutto è l’assenza di tre protagonisti: Paulo Dybala, Andrea Agnelli e Igor Tudor.
Il primo non compare praticamente mai. L’argentino, quest’anno vicecapitano, non emerge come leader all’interno dello spogliatoio. Quando si tratta di alzare la voce, la Joya non c’è mai. Il secondo appare a sprazzi, nel primo e negli ultimi episodi. All’inizio il presidente bianconero afferma che la stagione passata (quella con Sarri) è stata una “merda” e che crede fortemente in Pirlo. Alla squadra nel settimo episodio espone poi le sue teorie sul calcio moderno e sulla necessità di rinnovarlo. Singolare è la reazione di Cristiano Ronaldo: mentre Agnelli parla di Superlega, CR7 si gratta la testa ed è visibilmente annoiato. Tudor, infine, proferisce le sue uniche parole soltanto nell’ultimo episodio. Al tavolo dei tattici prima delle partite parlano tutti: Pirlo, Baronio e Gagliardi. Tutti tranne Tudor.
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La dirigenza della Juventus, in generale, non ne esce benissimo. Le telecamere riprendono diverse volte i principali dirigenti in preda a deliri isterici. Nedved in primis, che dopo la sconfitta con il Benevento afferma furente di voler entrare nello spogliatoio e “spaccare la testa a tutti”. Paratici, che predica calma e ricorda più volte le oggettive difficoltà di un anno così anomalo, è spesso confusionario. Il culmine è una scena di fine agosto 2020. A pochi giorni dalla fine del calciomercato e dall’inizio del campionato, Paratici si rivolge a Nedved, ricordandogli come sia necessario acquistare quanto prima un attaccante.
Paratici: «Pavel, non possiamo più aspettare un minuto, bisogna chiudere un centravanti, anche perché domenica giochiamo con Cristiano e con Dejan. Dybala è fuori e non abbiamo neanche cambi».
Nedved: «Cioè dobbiamo prendere un attaccante domani mattina?».
La Juventus, che più di ogni altra squadra in Italia (e forse non solo) aveva fatto della programmazione un suo punto di forza, si ritrova a dover prendere decisioni in maniera avventata e improvvisata. Il fil rouge che lega quasi tutti gli episodi è la mentalità vincente della squadra e della società. Buffon, Chiellini e Bonucci sono chiamati spesso davanti alle telecamere per spiegare cosa significhi giocare per questi colori. Nell’ultimo episodio Bonucci è a pranzo con Chiellini: Bonucci: «non so che farai il prossimo anno…», Chiellini: «il primo ad abbandonarci è statoClaudio, poi Barzaglione, ora Gigi… io ormai sono il prossimo». Bonucci: «mi avete lasciato da solo», Chiellini: «l’ultimo rimani te», Bonucci: «magari un altro anno insieme, almeno ce la spartiamo un po’».
Lo scambio di battute si svolge su un tono informale, amichevole. Il messaggio di fondo è però eloquente: manca la juventinità, quel DNA vincente che ha caratterizzato le vittorie più recenti. Gli sfoghi rabbiosi dei senatori negli spogliatoi (Bonucci su tutti) cadono spesso nel vuoto e certificano uno scarto tra i più vecchi e gli ultimi arrivati. La sensazione evidente è che giocatori nuovi come Arthur, Ramsey e Rabiot non abbiano compreso alla perfezione dove si trovino. Gli sguardi di questi giocatori sono vitrei, assenti. Le parole di Bonucci a Chiellini assumono i contorni di una speranza d’aiuto. Del resto, lo dice anche Chiellini all’inizio del primo episodio: i più vecchi devono far capire a chi arriva cosa sia la Juventus. Più passa il tempo, più il compito è arduo.
A recitare un ruolo di primo piano è chiaramente Cristiano Ronaldo. CR7 è un alieno, nel senso latino del termine: è estraneo all’ambiente che lo circonda. È sempre nudo e i suoi addominali rappresentano un motivo ricorrente di tutta la serie. Davanti alle telecamere parla soltanto inglese e con i compagni adotta un idioma che è a metà tra l’inglese e lo spagnolo. CR7 è sempre perfetto e non è mai a disagio: «So cosa devo fare per essere il migliore. Sono io il mio medico, il mio nutrizionista, il mio allenatore mentale». Il momento più interessante della serie avviene durante l’intervallo di Juventus-Porto. Il portoghese è furente, nervoso: «stiamo giocando una merda… una merda!Questa è la Champions League, ci va personalità!». Cuadrado: «stai tranquillo, stai tranquillo, devi essere un esempio per tutti».
Ronaldo: «Stiamo giocando di merda, io compreso».
Quando la partita finisce il clima è ovviamente peggiore: la Juventus è eliminata dalla Champions League. La telecamera si sofferma su Cristiano Ronaldo, che piange coprendosi con le mani il volto. L’uomo scolpito nel marmo, il dio greco depilato che parla soltanto in inglese e ha 300 milioni di followers su Instagram, non riesce a darsi pace. Le sue lacrime sono sincere, puerili. Ronaldo piange come Achille e così come l’eroe acheo vorrebbe qualcuno da stringere, una madre a cui prostrarsi e a cui sputare tutti i suoi tormenti.
Ronaldo è un uomo solo: il fulgore della sua sicumera lascia spazio all’oscurità del suo abisso. È deluso dalla sconfitta, certo, ma soprattutto da se stesso. Ronaldo, l’infallibile Cristiano Ronaldo, è travolto da un’insopportabile sensazione che non conosce: il fallimento. È questo l’unico momento in cui Cristiano Ronaldo appare davvero nel contesto. È nel destino di delusioni europee che le storie parallele di Ronaldo e della Juventus possono incrociarsi, almeno per un attimo. CR7 che piange con la maglia bianconera è un tifoso qualunque e non più un divo inarrivabile: il portoghese è finalmente un simbolo vicino e tangibile.
La conclusione è affidata ad Andrea Pirlo, che nel corso degli episodi mantiene una calma e una dignità davvero invidiabili. Eccezion fatta per i suoi sfoghi ad alta voce (che stridono terribilmente con la sua personalità), è forse il personaggio che esce più a testa alta. L’allenatore guarda nel vuoto verso il centro dello stadio. Lo sguardo è attonito, quasi apatico. Pirlo, vincitore di due trofei e protagonista di un’insperata qualificazione in Champions League, non verrà confermato a fine stagione. Alla luce dei risultati della stagione corrente, prendersela soltanto con lui è come guardare il dito e non la luna.
I limiti strutturali di questa squadra (e società) sono evidenti e anche All or Nothing Juventus permette, almeno in parte, che emergano. In generale, la sensazione è che la narrazione trionfalistica di questa serie mal si addica a una stagione deludente. L’empietà delle telecamere, che profanano un luogo sacro come lo spogliatoio, rivela il momento di difficoltà e transizione di una squadra lontana dai suoi giorni migliori. La serie poteva essere la testimonianza epifanica di un ciclo di dieci anni di vittorie, è stato l’autunno di una crisi che non lascia intravedere, ancora oggi, un nuovo inizio.