Quanto incide sul risultato finale il lavoro di un tecnico.
Quanto pesi il valore di un allenatore e quanto lo stesso impatti sul gioco, sulle vittorie e le sconfitte, è una domanda che nasce insieme al gioco del calcio. Fiumi di letteratura, di interviste dirette e di confessioni a mezza bocca, non hanno trovato la risposta, ma hanno almeno aperto un dibattito tra i più interessanti in circolazione (che nel nostro piccolo approfondiamo da anni). Quest’anno il campionato italiano ha perso grandi calciatori, ma ha guadagnato grandi nomi (e personalità) in panchina.
La girandola di allenatori in Serie A ha riportato al centro del villaggio tecnici del calibro di Luciano Spalletti, Max Allegri, Maurizio Sarri e José Mourinho, su tutti. L’impatto mediatico all’arrivo di questi grandi allenatori è sicuramente stato forte, alimentando le aspettative di uno stravolgimento tecnico delle squadre (o di un ritorno alle origini). I recenti e prematuri esoneridi Eusebio Di Francesco e Leonardo Semplici, in questo contesto, costringono l’analisi ad un’ulteriore approfondimento: quanto e qual è il peso effettivo del lavoro di un allenatore sui risultati di una squadra? Sono preferibili i “gestori” o i “filosofi”? Se gli adagi latini, sciorinati fuori contesto, sono sempre segno di cattivo gusto, in questa sede non ci si può esimere dal ricercare la virtù nel mezzo, al centro, democristianamente distaccati dagli estremismi.
Procedere snocciolando qualche dato è un rudimentale metodo scientifico utile anche nel mondo del calcio. Andreas Heuer, Christian Muller, Oliver Rubner, Norbert Hagemann, Bernd Strauss, in un recente studio dal titolo “Usefulness of Dismissing and Changing the Coach in Professional Soccer” sono partiti dall’assunto che cambiare in corsa o esonerare l’allenatore non provochi impatti rilevanti sulla squadra. In particolare, i ricercatori tedeschi hanno analizzato tutti gli esoneri avvenuti a metà stagione, in Bundesliga, dal 1963 al 2008.
In aggiunta gli studiosi hanno anche analizzato i cambi di allenatore a fine stagione, nello stesso lasso di tempo che va dal 1963 al 2008. La metodologia della ricerca si è basata sullo studio della differenza reti delle squadre che subivano il cambio di allenatore, senza analizzare la differenza dei punti, troppo soggetta a interferenze esterne e variabili non considerabili. I risultati dello studio hanno portato a calcolare l’impatto del cambio di rotta in panchina a metà stagione o ad inizio stagione su una percentuale che si attesta al 15% rispetto all’allenatore precedente. In soldoni la guida di un allenatore, in qualità di “fitness producers”, impatta su una squadra solo per il 15% rispetto alla qualità dei giocatori in relazione ai risultati.
La ricerca degli studiosi tedeschi, però, si riserva dal trarre conclusioni rispetto alla possibilità di analizzare l’impatto di una guida calcistica duratura negli anni. A questo proposito, al fine di capire che tipo di influenza possa avere una gestione tecnica sul medio-lungo periodo, viene in aiuto una analisi di Calcio e Finanza. L’analisi tiene conto del numero di allenatori che si sono susseguiti – senza prendere in considerazione tecnici con una durata inferiore ad una settimana – sulle panchine dei grandi club europei dalla stagione 2001/2002 alla stagione 2015/2016. La prima classifica stilata, che tiene conto solamente delle permanenze medie, ci dice come i regni più lunghi in panchina siano durati in media più di due stagioni – Manchester United, Arsenal, Liverpool e il Borussia di Klopp.
Al contrario i paesi latini hanno una propensione ed una attitudine diversa, più incline ad esonerare i propri allenatori con una media di permanenza in panchina che va dall’1,07 anni del Real Madrid all’1,88 anni del Milan. Lo studio poi passa a confrontare la durata media di un allenatore su di una panchina, con la media di trofei vinti in 15 anni. Senza grosse sorprese la classifica è guidata dal Barcellona con 1,88 anni di permanenza in panchina per lo stesso allenatore e 1,93 trofei all’anno. Seguono Bayern Monaco con una permanenza media di 1,88 anni ed una media di trofei per anno di 1,73, e Manchester United con una permanenza media di 3,75 anni e una media trofei/anno di 1,40. I risultati sono facilmente rintracciabili: le società che garantiscono un progetto medio ad un allenatore, di almeno due anni, sono le stesse che vincono più trofei. In questo scenario gestionale, l’allenatore ha il tempo di lavorare e gestire al meglio le caratteristiche tecniche ed umane, in poche parole l’allenatore conta più del 15%, divenendo un vero e proprio asset fondamentale.
La letteratura scientifica italiana sul tema languisce, affidando ad una ricerca di Luca Mirtoleni, Costanza Torricelli e Maria Cesira Urzì Brancati gli unici risultati degni di nota. Tramite uno studio dal titolo “Serie A: quanto conta l’allenatore” i ricercatori hanno preso in esame le stagioni calcistiche 2011/12, 2012/13, 2013/14, per capire l’impatto degli allenatori italiani sui risultati delle proprie squadre. In particolare gli studiosi hanno utilizzato un metodo chiamato bootstrap, che consente di generare il risultato che la squadra avrebbe ottenuto basandosi solo sulle risorse disponibili – ad esempio la qualità della rosa calcolata secondo il monte ingaggi – e gli eventi casuali, senza calcolare l’apporto dell’allenatore reale.
Gli attori principali sono sempre i giocatori.
Massimiliano Allegri, Regola 15
Utilizzando questo metodo si ottengono dei risultati di default che permettono di avere un “allenatore automatico” basato solo sugli algoritmi sopradescritti a confronto con gli allenatori reali ed i loro risultati. Il risultato è agghiacciante: solo Antonio Conte e Francesco Guidolin hanno fatto meglio degli allenatori automatici. Il punto focale dello studio si basa però sui risultati ottenuti dalla quasi totalità delle altre squadre, dove i tecnici ottengono risultati in linea con gli allenatori automatici senza aggiungere o togliere nulla alle proprie squadre. In poche parole l’allenatore impatta sui risultati per una percentuale davvero minima. È chiaro che il confronto con altre leghe, Premier League su tutte, nasca spontaneo. In uno studio analogo si nota infatti come la percentuale di impatto degli allenatori nella massima serie inglese sia parecchio più alto rispetto al campionato nostrano. L’arcano è presto svelato: i club inglesi hanno più introiti, devolvono all’allenatore un ruolo da manager e concedono in media più tempo agli stessi di gestire e creare un ciclo.
In Italia il più recente esempio di virtuosismo calcistico-gestionale è rappresentato dall’Atalanta di Gasperini. I Percassi hanno abbracciato il modello gestionale inglese, lavorando sulle infrastrutture e concedendo a Gasperini il tempo di plasmare una squadra a sua immagine e somiglianza. I numeri sono sotto gli occhi di tutti: dalla stagione 2016/17 ad oggi, la Dea ha collezionato un 4° posto, un 7° posto e 3 terzi posti. La media è quella del quarto posto ogni anno, rispetto ad una media da 13° posto ottenuta nel lasso di tempo che intercorre tra la stagione 2011/12 e la stagione 2015/2016.
Giampiero Gasperini rappresenta forse il modello di sintesi migliore tra apporto tecnico e apporto gestionale spalmato negli anni. È un allenatore che più di ogni altro, in questi anni di Atalanta, ha proposto degli spartiti tattici interessanti basati su una difesa alta, un pressing a tutto campo ed una ricerca della verticalità immediata, accompagnati dall’importanza dell’utilizzo delle famose catene laterali. Nonostante il carattere, per alcuni ritenuto spigoloso, ha anche gestito fantasticamente uomini e risorse con turn-over sistematici e spirito di coesione. La rottura con Gomez ha inoltre rafforzato il suo status, sostenuto anche in maniera strenua dalla società. Così si costruisce un impero.
Per quanto la questione sia ancora ampiamente dibattuta, il ruolo dell’allenatore non ha mai perso centralità. È innegabile l’importanza dello studio tecnico-professionale per raggiungere la perfezione dei risultati ma lo è, altrettanto, la centralità di comunicazione e gestione delle risorse umane. Pacifico come, con la creazione dei nuovi format europei di coppa, il numero di partite sia aumentato vertiginosamente concedendo sempre meno tempo all’interiorizzazione del lavoro tecnico, in favore di capacità di turnazioni oculate e sapienti. Non è un caso che dagli anni 90 in poi ad alzare le coppe, spesso, siano stati allenatori-gestori come Ancelotti, Lippi e Ferguson, poco restii a mettere in discussione le proprie idee.
Il punto centrale della questione resta comunque il tempo a disposizione concesso ai tecnici per catechizzare le proprie squadre. Con i turbo-esoneri e le impellenze da vittoria acchiappa diritti tv, maestri come Sacchi e Michels non avrebbero avuto il tempo di plasmare il mondo calcistico con le proprie idee; altri, come Zaccheroni o Zeman per dirne alcuni, sono stati risucchiati in uno speedy calcio troppo avvezzo all’hic et nunc da non lasciare spazio di manovra per insegnare una materia che viene interiorizzata al crescere dell’alunno stesso. Così i professori ed i maestri si sono trasformati, inevitabilmente, in gestori di anime. Oggi vince chi gestisce meglio il gruppo, chi ha il maggior tempo per farlo, con un piede in equilibrio sul filo dell’esonero.
Come scrive Emiliano Battazzi nel suo Calcio Liquido, «Secondo Vujadin Boskov, c’è una legge eterna nel calcio: i giocatori vincono, gli allenatori perdono. Eppure non si può pensare alla storia del calcio se non all’interno della storia della tattica e dei suoi principali strateghi: gli allenatori». In giacca e cravatta o in tuta, maestro filosofo o cinico aziendalista, in piena sindrome di Burnout o con aplomb ineccepibile, l’allenatore resta punto focale nel calcio. Nessuna percentuale, studio o analisi che sia può, esaustivamente, contemplare e quantificare quanto impatto possa avere un condottiero alla guida di un manipolo di eroi. Ci si rassegni. L’allenatore è e sarà sempre sangue e carne, gestore di anime e capro espiatorio.