Già a vederlo entrare in studio così scanzonato, con quel sorriso marpione e la speranza di “non dire troppe cazzate”, ci eravamo sciolti. Poi Massimiliano Allegri ha iniziato la sua lectio magistralis di pratica applicata al pallone, dimostrazione classicista di ingegno eclettico tutto italiano, di conservatorismo anarchico, di elogio delle differenze. Contro tutti i dogmi, i pensieri unici e le ideologie alla moda – d’altronde «il calcio è come un vestito grigio, non passa mai di moda».
Allegri si è presentato agli studi del Club di Sky Sport come leader di un vero e proprio movimento, capo di un partito metapolitico e metasportivo che è maggioranza silenziosa – viva Dio – di questo meraviglioso Paese. Lo ha fatto anche scherzandoci su, ammettendo di essere indicato come “contraltare ai giochisti” ma esponendo subito la sua filosofia di praxis rivoluzionaria: rivoluzionaria perché, soprattutto di questi tempi, rimettere le cose al proprio posto è diventata la più profonda delle rivoluzioni.
Lontano dalle lavagne tattiche, dalle insinuazioni, dai nerd, dai dogmi, dal “mio calcio”; dai discorsi infiniti sui moduli e sul ruolo dell’allenatore: «io non so come si fa l’allenatore – ha ammesso Max – è una cosa che non si spiega, non c’è scritto sui libri». L’ABC ristabilito, la consapevolezza per cui sono i giocatori a rendere bravo un allenatore, non il contrario. A fare da sfondo al tutto Fabio Capello, Paolo di Canio ma anche Caressa, Bergomi e compagnia in un Club che ci faceva sentire a casa, finalmente protetti dal “progresso” pallonaro. Perché negli ultimi anni tutto è stato travolto, stravolto e capovolto, ma per citare una frase di Max in chiusura:
“I giocatori vincono le partite, io non ho mai visto un allenatore fare gol. L’allenatore più bravo è quello che fa perdere meno partite”.
Ossigeno, aria fresca e pura a scacciare via quella viziata dei nuovi salotti sportivi. Così il tecnico livornese ha parlato di crisi del calcio italiano, di necessità di rimboccarsi le maniche fin dai settori giovanili: lavorare sulla tecnica di base, tecnica individuale e tecnica in velocità. Perché il calcio resta questo, l’emozione che proviamo quando assistiamo alla giocata, all’epifania del talento: i giocatori, non i tecnici! L’atto, non l’azione. Ci voleva Allegri per ristabilire il buon senso contro il senso comune, l’umanismo contro la scienza.
“Io mi emoziono con i giocatori, vi giuro mi vengono i brividi (…) Mi manca godere delle gesta dei miei giocatori”.
Insomma, Allegri è stato capace di riconciliarci con il pallone e con noi stessi. Il suo è un sistema pratico basato su un pilastro, una parola chiave che paradossalmente è in continuo divenire: equilibrio. Equilibrio come contrario di dogma e dogmatismo, come capacità eclettica di leggere le situazioni, di capire i diversi contesti che richiedono diversi soluzioni, di comprendere che nella stessa partita ci possono essere dieci partite e nella stessa stagione mille momenti. L’arte dell’adattamento, l’intelligenza senza pregiudizi che non crea problemi ma cerca soluzioni.
A Roma, e non solo, si sogna Allegri (Paolo Bruno/Getty Images)
Tutto viene investito dall’equilibrio, dalla costruzione da dietro – che «in alcuni momenti si deve fare e in altri non si può fare» – alla tattica e al rapporto con gli attori protagonisti, i giocatori. Perché, a costo di ripeterci, «i calciatori non sono lo strumento per dimostrare che gli allenatori son bravi», ma al contrario sono i soggetti che possono rendere bravo un allenatore. Mettere al centro il giocatore e lavorarci, ecco il punto. Per questo il tecnico deve mettersi al servizio della squadra e far perdere meno partite possibili. Così si torna ai fondamenti del calcio che non sono superati ma restano sempre lì, fermi, al di là delle mode:
“Il difensore deve difendere, il portiere parare, l’attaccante deve far gol” (Massimilano Allegri).
Reazionario, troglodita. Eretico!, come lo ha definito scherzosamente Fabio Capello: «Massimiliano sei un eretico, torni indietro negli anni, il calcio italiano, il catenaccio…». Cose superate, ferri vecchi da accantonare e mettere in soffitta: per questo abbiamo sinceramente goduto a sentire che “vince chi difende meglio”. Un aforisma inattuale sbattuto in faccia a tutti i teorici del “bel gioco” (?) in cui non si considerano mai le variabili e gli imprevisti, ovvero l’essenza del pallone.
Max è insomma l’Italiano perfetto, lo scrivevamo e riscrivevamo tempo addietro quando ancora la nostra era una battaglia di avanguardia/retroguardia, prima di diventare un’onda travolgente e una reazione autenticamente popolare. Ma non è neanche solo un discorso sportivo, è un qualcosa di ancestrale e allo stesso tempo culturale: l’ironia, il cazzeggio creativo, le battute sulla futura sposa mollata il giorno prima del matrimonio.
E noi tutti lì, dalla sua parte e senza mai prenderci troppo sul serio. Perché questo siamo, il grande popolo che riempie le sale ai film di Checco Zalone ridendo per le battute più sessiste e scorrette, puttanieri ma “sempre in buona fede” come diceva Leo Longanesi, tifosi del Montalbano fedifrago che ci fa emozionare quando finalmente lascia Livia per correre dietro alla nuova, bella e giovane fiamma. Siamo fatti così, inutile mentire; perché poi tutto è espressione del genius loci, compreso il calcio che varia a seconda dei contesti. I dogmi, la pesantezza e le verità per tutte le stagioni le lasciamo volentieri ad altri.
“Nel calcio, come nella vita, ci sono le categorie”.
Insomma, Allegri è la miglior risposta possibile al linguaggio elitario dei nuovi specialisti, laureati in statistica avanzata ma prestati al pallone. È la risacca inevitabile al progresso calcistico degli ultimi anni, la semplicità al potere, la naturalezza dei fondamentali. È il rappresentante di un popolo intero che ne ha pieni i coglioni degli expected goals e delle heat maps. Ma soprattutto è la gioia per le cose di una volta, che “non sono tutte da buttare”. Quelle che da ragazzi ci hanno fatto conoscere il pallone, nostro vero, e indimenticabile, primo amore.