Cultura
15 Marzo 2022

Benfica, letteratura e nostalgia

Lobo Antunes, l'Aguas della letteratura.

Chissà se quel 31 maggio 1961 al Wankdorf di Berna, mentre passava alla storia come primo giocatore portoghese a sollevare la Coppa dei Campioni con la fascia di capitano al braccio, José Pinto de Carvalho Santos Águas avrà immaginato che di lì a poco sarebbe entrato anche nella letteratura, col sorriso da fotoromanzo degli sportivi di quegli anni, come l’ispiratore del quasi-Nobel António Lobo Antunes. Quel giorno di maggio José Águas aveva segnato anche il momentaneo 1-1 al Barça, dopo il vantaggio di Kocsis: finì 3-2 per il suo Benfica, con Béla Guttmann in panchina, il divin mancino Mário Coluna in mezzo al campo e lui, Águas, come capocannoniere della competizione. Si ripeté l’anno dopo ad Amsterdam contro il Real Madrid: ancora una volta suo il primo gol lusitano, 5-3 il finale, con doppietta di Eusebio.

L’allora trentunenne attaccante benfiquista – 281 presenze e 290 gol o giù di lì con la maglia rossa, cifre pazzesche del genere, cinque campionati vinti, sette titoli di capocannoniere in patria, un figlio che avrebbe giocato gli ultimi spiccoli della carriera nella Reggiana negli anni ’90 (do you remember Rui Águas?) – non ci sarebbe stato invece due anni dopo nella terza finale consecutiva (persa) contro il Milan di Nereo Rocco, lasciato fuori per scelta tecnica da Fernando Riera (e con la leggendaria maledizione di Guttmann evidentemente già in atto).

«E io mi masturbavo nella mia camera sotto la foto a colori della squadra del Benfica nella speranza di diventare un giorno l’Águas della letteratura, quell’Águas che, accoccolato al centro, sfidava l’universo con l’orgoglio marmoreo di un discobolo trionfale».

Le parole sono scritte da Lobo Antunes in un libro che in italiano si intitola In culo al mondo, uscito alla fine degli anni ’70 (in Italia apparso in realtà a metà dei ’90 con la traduzione di Maria José de Lancastre, moglie di Tabucchi) e suo primo successo internazionale, con quella inconfondibile prosa stream of consciousness che richiama Céline o Faulkner o le divine ubriacature di Malcolm Lowry.



Águas d’altra parte era nato in Angola, a Luanda, lungo quella stessa tratta atlantica conosciuta e raccontata mille volte da Lobo Antunes, che come pochi ha saputo descrivere il senso dolente e sospeso della decolonizzazione portoghese e quindi la malinconica incertezza dei retornados, i reduci dai quei tristi tropici. Al quartiere di Benfica – la sua freguesia, São Domingos de Benfica, famosa nel mondo per aver dato il nome a una delle squadre più celebri d’Europa, dalle parti del Giardino Zoologico, quando Benfica era cosa ben diversa da Lisbona, quasi un mondo a parte – invece ha dedicato una trilogia memorabile: Trattato delle passioni dell’anima, La morte di Carlos Gardel e L’ordine naturale delle cose

Per capire cosa sia stato davvero il calcio per il Portogallo e i portoghesi anche in quell’epoca di “Estado Novo”, nel tardo salazarismo e nell’impero minore di Marcelo Caetano – compreso quel biennio assurdo in cui nessuno ebbe il cuore di raccontare a Salazar che lui non era più al potere (se leggete L’ incredibile storia di António Salazar, il dittatore che morì due volte di Marco Ferrari vi chiederete come è stato possibile che sia successa davvero, una commedia del genere, nel cuore nel Novecento, nel cuore dell’Europa. Già, come) – Antunes, psichiatra prestato alla scrittura, comunista eretico e figlio di un campione dell’hockey a rotelle (João Alfredo, a sua volta medico illustre, personaggio lui stesso da romanzo), una volta ha raccontato questa storia sull’esperienza coloniale, da lui vissuta come medico militare, nei primi anni ’70:

«Quando in Portogallo giocava il Benfica noi appendevamo degli altoparlanti, regolati a tutto volume, fuori dagli accampamenti. Era un modo per far sentire la radiocronaca ai guerriglieri del movimento di liberazione, tifosissimi del Benfica, la cui stella era il mozambicano Eusebio. I combattimenti allora s’interrompevano per 90 minuti e dalla selva non si udiva neppure un fruscio. Finita la partita, ricominciavamo a spararci. E l’intensità del fuoco dipendeva dal risultato».



Del Benfica e di quel Benfica, seppure tra le righe (il futebol in fondo è solo un sospiro nell’oceano della sua prosa) non poteva che narrare lui, il cantore delle più grandi contraddizioni della civiltà portoghese (tre capolavori su tutti, a parere di chi scrive: Lo splendore del Portogallo, Esortazione ai coccodrilli, Arcipelago dell’insonnia): una squadra in cui si mescolavano i mozambicani Eusebio e Coluna, l’angolano Santana e i bianchi nati però nelle colonie d’Oltremare Águas e Costa Pereira.

Per far capire quanta nostalgia ci sia nella sua visione del calcio, così lontana come l’eco perduta che attraversa i suoi romanzi, in un’altra intervista ha confessato che al suo compatriota CR7 lui preferisce un’altra ala: Mariolino Corso. E che in fondo con Cristiano – cresciuto, viceversa, dal lato dei Leoni eredi di Alvalade – non se la dica molto (come pure con gli altri mostri sacri lusitani: Pessoa e il fado) valga anche quello che ha scritto in un’altra occasione:

«Nella vita ci sono tre o quattro cose importanti: i libri, gli amici, le donne e Messi».

António Lobo Antunes

Del calcio moderno, d’altra parte, Lobo Antunes ha perso oggi ogni considerazione e non segue più nemmeno le partite del suo Benfica (per quanto viva ancora nel quartiere della sua infanzia) per un motivo semplice, come ha spiegato in varie interviste: il suo era un calcio diverso. Un calcio in cui «era impensabile che Águas o Coluna giocassero per un’altra squadra o che Travassos (bandiera dello Sporting) giocasse per il Benfica». O più semplicemente ancora ha scritto nelle sue Crónicas:

«Il calcio ha smesso di piacermi perché non ci sono giocatori che mi rendono felice. Ora, come dicono gli allenatori, è tutta una questione di professionalità, lavoro e pazienza: sono finiti l’improvvisazione, la fantasia, l’imprevisto, è finita la mia squadra, Costa Pereira, Mário João, Germano, Ângelo, Cavém, Cruz, José Augusto, Eusébio, Águas, Coluna e Simões, per i quali il gioco non era lavoro né pazienza, era allegria e anima, era il Benfica».

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