Confutazione di una delle più ingiuste bugie del ciclismo recente.
Nairo Quintana ha compiuto ventotto anni a febbraio e il suo piano di avvicinamento al Tour de France non è mai stato così estenuante, mirato e povero di appuntamenti. Ha ancora qualche anno per puntare al colpo grosso, ma ripensandoci è la stessa cantilena che ripetono tutti (lui compreso) dall’estate 2013, quando il colombiano dimostrò di essere lo scalatore più forte della sua generazione. Ha rispolverato i suoi affondi al recente Giro di Svizzera. Il successo ottenuto nella settima tappa ha stupito i più. Non tanto perché Quintana abbia lasciato sul posto Porte e gli altri quando al traguardo mancavano ancora ventisettechilometri e la lunga salita finale era appena cominciata; quanto, invece, per aver visto attaccare con veemenza ed efficacia il corridore della Movistar. Nairo Quintana, infatti, non gode di una buona reputazione: viene visto e giudicato un attendista, un ciucciaruote, o ancora peggio uno che si accontenta. Non si sa, con esattezza, chi abbia messo in giro una voce del genere. Fatto sta che da qualche anno, il colombiano deve convivere con questa etichetta: l’ennesima riprova che, se urlata da un esercito di persone, anche una bugia può diventare verità.
Quintana ha iniziato a vincere nel 2012, anno in cui ha debuttato nel professionismo con la Movistar: da allora, non si è più fermato e ha conquistato almeno una volta (quasi) tutto quello che un corridore con le sue caratteristiche può ambire a collezionare. Giro d’Italia, Vuelta a España, Paesi Baschi, Vuelta a Catalunya, Giro di Romandia, due edizioni della Tirreno-Adriatico; a questi risultati, dobbiamo aggiungere i successi di tappa ottenuti nelle brevi e grandi corse a tappe sopracitate, i tre podi al Tour de France e altre affermazioni in gare minori (Vuelta a Burgos, Route du Sud, Giro dell’Emilia, Valenciana, Asturias). È bene rinfrescare il palmarès del colombiano per dimostrare che è un vincente, non l’ultimo arrivato da due corsette all’anno. Quel che sembrava superfluo ricordare, invece non lo è: tutto quello che Quintana ha vinto in carriera, lo ha vinto attaccando. Il Condor, in Colombia lo chiamano così, adotta una tecnica elementare: se sta bene, attacca e fa la differenza; altrimenti, rimane a ruota o temporeggia. Se la situazione è pessima (qualcuno ha per caso nominato il Tour 2017?), perde in silenzio le ruote dei migliori. Una condotta di gara regolare e naturale, sembrerebbe. A maggior ragione, si fa fatica a capire dove e quando nasca la leggenda del “Quintana che non attacca mai”.
Può essere utile, da questo punto di vista, ricordare le sue azioni più brillanti. Il 2012, come detto il suo primo anno tra i professionisti, regala già due momenti importanti. Sul finire della stagione, Quintana fa suo il Giro dell’Emilia attaccando nel punto più duro del San Luca e sfiancando la resistenza di Franco Pellizzotti e Domenico Pozzovivo. Qualche mese prima, al Delfinato, la prima affermazione di valore. Tappa numero sei, da Saint-Alban-Leysse a Morzine: Quintana esce dal gruppetto della maglia gialla vestita da Bradley Wiggins, riprende Brice Feillu e negli ultimi quindici chilometri resiste al ritorno di Cadel Evans e del treno del Team Sky. L’anno successivo, Quintana è già Quintana. Chiude il suo primo Tour de France al secondo posto, arricchendo l’esperienza francese col successo ottenuto nella tappa numero venti, quella che si concludeva a Annecy-Semnoz: scatta in contropiede e anticipa Purito Rodriguez e Chris Froome, il quale, va detto, poteva anche permettersi di venire su col suo passo in virtù del vantaggio in classifica generale.
Il 2014 è la stagione nella quale Nairo Quintana conquista il suo primo grande giro: quello d’Italia. Il colombiano ribalta la corsa nella tappa numero sedici, la Ponte di Legno-Val Martello, con Gavia e Stelvio nei primi settanta chilometri. Gli appassionati la ricorderanno, anche a ragione, come una frazione confusionaria. Il maltempo incontrato nella prima parte di giornata porta gli organizzatori a neutralizzare la discesa dello Stelvio, ma evidentemente non tutti sono d’accordo e c’è chi, con un po’ di astuzia e un po’ di mestiere, fa orecchie da mercante. Quintana, alla partenza, era quinto a due minuti e quaranta dalla maglia rosa di Rigoberto Urán: deve provarci da lontano, se vuole avere qualche speranza di vittoria. Ed è proprio quello che fa. Si avvantaggia nel caos e nel freddo della discesa dello Stelvio, trova compagni e colleghi che lo aiutano o si trovano per interessi personali dalla stessa parte della barricata e porta a termine una delle azioni più belle della storia recente della corsa rosa. Conquista tappa e maglia mentre il ritardo dei suoi avversari assume proporzioni importanti: Kelderman, Pozzovivo e Aru chiudono rispettivamente quarto, quinto e sesto a circa tre minuti e mezzo, Urán a oltre quattro minuti, Evans ne prende quasi cinque. È un’impresa, senza mezzi termini: viene ricordata meno di quel che merita per la confusione venutasi a creare nel tratto di discesa dal Passo dello Stelvio.
La stagione 2015 porta con sé altri bei risultati ma qualche vittoria in meno. Quintana chiude ancora secondo al Tour de France, successivamente quarto nella Vuelta di Fabio Aru. Le uniche due vittorie arrivano a marzo: classifica generale più quarta tappa della Tirreno-Adriatico. L’attacco col quale sbaraglia la concorrenza sulle rampe di un Terminillo imbiancato è un ricordo abbastanza fresco. Sulle strade di Francia, come detto, non alza mai le mani al cielo ma in compenso fa tremare, e non poco, Chris Froome. Come due anni prima, Quintana aspetta le ultime salite per provare il tutto per tutto. Ecco qual è uno dei suoi difetti: l’attesa esagerata. Nella diciannovesima frazione, si limita ad una stoccata a cinque chilometri dall’arrivo de La Toussuire: la vittoria di giornata va a Vincenzo Nibali, partito sulla Croix-de-Fer, mentre il colombiano rosicchia trenta secondi alla maglia gialla. Il giorno dopo, si arriva sull’Alpe d’Huez passando di nuovo per la Croix-de-Fer: Quintana, che ha finalmente capito che Froome è attaccabile, fa il diavolo a quattro. Il primo allungo arriva quando al traguardo mancano ancora una cinquantina di chilometri: lo appoggia anche Valverde ma la maglia gialla rientra in discesa. Sulla mitica ascesa finale, il Condor non aspetta: ci prova e ci riprova e finalmente, al terzo tentativo, Froome cede. Quintana guadagna, abbuono compreso, un minuto e mezzo circa sul britannico. A questo giro, il secondo gradino del podio (a un minuto e dodici dal capitano del Team Sky) sembra andargli quasi stretto.
Nel 2016, Quintana dà il meglio alla Vuelta. Veste la maglia di leader al termine dell’ottava tappa, la perde appannaggio di de la Cruz nella nona salvo riconquistarla definitivamente il giorno dopo sul traguardo dei laghi di Covadonga, frazione che vince davanti a Gesink e Froome. La corsa si decide nella quindicesima tappa e Quintana si dimostra ancora una volta lucido e coraggioso. Giornata breve e veloce, centodiciotto chilometri da Sabiñánigo a Aramón Formigal: un percorso duro, nervoso e selettivo. Passano pochi minuti e la miccia si è già accesa: Alberto Contador pensa ancora di poter riaprire la questione e si lancia all’attacco. Si sgancia un gruppetto con all’interno nomi di punta: uno di questi è proprio Nairo Quintana, che non si lascia sorprendere. Gianluca Brambilla è il mattatore di giornata, il colombiano si accontenta del secondo posto: Chris Froome, l’avversario che gli faceva più paura, accusa un ritardo di oltre due minuti e mezzo. Ha perso il momento, ha dovuto inseguire: sforzo vano, purtroppo per lui. Il 2017 è storia recente. Un’annata in chiaroscuro, buonissima fino a maggio e disastrosa da giugno in poi. Della prima parte di stagione, si salvano due momenti: la seconda vittoria sul Terminillo (con annessa classifica generale della Tirreno-Adriatico) e quella sul Blockhaus nella nona tappa del Giro d’Italia, arrivate entrambe al termine di palesi dimostrazioni di forza in salita.
Che Nairo Quintana non attacchi, dunque, è falso. E allora, perché è opinione così diffusa? C’è un fondo di verità, è innegabile: è un discorso più approfondito, però. Il colombiano è uno scalatore puro: ha nello scatto una lama per scardinare la serratura e nel passo, alleato insolito per un grimpeur, un’arma per schiantare le resistenze avversarie. La realtà dei fatti, ampiamente dimostrata dagli stessi, è che Quintana soffre dannatamente il Tour de France: il suo fascino, la sua grandeur, il peso di poter essere il primo colombiano a conquistare la maglia gialla, la responsabilità di avere tutte le carte in regola per poterci riuscire e l’ombra di non averlo ancora fatto. Chris Froome, il rivale che fino ad ora sulle strade di Francia lo ha sempre sconfitto, dimostra una tenuta fisica e mentale invidiabile; quando non è al massimo, ci pensa la sua fenomenale squadra a tenerlo a galla. In più, ci sono (e ci sono stati, nel recente passato) tutti gli altri: Contador e Purito Rodriguez, Bardet e Porte, Urán e Martin, Aru e Fuglsang, Simon e Adam Yates, Dumoulin e Nibali. Insomma, i migliori interpreti delle corse a tappe, animali di regolarità e resistenza che hanno il compito, il desiderio e l’obiettivo di presentarsi alla partenza del Tour de France al 110%: se ci riescono, e spesso succede, fare la differenza diventa impresa ardua. Ciò che a Quintana viene più facile e istintivo sulle strade del Giro, della Vuelta e delle brevi corse a tappe, diventa improvvisamente difficile da imbastire su quelle francesi.
Tra le tante differenze che da sempre alimentano l’immortale confronto tra Coppi e Merckx, ce n’è una in particolare che riguarda il loro modo di gestire una corsa a tappe. Il belga, finché corpo e nervi glielo hanno permesso, attaccava in continuazione: pianura o collina, salita o discesa, leader o inseguitore, perfino nelle cronometro dava sempre tutto quello che aveva. A Coppi, invece, bastavano un paio di tappe per ipotecare la corsa: una volta messa in sicurezza, sapeva accontentarsi, rintuzzare i tentativi avversari e lasciare gloria agli altri. Lo dimostra il loro storico nei grandi giri: Merckx vestiva di giallo o rosa fin dalle prime giornate di gara, Coppi invece in più situazioni sbrigava la pratica nelle ultime tappe. Senza voler costruire paralleli, sembra evidente che Quintana appartenga di più alla “scuola coppiana”: anche quando è il più forte, limita il suo strapotere ad un paio di frazioni, per il resto controlla. Stesso comportamento, peraltro, tenuto anche da Froome e dal primo Contador. Pantani, per dirne uno, da questo punto di vista era più cannibale (la controversa corsa rosa del 1999 ne è un chiaro esempio); in tempi recenti, anche il Nibali del Giro d’Italia 2013 e del Tour de France 2014 non si è certo accontentato della “sola” maglia di leader una volta indossata. È lecito, dunque, ammettere che Nairo Quintana si faccia vedere meno rispetto ad altri suoi colleghi (attuali o del passato): un po’ per indole, un po’ per idea di corsa, e un bel po’ perché il Tour de France (e il Team Sky) lo inibisce. Affermare che il colombiano non attacchi praticamente mai, invece, è una balla bella e buona: gli eventi citati nel pezzo smentiscono questa tesi alquanto deboluccia. Al prossimo Tour de France, Quintana sarà affiancato (o dovrà affiancare, sarà la strada a dirci come stanno le cose) da due grandi corridori come Valverde e Landa: il primo ha sempre dimostrato di essere un valido e diligente compagno di squadra, ma a trentotto anni potrebbe non aver voglia di fare da tramite o paciere tra il Condor e il basco; lo spagnolo, appunto, ha invece un animo indolente e battagliero, non l’ideale per il calmo Nairo. Il Tour de France, per quanto pazza e imprevedibile, è una corsa che non lascia nulla al caso: esige organizzazione, devozione al proprio compito e al sacrificio, armonia e unione d’intenti. Il nemico più pericoloso alla prossima Grande Boucle, per Nairo Quintana, potrebbe essere proprio la sua formazione.
Discussioni sul Tour de France 2018: dialogo-intervista multipla nella redazione ciclismo di Contrasti. Rispondono Alessandro Autieri, Davide Bernardini, Leonardo di Salvo, Alessandro Veronese, Francesco Zambianchi.
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