Con buona pace degli inglesi che hanno sempre guardato con scetticismo ad ogni sport che fosse intervallato da break pubblicitari, pom pom, e coreografie di cheerleader, il calcio americano – pardon, il soccer – è sempre stato dismesso a pallida imitazione del glorioso football, fino a che non se lo sono ritrovati in salotto, a sostituire le loro pinte di ale con lattine di Budweiser. Se la pietra tombale dello humour britannico è stata la versione a stelle e strisce di The Office, a sancire la fine del calcio di sua maestà e, con il tempo, la perdita d’identità di quello europeo, è stata l’americanizzazione del pallone.
Se oggi, quando si incrimina la dilagante speculazione nello sport, si punta il dito, con ragione, contro gli Emirati Arabi o la Cina, il modello su cui si fonda il calcio moderno è però, senza dubbio, quello americano. Vent’anni prima della nascita della Premier League e del suo modello economico e di intrattenimento, l’America dei ’70 già era, al pari della Cina di oggi, oasi per ex campioni in fase calante e mediocri calciatori con scarse ambizioni, ma velleità di facile visibilità e lauti stipendi.
Quando nel 1974 Steve David, calciatore di Trinidad & Tobago che era stato appena promosso alla prima squadra del Leicester City, decise di accettare l’offerta dei Miami Toros, la sua busta paga ammontava a $200 a partita con bonus di $150 e $100 per, rispettivamente, ogni goal e assist portato a casa. Capitava così che il motivato attaccante chiudesse la stagione 1974/75 con $25,000 in tasca, alla faccia dei top player britannici che in patria guadagnavano, nel migliore dei casi, tra i $200 e $400 a settimana.
Come opera l’americanizzazione del calcio?
Se episodi simili esistono tuttora (si pensi ad Ibrahimovic ai Los Angeles Galaxy, Sebastian Giovinco al Toronto FC, o Alessandro Diamanti e Fabio Cannavaro al Guangzhou Evergrande) l’americanizzazione del calcio è invece soprattutto lampante nella sua colonizzazione culturale del calcio Europeo. La scomparsa della numerazione da 1 a 11, i nomi sulle maglie, le superfici delle divise fagocitate da toppe e sponsor da fare invidia al chiodo di un punk, i tifosi-clienti, i cori registrati, gli stadi-ipermercato e le valutazioni da boutique per calciatori da discount – per non parlare della narrazione da “show”, ormai imperante anche nel calcio europeo –sono tra i tratti più lampanti diventati triste normalità nel calcio di cui siamo ormai disillusi spettatori.
Tra tutte le anomalie del calcio a stelle e strisce passivamente accettate, tra le più fastidiose, v’è il culto del singolo sulla squadra. Non fraintendete chi scrive, i calciatori-squadra, uomini simbolo di stagioni gloriose, trascinatori di città intere, sono sempre esistiti e, ci si augura, sempre ci saranno. Diversa però è la natura del divismo tutto marketing e poco cuore di un Cristiano Ronaldo o di un Lionel Messi – si veda l’imbarazzante tiramolla estivo sul futuro della Pulce che ha messo in luce tutto il frustrato egocentrismo dell’Argentino.
Tra presentazioni in pompa magna dei neoacquisti, grafiche per i social media tra il blockbuster apocalittico hollywoodiano ed il pacchiano, e uso dei calciatori come oggetti di marketing, l’americanizzazione del pallone espleta senza vergogna la sua volontà di fare del calcio unmero fenomeno finanziario. Squadre comprate come se fossero azioni, in barba a storia, cultura, tifosi, e legame con il territorio. Più che l’assenza di etica – quando mai aspettarsela da Wall Street – è il sopruso del calcio, abbassato a mero fenomeno di costume tra fenomeni di costume.
Se l’americanizzazione del calcio ferisce lo sport in sé, non si nutre certo troppa compassione nei confronti dei calciatori, i primi ad accettare questo nuovo status quo e a porsi (e farsi porre) sullo stesso piano di influencer, youtuber o pop star; quasi che tirare calci ad un pallone sia un semplice accessorio della propria identità.
La mossa della promessa Zaniolo di intraprendere una società edile a soli 21 anni mostra l’arroganza di sportivi con ancora tutto da dimostrare ma viziati dall’overdose di attenzioni mediatiche e valutazioni drogate da facili entusiasmi. In confronto, la boutique inaugurata nel 1967 da George Best e Mike Summerbee a Manchester, la disastrosa avventura di Bobby Moore con il suo pub nell’East End di Londra, e addirittura – mai l’avremmo detto – il brand Sweet Years della premiata ditta Vieri-Maldini, sembrano semplici attività ambulanti, specchio di tempi in cui il calcio europeo era ancora (o parzialmente) libero dalla colonizzazione del modello USA.
Non fraintendete chi scrive, qua non si tratta di tessere agiografie di un passato puro ed a tutti i costi migliore. A dire il vero, i calciatori sono stati rockstar anche in passato, ma quando le rockstar rendevano onore al loro appellativo, quando i mavericks britannici emigrati negli States come George Best o Rodney Marsh vivevano una vita dissoluta per puro edonismo e follia, e non in favore di telecamere o smartphone. Il divismo dei New York Cosmos impegnati in serate allo Studio 54, scazzottate negli spogliatoi e sesso ad alta quota su jet privati, somigliava più a quello genuino e campanilistico della Lazio da Romanzo Criminale di Maestrelli che a quello delle bravate di Balotelli o dell’opulenza al limite del narcotraffico di un Neymar Jr.
Le colpe, però, più che imputate agli americani, vanno rintracciate negli europei stessi, nel loro snobismo nei confronti del calcio americano prima, e nella facile sottomissione alle tentazioni economiche offerte dal modello a stelle e strisce poi.
L’americanizzazione è un processo culturale
Gli inglesi – nelle vesti di Beatles, Animals, Rolling Stones e altri vari complessi della cosiddetta British Invasion – dopotutto l’America la avevano conquistata solo pochi anni prima. Con quella loro abilità unica di non creare mai nulla di originale, ma di saper cogliere, re-interpretare e fare diventare culto fenomeni stranieri – come in questo caso il Rhythm and Blues ed il Rock ‘n Roll Afro-Americano – gli inglesi del 1968 in cima al mondo, calcisticamente e culturalmente (si pensi al fenomeno globale che rappresentò la Swinging London) non accettavano lezioni da nessuno – figurarsi in materia di football.
Gli Americani, con grande lungimiranza e solito grandeur post-bellico, erano infatti sulla soglia di calare una delle loro classiche mosse imperialiste: non appropriarsi di una cultura straniera, ma stabilire un nuovo standard dominante per essa. Se la musica colta, un tempo esclusiva del vecchio continente, era stata accostata e successivamente eclissata dal Jazz prima, dal Rock ‘n Roll poi, così con la nascita della NASL lo stesso processo colonizzazione culturale stava per accadere al calcio europeo.
America? They can’t even play the bloody game! – Non sanno nemmeno giocare a questo diamine di sport! – così parlo l’inglese Ron Newman, ex di Portsmouth, Leyton Orient e Gillingham quando nel 1967 gli fu chiesto di commentare sulla neonata USA (United Soccer Association), progenitrice di quella che dal 1968 si sarebbe poi chiamata NASL (National American Soccer League) prima, MLS (Major League Soccer) poi. Di lì a poco Newman, che in Inghilterra aveva sempre militato sui campi di seconda e terza categoria, si trovò ad indossare la casacca degli Atlanta Chiefs e, due anni più tardi, nel 1969 a sedersi sulla panchina dei Dallas Tornado, iniziando una prolifica carriera da allenatore in terra statunitense che lo avrebbe tenuto impegnato per trentanni sino al 1999.
Malcolm Allison – allenatore del Manchester City campione d’Inghilterra 1968 nonché personaggio noto per non mandarle a dire in stile Brian Clough o Josè Mourinho – solo pochi anni dopo aver apertamente sbeffeggiato il calcio dello Zio Sam in occasione della tournée estiva dei Cityzen in terra americana, una volta arrivato sulla panchina del Crystal Palace decise di modificarne i colori sociali ispirandosi al blaugrana del Barcellona e di mutarne il soprannome da Glaziers – i vetrai – in Eagles per sfruttare il maggior appeal del nickname in stile NASL o NBA.
D’altronde, come confessò il giornalista sportivo inglese Paul Gardner, “a quei tempi [nel Dopoguerra] ero politicamente molto a Sinistra […] Ma quando i miei genitori improvvisamente iniziarono a guadagnare più di prima e diventammo più ricchi, cosa avrei dovuto fare – mandare un assegno in Russia? Gli americani erano coloro a cui guardavamo […] volevamo quelle cose, quelle macchine, quei vestiti e quei cibi confezionati”. Se il dio denaro seduce anche i più moralmente integri intellettuali, allora non c’è da sorprendersi che il modello americano ed i suoi lustrini abbiano fatto strage tra i calciatori.
Con i tempi che corrono, urge rivalutare la figura del difensore gallese Terry Darracott che, di ritorno dall’esperienza ai Tulsa Roughnecks nel 1979, fu uno dei pochi a non lasciarsi ammaliare dal calcio del domani ed orgogliosamente dichiarò la superiorità del vecchio calcio continentale ad uno fatto per “showman, non per calciatori”.
C’è da chiedersi quale sarà il prossimo passo dell’americanizzazione del calcio: forse le franchigie in stile NBA, simbolo per eccellenza della vacuità storica americana?! Tra Red Bull Salisburgo e Lipsia, e lo Spezia che per la prossima stagione di Serie A si trasferirà a Cesena per le partite casalinghe (uno spostamento dalla costa Ovest a quella Est in pieno stile americano) il futuro distopico del calcio di stampo NASL, che piaccia o meno, ha preso pieni poteri. Alla faccia del Vasco nazionale che, proprio dalla Riviera Romagnola, cantava ‘Non Siamo Mica gli Americani’. Chissà se qualcuno porrà un freno a questa bulimia di calcio-intrattenimento, d’altronde è nota la fine a cui vanno incontro i protagonisti de La Grande Abbuffata.