Non è un Paese per giovani, lo sapevamo. A quanto pare non lo è neanche per vecchi, dato il modo in cui è stato sottovalutato il virus all’interno delle case di riposo. Certamente, non è un Paese per atleti. Un lavoro che non rientra tra le categorie professionali per una limitazione mentale tipicamente nostrana. Ah, fai l’atleta. Quindi? Come campi? A essere inopportuno e fastidioso non è tanto il pregiudizio che praticando sport, anche ad alti livelli, non ci si realizzi nella vita, quanto piuttosto che questo rappresenti la realtà delle cose. Con certi tipi di sport, in Italia, non si mangia.
La pandemia ha messo in evidenza tutti i limiti del sistema in cui viviamo. Il nostro Paese ha mostrato ancora una volta l’abilità migliore che conosce, quella del controsenso e dell’approssimazione e, com’era prevedibile, la ripartenza si sta dimostrando la fase più difficile dell’intera gestione della crisi. Per capirlo basta approfondire la situazione del professionismo sportivo, in cui non solo si naviga a vista, ma si è immersi addirittura nel caos più totale. Specialmente per quel che riguarda gli sport di squadra.
Eppure l’atteggiamento del Ministro dello Sport Spadafora, assediato dalle continue pressioni di presidenti e diritti televisivi, a livello istituzionale è stato ineccepibile.
Durante l’intero lockdown, e specialmente nell’ultimo periodo, l’imbarazzante dibattito sul come, quando e se far ripartire il campionato di Serie A è sembrato essere l’unico problema dello sport italiano. Come abbiamo già avuto modo di scrivere, se il calcio fosse stato solo uno sport avrebbe vissuto la medesima odissea delle altre discipline. Però non pecchiamo di ipocrisia e di moralismo, la ripresa del pallone nostrano era effettivamente una vera e propria “questione politica“, come l’ha definita lo stesso Malagò, oltre che economica e finanziaria.
Eppure l’atteggiamento del Ministro dello Sport Spadafora, assediato dalle continue pressioni di presidenti e diritti televisivi, a livello istituzionale è stato ineccepibile: semplicemente voleva che per il calcio venisse adottato lo stesso atteggiamento riservato alle altre discipline sportive. Dunque anche un protocollo, se non uguale, almeno simile. Più volte Spadafora aveva ricordato le tante realtà a rischio collasso per la pandemia e, tra queste, non rientrava di certo la Serie A (anche qualora non fosse ripartita). Sappiamo come è andata a finire eppure, sfidando il ritornello diffuso di un ministro nel pallone, siamo convinti che non avesse torto.
In questi mesi il dibattito è stato tutto un Gravina (e presidenti, e pay tv e giornalisti) vs Spadafora, malgrado quest’ultimo dovesse ascoltare tante realtà sull’orlo di una crisi gravissima (Foto Paolo Bruno/Getty Images)
Ma facciamo una rapida panoramica sugli sport di squadra più diffusi dopo il calcio nel Belpaese, partendo dal basket. Qui i campionati sono stati dichiarati conclusi ormai da tempo, senza assegnazione di titoli né retrocessioni: una scelta di buon senso ma non certo fatta a cuor leggero. Per la pallacanestro la decisione è stata presa con qualche polemica, e con alcune squadre come Milano che volevano la ripartenza. La divisione tra chi era favorevole (ben 15 squadre) e chi auspicava una chiusura poi avvenuta, fa intendere anche come con maggiori interessi crescano anche le polemiche. Secondo Calcio e Finanza, il giro economico per la Lega Basket Serie A ammonta a circa 130 milioni di euro e il danno economico subito dal Covid-19 è attualmente di 40 milioni.
Questa cifra potrebbe aumentare nel caso in cui si ripartisse a settembre senza spettatori nei palazzetti. In tal caso – e la probabilità è molto alta – si dovrà pensare al modo in cui rimborsare i tifosi, argomento che la Lega Calcio non sta affrontando quasi per nulla o, perlomeno, non con la giusta decisione. Alcune società di pallacanestro, che prima dell’emergenza sanitaria stavano vivendo un momento positivo in termini di vendita di biglietti (+17% dell’affluenza di spettatori non abbonati rispetto alla stagione precedente), stanno pensando a dei voucher per evitare di perdere completamente gli introiti. Ma siamo sicuri che sarà possibile tornare in campo?
Con il rapporto Lo sport riparte in sicurezza, a firma del Politecnico di Torino e diffuso a fine aprile, è stata pubblicata una classifica degli sport dove il contagio del virus Sars-Cov-2 è più alto. Per stilare questa lista, sono state valutate le strutture di allenamento e di gara nonché la pericolosità che corrono atleti e pubblico con una scala del rischio da 1 a 4. Dall’analisi, sembra emergere che la pallavolo, il basket e il rugby sono gli sport che maggiormente facilitano la diffusione del virus.
Queste tre discipline hanno conseguito rischio 4, il massimo, contro la valutazione di 3 del calcio (ci sarebbe da discutere anche qui, la pallavolo ad esempio ha una valutazione di rischio massimo nel contatto con il pubblico mentre la pallacanestro ha rischio zero, e spesso i luoghi sono gli stessi). Di conseguenza, parliamo di sport che in linea ipotetica, e con questi protocolli, potrebbero anche tornare ad essere praticati solo quando vi sarà una cura o un vaccino definitivo – incrociando tutti le dita che il virus sparisca prima da sé.
Speriamo non ci aspetti un rugby non rugby, senza “assembramenti”: uno sport che potrebbe risentirne ancora più degli altri (Photo by Mark Kolbe/Getty Images)
Ed è trapelata in questi giorni la notizia per cui potrebbero inventarsi un nuovo tipo di rugby: senza mischia, senza raggruppamenti e senza contrasti sui falli laterali. Sostanzialmente, un altro sport. «Non c’è una progettualità per il futuro, né una base da cui partire». Simone D’Annunzio è il responsabile dell’area “mini” (i piccoli, insomma) della Lazio Rugby, allenatore dell’under18, ex allenatore della prima squadra per la quale quest’anno ha ricoperto il ruolo di video analist; per di più, è membro del Comitato Regionale Lazio. Insomma, di rugby ne mastica, e quando mi parla di volontariato come attuale unica soluzione per passare la crisi, un po’ di rabbia esce fuori.
“Per il prossimo anno c’è anche il dubbio se disputare i campionati regionali o meno. Un’idea potrebbe essere quella di riunire le squadre della provincia e giocare il fine settimana: in questo modo si limitano gli spostamenti e si continua a giocare per passione”.
Sì perché il grosso della struttura rugbistica si basa sulle quote di iscrizione dei bambini, sul volontariato dei genitori che per puro piacere si dedicano come fosse un lavoro a organizzare le trasferte, e anche su ex giocatori facoltosi che investono o donano alle società. Con i campionati fermi, diversi servizi non potranno essere garantiti e l’ipotesi che vi siano molti meno iscritti è più che concreta; servirebbe una rimodulazione dell’intero apparato, ma potrebbe non bastare. Che poi per la ripartenza forzata del calcio è stata decisiva l’affermazione, banale ma non scontata, secondo cui il pallone garantisce sostegno a molte persone che lavorano dietro le quinte.
Gli altri sport tuttavia non sono da meno: è vero, abbiamo scritto che il rugby si basa anche sul volontariato ma questo, oltre a non essere una giustificazione, non rispecchia totalmente la realtà. Se a livello non professionistico poi gli stipendi sono bassissimi e a lavorare sono per lo più studenti o ex giocatori che svolgono anche altre attività, anche i compensi che percepiscono i professionisti non sono minimamente confrontabili con quelli del calcio. Questione di diritti e sponsor, ma fino a quando non si tornerà a giocare l’unico introito per rugbisti e tutti coloro che lavorano nell’ambiente non sarà garantito.
La stessa garanzia non la hanno tutti coloro che praticano sport abbandonati dopo l’emergenza Covid. Tra questi, tutti quelli che hanno a che fare con la lotta. Luca Anacoreta, uno dei migliori atleti italiani di brazilian Jiu Jitzu, gestisce una palestra dove insegna la disciplina. «Zero – mi dice al telefono quando gli domando che tipo di aiuti siano stati forniti al suo settore – I 600 euro sono meglio di niente, ma a malapena ci pago l’affitto della struttura». Per chi come lui in questa ha l’unica attività, è naturale che possa presentarsi più di un problema. Ma la questione è più ampia: cosa si deve inventare un istruttore per far tornare la gente in palestra?
Una sessione di virtual boxing dagli Emirati Arabi (Photo by Francois Nel/Getty Images)
Il fatto che siano stati adottati due pesi e due misure in base alle discipline sportive dà fastidio, soprattutto perché i settori che avevano assoluto bisogno di supporto sono stati lasciati al loro destino. C’è però chi non vuol sentir parlare di cambio di abitudini, sarebbe una sconfitta troppo grande. Meglio aspettare, “anche perché non è colpa di nessuno”. Dario Bacci e l’Unione Italiana Jiu Jitsu, di cui è presidente, si sono posti l’obiettivo di far uscire dall’ombra la disciplina cercando di farla riconoscere a livello professionistico. Per riuscire nell’intento, è necessario migliorare quanto più possibile ciò che già si fa: certo, servirebbe forse anche un aiuto, cosa che attualmente non si sta verificando.
“Come il musicista, certi tipi di lavori non vengono visti come professioni ma come pure passione. È una mentalità italiana. Questo fa sì che pochi riescano a tirar fuori uno stipendio a fine mese. Ma le possibilità per vivere di questo lavoro ci sono, serve solo volontà e serietà”.
Per questo tipo di attività le palestre sono fondamentali, tornate alla “normalità” dal 25 maggio, ma è il come ovviamente che gioca un ruolo fondamentale. I timori degli iscritti potrebbero andare a loro sfavore, e anche nel settore gli aiuti economici scarseggiano. Il miglior fatturato per le palestre si registra poi solitamente tra i mesi di marzo e maggio, oltre che settembre: non solo questo non è stato garantito ma molte, come quella di Luca, hanno continuato a pagare gli affitti, seppur ridotti.
Per di più, si deve considerare tutto quel personale assunto a chiamata e che non sarà più richiesto. Consideriamo che, come già accennato, le palestre ospitano una serie di disciplinee corsi (la lotta è solo un esempio) che fino alla normalizzazione non potranno garantire introiti e iscrizioni; ma anche se queste ripartissero gradualmente, si tratterebbe comunque di numeri e ingressi contingentati, con minori guadagni e necessità di ridimensionare o tagliare i costi – o di alzare enormemente i prezzi, ma nel libero mercato ciò significherebbe la fine della singola attività, travolta dalla concorrenza.
Il senso di responsabilità pesa allora anche sulle spalle della popolazione, la quale dovrebbe abituarsi ad una cultura comunitaria che non può cedere alla paura. Dovremmo tutti prendere esempio dalla positività di Dario Bacci, sicuro che tutto tornerà alla normalità il prima possibile e che, anzi, le persone saranno invogliate a fare sport. Ce lo auguriamo. D’altronde lo sport ha una funzione sociale fondamentale e non investirci, per un grande Paese, sarebbe un autogol clamoroso. Per riprendere le parole dell’ultimo libro di Gianni Minà:
“sarà banale ripeterlo, ma lo sport ti addestra per davvero alla sconfitta e alla vittoria, alla lealtà e alla sfortuna, ti insegna insomma il rapporto allenamento e risultato, il riconoscimento e il rispetto del talento e il valore della volontà”.