Un uomo dalla doppia vita, ma dall'unica vocazione.
Antonio Fernandez, classe 1970, nato a Jerez de la Frontera, è un uomo di calcio nel senso più profondo del termine. Ha sulle spalle una carriera ultraventennale nel calcio professionistico, fatta di incarichi prestigiosi come quelli di segretario tecnico del Siviglia, del Valencia, direttore sportivo del Malaga (quel Malaga arrivato a un passo dalle semifinali di Champions League) e analista della Spagna campione del mondo. Tanti i calciatori che ha scoperto, lanciato e valorizzato, molte le soddisfazioni e i titoli ottenuti, numerose le sfide affrontate, sempre ripartendo da zero, per carattere idealista e ostinato.
Ma Antonio Fernandez è anche ideatore di ‘Mucho mas que futbol’, un progetto partito in Sudafrica laddove sì e no arrivavano luce e acqua corrente, nella miseria assoluta, e pensato per dare, attraverso il pallone, una possibilità a chi non ce l’aveva. Qui tutto era diverso dalle nostre società sviluppate, secondo Fernandez, tranne una cosa: la gioia dei bambini quando giocavano a pallone. Un sentimento primordiale che lo ha fatto interrogare, fino a decidere di presentare un progetto a Del Bosque. La cosa è piaciuta, è cresciuta, fino a diventare un laboratorio ideale e trasferirsi in Spagna: prima nelle carceri per adulti, poi in quelle per minori. Carceri in cui è riuscito a portare Sergio Ramos, Azpilicueta, Monchi e tanti altri.
È questa una missione che Antonio Fernandez porta avanti da anni, una vocazione che per lui non ha una meta, un po’ come l’utopia per Galeano: «Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare». Nel mentre a Siviglia continua la sua carriera professionistica, che oggi lo vede come Responsabile del mercato internazionale giovanile del club: l’élite, l’altra faccia della medaglia e, soprattutto, l’altro volto della gioventù.
Antonio, per cominciare parlaci del tuo percorso ultraventennale nel mondo del calcio.
Beh, sono nel calcio professionistico da 22 anni, dal 2000 quando sono arrivato al Siviglia, con Monchi. In questi cinque anni e mezzo al Siviglia ho avuto la fortuna di vedere una squadra, inzialmente in Seconda Divisione, che nel mio primo anno cresce, sale in Prima Divisione, si struttura, inizia a lottare per le posizioni europee e finisce vincendo cinque titoli in 14 mesi con Juande Ramos come allenatore. Abbiamo messo Siviglia sulla mappa dell’Europa, in quel periodo.
Quindi sono andato a Jerez de la Frontera. Volevo trovare nuove sfide e per farlo sono tornato dove sono nato e avevo iniziato: in due anni siamo arrivati in Prima Divisione, per la prima e unica volta nella nostra storia. Quindi Valencia come segretario tecnico, nella stagione 2007/2008, con giocatori molto importanti. Non è stato un grande anno quello ma abbiamo vinto un titolo, la Copa del Rey. A quel punto mi chiama Fernando Hierro, direttore sportivo della Federcalcio spagnola. Mi dice che, dopo gli Europei del 2008, Luis Aragonés avrebbe ceduto la panchina a Vicente del Bosque – sulla stampa non era uscito nulla – e loro mi volevano nello staff tecnico per lo scouting e l’analisi: non potevo dire di no a una chiamata della squadra del mio Paese.
Io dovevo sia monitorare i giocatori convocabili sia analizzare i nostri rivali. Sono stati tre anni meravigliosi, fino ai Mondiali 2010 vinti e all’inizio delle qualificazioni agli Europei. In quel momento, a dicembre, ricevo una telefonata. È il Málaga che mi vuole come direttore sportivo. Decido di andare subito e arrivo con la squadra all’ultimo posto, e una rosa molto ristretta e sbilanciata. Ingaggio Manuel Pellegrini come allenatore e nel mercato invernale rivoluzioniamo la rosa, infine salvandoci. Poi in estate creiamo un modello e portiamo tanti giocatori importanti nell’obiettivo di raggiungere l’Europa entro tre anni. Il primo anno già entriamo in Champions, arrivando poi ai quarti di finale e sfiorando la semifinale con quella folle partita a Dortmund. Dopo Malaga decido di fermarmi un po’: ne avevo bisogno, ero sfinito.
Creo quindi un progetto alternativo, Wea Academy, lavoro negli Stati Uniti in formazione tecnica e in Indonesia come direttore dei progetti internazionali della Liga spagnola nel sud-est asiatico. Quindi ritorno in Spagna per fare da consulente esterno al Cadice, fino a che mi richiama Monchi per aprire un nuovo dipartimento a Siviglia per il reclutamento internazionale giovanile, per dirigere questo progetto e attrarre giovani talenti, che è ciò che faccio al momento e che mi rende molto felice. Oltre tutto questo, nel 2009 è nato un progetto di volontariato a cui tengo molto, penso che ne parleremo nelle domande successive.
Questo comunque è un po’ un riassunto della mia carriera, di cui sono molto soddisfatto per aver vinto titoli importanti come la Copa del Rey, la Coppa Uefa, la Supercoppa Europea, il Mondiale e per aver contribuito a ingaggiare giocatori molto importanti che poi si sono affermati sulla scena mondiale. Oggi ho ancora lo spirito e l’illusione di un bambino di continuare a crescere nel mondo del calcio. Nel frattempo un po’ di esperienza l’ho accumulata, e posso metterla a servizio dei più giovani.
Ecco, al di là della tua carriera di altissimo livello, ci hai accennato al tuo progetto: “mucho mas que football”, che di base si occupa di dare una possibilità a chi non ce l’ha attraverso il pallone. Ci spieghi come nasce e come si evolve?
Allora. Nel 2009, quando vado con la Nazionale in Sud Africa, mi preoccupo di vedere un po’ oltre il nostro ambiente lussuoso, hotel migliori, molta sicurezza, tutto perfetto, cibo fantastico. Così sono andato a Soweto, ho girato e un giorno sono andato nel Regno del Lesotho. Lì ho visto un po’ di realtà, la dura realtà delle persone che ci vivono. Questo mi ha fatto interrogare e capire quanto fossi fortunato, per il semplice fatto di essere nato in un luogo sviluppato e in una buona famiglia. Solo quello. Non avere la fortuna di essere nel calcio, di guadagnare più o meno soldi, di avere più o meno opportunità, auto o case migliori. No, questo non c’entra niente.
Essere fortunati semplicemente per essere nati in un luogo e sotto la protezione di una famiglia normale. Bene, lì in Lesotho ho visto una partita di calcio giocata dalla gente del posto. Il ragazzo più fortunato aveva una scarpa, e tutti avevano vestiti degli aiuti umanitari. L’aspettativa di vita era di 38 o 40 anni, con una percentuale molto alta di persone morte per AIDS. Non c’erano informazioni su nulla, e allora non c’era quasi luce o acqua corrente. Ebbene, nel gioco c’era una cosa in comune: lo sguardo dei ragazzi che avevano la stessa illusione dei bambini che possono giocare a Madrid, a Roma, a Milano, a Monaco o Parigi.
Così inizio a sviluppare un progetto: comincio nel 2009, lo scrivo, lo sviluppo, lo condivido con Vicente del Bosque. Gli piace molto l’idea. In fondo, Mucho mas que futbol è un laboratorio sui valori per cercare di alleviare quelle carenze socio-affettive che hanno tanti ragazzi nati in un contesto complicato. La società spesso li ha costretti ad essere adulti fin da ragazzi, non hanno avuto infanzia e molti hanno finito per commettere crimini. Ci sono tanti ragazzi che nascono nei posti sbagliati, che hanno le famiglie sbagliate e che alla fine non hanno altra scelta se non delinquere; non per questo vanno abbandonati.
Da lì il progetto si è sviluppato, nelle carceri per adulti in primo luogo (Valdemoro a Madrid, Alhaurín de la Torre a Malaga) e dal 2012 nel Centro per minori “Teresa de Calcuta” diretto da GINSO attraverso ARRMI (agenzia per la rieducazione e il reinserimento dei delinquenti minorenni della Comunità di Madrid), perché il messaggio sarebbe arrivato meglio ai giovani che agli adulti. Si è evoluto in modo fenomenale. Ci sono tanti ragazzi che, grazie allo sport, riescono a colmare mancanze che avevano fin da piccoli. Lo sport li aiuta ad essere motivati, ad avere voglia, a sentirsi utili.Imparano il rispetto, il cameratismo, l’autocontrollo emotivo, molti valori che lo sport ci insegna. La percentuale di reinserimento non a caso è molto alta: in questo centro supera il 95% dei ragazzi.
È un punto di svolta nelle loro vite in cui si rendono conto che, se si concentrano e si sforzano, possono farcela. Tanti ragazzi oggi mi rendono orgoglioso sapendo che sono sposati, che hanno dei figli, che hanno un bar tutto loro, che sono a capo di un’azienda di logistica; c’è un ragazzo che fa il musicista e ora ha milioni di visualizzazioni ed è stato in grado di ricostruire la sua vita. Insomma, la verità è che l’evoluzione del programma ha avuto molto successo. Ne sono davvero felice ed è per questo che non mi manca la forza per fare 300 chilometri ogni lunedì, per stare tre ore con loro e aiutarli a vedere la vita da un altro punto di vista.
Questo progetto è diventato anche un libro di successo in Spagna, che raccoglie 10 storie con nomi e contesti cambiati, ma tutte drammaticamente vere. Ci racconti alcuni aneddoti?
Guarda è un progetto che ho sempre portato avanti in silenzio, altrimenti non avrebbe avuto molto senso. Approfittando della pandemia, però, ho deciso che era una buona idea scrivere un libro su questi ragazzi, raccontare le loro storie, rendere il libro un altoparlante affinché la società realizzi ciò che abbiamo nelle nostre città. Così, facendo una metafora con il calcio, ho raccontato 11 storie per costruire la mia squadra. Questo è il mio 11: l’11 d’oro con 22 anni di carriera calcistica ad alto livello. È l’11 più importante che possa fare.
Metaforicamente metto questi 11 ragazzi/e ciascuno in una posizione in campo, a seconda della loro personalità. La storia è completamente vera, l’unica cosa che cambia è il nome del protagonista per proteggerlo, e il luogo del suo atto criminale. Se mi chiedi un aneddoto… bene, c’è un ragazzo, protagonista di uno dei capitoli. Sono a casa una mattina che faccio colazione e ricevo un messaggio privato su Instagram. “Ciao, ti ricordi di me?” Devo essere onesto, non mi ricordavo. Lui mi dice ancora “mi hai salvato la vita” e io, un po’ scosso…”come ti ho salvato la vita?“.
Mi ha risposto “Sì sì, nella Teresa di Calcutta. Grazie a tutti i tuoi consigli, grazie allo sport, grazie ai quattro anni al centro ho potuto concentrare tutte le mie energie una volta uscito e sviluppare la musica”. Oggi questo ragazzo è un cantante di successo, le sue riproduzioni si contano a milioni e se la cava molto bene, per fortuna. Gli aneddoti sono tanti, la verità è che i bambini che hanno commesso reati gravissimi, appartenenti a bande latine, come Trinitarios, DDP, ecc., molte volte non sanno nemmeno perché litigano, mentre i più grandi fanno i loro affari.
Quindi delitti all’interno delle bande latine, traffico di droga, omicidi. Ho avuto anche ragazzi che sostengono il terrorismo islamico, appartenenti o quasi già appartenenti a gruppi terroristici. La verità è che c’è di tutto, in questi anni ho visto di tutto. Ci sono anche ragazzi che hanno commesso reati di natura sessuale, aggressioni, stupri, etc… Ma la più grande soddisfazione è quando mi contattano e mi dicono che il passaggio per il centro è stato fondamentale per rifarsi una vita. Al centro, soprattutto, hanno capito che la vita poteva essere molto più semplice di quanto pensassero.
Insomma è un lavoro psicologico e umano, in senso lato, ben prima sportivo ?
Sì. Dopo l’attività sportiva molti vogliono parlarti personalmente, anche nella loro cella, e magari ti dicono che la famiglia non li ha visitati, che l’avvocato ha dato loro cattive notizie. Questo influisce, però anche lo sport influisce tanto. Spesso mi ripetono che nella pratica di questo laboratorio si sentono liberi, e questa per me è la ricompensa più grande. Però ti dico, molti ragazzi vogliono parlarti perché tu non sei il loro psicologo o assistente sociale. Sei uno che va volontariamente ad ascoltarli, a tendere una mano, ed è molto diverso dal professionista che sta lì otto ore ogni giorno, per cui loro sono costretti a parlare secondo le “regole”.
Credo sia per questo che i risultati sono magnifici, con un tasso di riabilitazione di circa il 95% in questo centro. Ovviamente c’è una percentuale minima che ci ricasca, che continua a commettere reati e una volta maggiorenne finisce in galera. Ma la maggior parte dei ragazzi lascia il centro, di solito con un lavoro perché istruita. Nell’ultima fase della loro misura detentiva, hanno la possibilità di essere in regime semiaperto e possono uscire per fare tirocini o anche per pubblicare CV in alcune aziende. Il calcio in tutto ciò è uno strumento basilare per riuscire a convincere questi ragazzi che vale la pena vivere la vita con passione, affetto e soprattutto con rispetto.
Sono tanti i rappresentanti del mondo del calcio (raccontaci di più) che sei riuscito a portare nei penitenziari. Erano solo passerelle o credi che il tuo messaggio stia passando?
Molti sono venuti per il centro, per il progetto. Penso a Sergio Ramos, Monchi, César Azpilicueta, Peter Luccin etc.. Ma anche tanti giocatori non così famosi che giocano in Seconda Divisione, però hanno una storia di vita importante da raccontare. Ciò è importante, motiva i ragazzi. La scorsa settimana abbiamo avuto Rodrigo Riquelme del Girona. Credo che il messaggio finalmente stia entrando nel mondo del calcio: lo vedo perché tutti quelli che vengono si innamorano del progetto, si interessano, fanno domande e vogliono ripetere l’esperienza. Però siamo ancora molto lontani da una normalizzazione.
Io comunque sono molto contento di quello che faccio. Sono 13 anni ormai, più di 600 lunedìe spero di farne almeno altri 600, perché la verità è che mi rende felice e mi fa sentire realizzato. E bene, dopo il successo di questo libro, che è stato recentemente premiato come ‘miglior libro di Vita e Motivazione‘ dell’anno 2022 in Spagna, ora ho la voglia di scrivere una seconda parte per continuare a dare visibilità a questi ragazzi: certo si parla di ragazzi che hanno commesso un crimine, e mi immedesimo anche nelle vittime, naturalmente. Ma poi che si vuole fare, lasciarli andare o recuperarli?
Anche se brevemente ti abbiamo conosciuto qualche settimana fa: la tua passione è stata coinvolgente e abbiamo capito che non lo fai certo per soldi e visibilità (anzi, immaginiamo quante energie porti via tutto ciò). Ma ti sei posto degli obiettivi, o invece lo fai unicamente per “vocazione”?
Ebbene, lo faccio davvero per vocazione, solo ed esclusivamente per vocazione. Faccio il progetto nel calendario scolastico: comincio a settembre, finisco a giugno e do le vacanze proprio come a scuola, per Natale, per Pasqua. E in estate, quando passano i mesi di luglio e agosto, vado a trovarli o organizzo attività extra perché hanno bisogno di quel contatto. Quindi lo faccio per vocazione, ma spero, spero naturalmente di poter raggiungere degli obiettivi e di avere un aiuto dalle istituzioni, dalle aziende private che vogliono contribuire.
Come riesci a vivere la tua doppia vita calcistica? Ci dirai che il pallone è sempre quello, ma non si tratta di due mondi diversi?
È vero che vivo di calcio, di due calci diversi. Il calcio agonistico la domenica e il mercoledì della Liga e dell’Europa e il calcio sociale il lunedì. E ti posso garantire che il calcio di lunedì mi rende felice come una vittoria di domenicao mercoledì, perché alla fine si paga in un altro modo, più profondo. La verità è che calcio sociale e calcio agonistico hanno un denominatore comune, che è il pallone, ma poi si allineano in tante altre cose, come il cameratismo e il rispetto. Non c’è niente di meglio che vedere lunedì due ragazzi che appartengono a bande rivali e si minacciano di morte per strada, e tu gli fai fare un esercizio di riscaldamento in coppia.
Se uno non tira l’altro non funziona, e alla fine finiscono per fare amicizia. Non lo so, alla fine sono sensazioni che devi provare. Devi vedere come il primo giorno sembrano cercare la provocazione, perché uno appartiene a un ambiente e un altro a quello completamente opposto. Tu li metti insieme e finiscono per fare amicizia e rendersi conto che quello che facevano per strada era totalmente illogico, non aveva alcun senso. Quindi sì, sono due mondi del calcio così diversi ma allo stesso tempo, per certe cose, così uguali. E mi riempiono di felicità al 100%.
Tu che vedi il resto, non il fine ma quel percorso che per Tabarez è l’essenza stessa del calcio e della vita, pensi che il mondo del calcio fornisca dei modelli di educazione? D’altronde ai ragazzi, da sempre, servono modelli
Beh, spesso si tratta di ‘modelli’ che finiscono per generare una frustrazione continua. È importante invece vedere il lavoro, il lavoro che fanno per arrivare dove sono, come mangiano, come si prendono cura di se stessi. Oggi i social network sono un formidabile mezzo di comunicazione ma spesso passa il messaggio sbagliato, e le persone che hanno un impatto pubblico devono avere la responsabilità sociale di inviare un messaggio che sia coerente con il loro ruolo.
Il problema per questi ragazzi è che spesso non hanno modelli educativi: vivono in un vuoto per cui prendono strade sbagliate e commettono crimini, anche importanti. Se si analizzano le storie dei ragazzi, beh, alla fine una madre prostituta, un padre alcolizzato, la violenza in casa; cose che magari, e vi dico davvero, li costringono ad andare al negozio dall’altra parte della strada per rubare una bottiglia di vino quando hanno 5 o 6 anni, in modo che il padre possa ubriacarsi. Famiglie totalmente destrutturate. Madri che hanno avuto tre partner diversi, con il ragazzo ha 10-12 anni che non sa nemmeno chi possa essere il suo modello: non sa chi è suo padre, chi entra, chi esce, non ha riferimenti.
Ti ripeto, sono cose che devi vedere e sentire, è difficile spiegarle. Alla fine, secondo me, se uno ha avuto le migliori condizioni e poi sceglie la via della criminalità, beh è meno comprensibile. Perché poi ci sono le vittime, e spesso per me questo è fonte di dissidio interiore. Ma voglio dirti, quando sei un bambino nato in un posto totalmente sbagliato, in una famiglia devastata e non hai avuto alcuna prospettiva di vita, meriti almeno la possibilità di rettificare e reindirizzare la tua vita in tenera età. Vuol dire lavorare oggi perché non riaccada domani. Finché c’è ancora tempo e speranza.