Le priorità del calcio italiano.
Ogni estate, si sa, porta con sé il proprio tormentone ed anche questa ha rispettato la tradizione. Stavolta ci ha pensato il calcio, caleidoscopio che sintetizza le pulsioni degli italiani, a regalarcene uno forse un po’ stonato, ma buono per tutte le stagioni: il pallone deve essere veicolo di messaggi positivi e svolgere una funzione educativa. Il presidente FIGC Gravina lo ha ribadito in una dichiarazione di intenti per la lotta contro l’antisemitismo in accordo con il Ministro dell’Interno Piantedosi, quello dello Sport Abodi ed il Coordinatore nazionale per la lotta contro l’antisemitismo Pecoraro.
Un documento di 13 punti che, nonostante si rivolga ad un tema di estrema serietà, si presta a dubbi e soprattutto ad ironie.
Partiamo dal presupposto che parlare di antisemitismo in Italia, e soprattutto farlo in toni emergenziali, suona a dir poco eccessivo. Esiste davvero un sentimento antisemita diffuso per i campi sportivi del Belpaese? In che forme e modi si è manifestato? Esistono dei dati? Interrogativi senza risposta, o comunque senza una risposta affermativa. Poi, nei rari casi (certamente molto più rari di quelli che riguardano discriminazioni di altro tipo) in cui alcuni tifosi hanno tirato in ballo provocatoriamente gli ebrei e la Shoah, inutile sottolineare – nuovamente – che gli strumenti per punire punire tali comportamenti sono già ampiamente disponibili.
Eppure ciò non ha impedito a ministri, sottosegretari, presidenti di portare avanti questa crociata di civiltà. Con i soliti toni paternalistico-educativi che contraddistinguono (a parole) i vertici del calcio italiano, Gravina ha affermato: «Il mondo del calcio è unito nel contrasto all’antisemitismo e a ogni forma di discriminazione. Con questa dichiarazione d’intenti ribadiamo come il nostro sport debba essere sempre più inclusivo e, allo stesso tempo, uno straordinario veicolo di messaggi positivi. Grazie ai suoi valori più profondi e alla sua eccezionale forza comunicativa, il calcio si offre strumento di coscienza civica per educare all’accoglienza e al rispetto».
Nel documento si invoca poi una più attenta verifica del rispetto del posto assegnato sul biglietto, anche tramite l’uso “più strutturato e significativo” della tecnologia, così come il potenziamento del sistema di videosorveglianza e stewarding – senza approfondire il tema del capitalismo della sorveglianza applicato al pallone, la netta sensazione è che, con il pretesto della lotta alla discriminazione razziale, si voglia dare un’ulteriore spinta a metodi repressivi già asfissianti.
«Potenziare il sistema di video sorveglianza e i servizi di stewarding tanto all’interno quanto nei pressi delle strutture sportive, in particolare nei luoghi ove si siano verificati episodi di antisemitismo».
Punto 9 del documento
Arriviamo quindi al punto più mediatico di tutti: il divieto di utilizzo della maglia 88. Negli ultimi circoli di mohicani neonazisti, come ormai hanno imparato un po’ tutti, i due numeri rimandano all’ottava lettera dell’alfabeto, la H, e quindi all’espressione “Heil Hitler”. Eppure credere che, soprattutto in un mondo come quello del calcio, indossare le due cifre sia un omaggio e un’apologia del capo del nazismo appare quantomeno esagerato.
«Non assegnare ai giocatori la maglia con il numero ’88’, considerato un richiamo esplicito alla simbologia nazista».
Punto 3 del documento
E poi, ci chiediamo, qual è il confine dell’atto discriminatorio, in particolare antisemita? Mandare al diavolo una squadra israeliana e ricoprirla di fischi, al momento in cui la si affronta, rappresenterebbe un esempio di discriminazione? E dimostrare solidarietà al popolo palestinese con striscioni e bandiere, cosa peraltro già sanzionata dalla UEFA? ll rischio è sempre quello: tutto è discriminazione, nulla lo è davvero. Il calcio ha la ratio per discernere senza contraddizioni e regolamenti grotteschi?
Infine, l’aspetto che più dovrebbe premere a noi, tifosi, uomini, esseri umani, genitori: abbiamo davvero bisogno che il calcio ci educhi? Non siamo in grado di prendere posizione e formarci una coscienza autonomamente? D’accordo che ormai questa è una deriva estesa a tutta l’industria dello spettacolo, tra nuove rockstar e divi del cinema che si prodigano in appelli ecumenici ed esemplari. Però delegare per legge questo impegno a club e calciatori spesso inconsapevoli, è davvero ciò di cui abbiamo bisogno?
«Organizzare, in collaborazione con le Società e le Leghe, visite al Memoriale della Shoah di Milano (Binario 21) o in altri luoghi della memoria della Shoah, in Italia e all’estero, per i rappresentanti delle tifoserie organizzate e per i tesserati delle società sportive, al fine di far conoscere la vicenda storica della deportazione degli ebrei e di sensibilizzare sul tema dell’antisemitismo».
Punto 12 del documento.
Ma solo a noi sembra grottesco trattare giocatori, dirigenti e dipendenti, tifosi grandi, grossi e vaccinati come se fossero scolaresche, portandoli in gita nei luoghi della memoria per sensibilizzarli? Il tutto a quasi 80 anni dalla tragedia della Shoah e in una società che non dà segnali di antisemitismo? – poi se come sostiene Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, “non esiste una distinzione tra chi è anti-israeliano e antisemita”, allora è tutto un altro discorso, ma si entra anche su un piano a dir poco scivoloso e psico-poliziesco e che non ammette critiche, anche legittimamente forti, allo Stato di Israele.
Comunque, senza buttarla in politica, fatto sta che la politica del calcio italiana ha riconosciuto nella lotta all’antisemitismo una priorità su cui concentrarsi. E per farlo, con il punto 5 del documento, «impegna i tesserati delle società sportive a partecipare, sostenere e promuovere campagne di comunicazione finalizzate al contrasto di ogni forma di antisemitismo, adottando anche iniziative premiali che promuovano tale obiettivo».
Quale sarebbe il premio non vogliamo neanche immaginarlo, ci basta il meccanismo gesto-ricompensa che siamo soliti utilizzare con i bambini o gli animali domestici. Ad ogni modo, oltre alla facile ironia di tutto ciò, a tornare alla mente dopo questo intervento legislativo potrebbe essere l’insegnamento di Tacito: “Moltissime sono le leggi quando lo Stato è corrotto”. Beh, potrebbero rispondere loro come se fossero in un trash-talk televisivo: meglio corrotti che nazisti!. Non c’è paragone, almeno 89 volte meglio!