La débâcle azzurra è davvero lo specchio del Paese dal quale è stata generata? Dove ricercare le cause? E come ripartire? Lo abbiamo chiesto ad alcuni tra i migliori scrittori, giornalisti, blogger e sociologi di casa nostra.
Non accadeva dal 1958. Sessant’anni fa, al Windsor Park di Belfast,l’Italia guidata da Alfredo Foni, precursore del difensivismo in salsa breriana, e di Ghigghia, Da Costa, Pivatelli, Montuori e Schiaffino in scarpini neri e calzettoni bassi, sul cui conto piovvero come dardi avvelenati accuse di doping mai provate, mancava clamorosamente l’accesso ai Mondiali di calcio. Bastava un pareggio, contro l’Irlanda del Nord. Per la prima volta e sul campo: esclusi. (Nel 1930, la Fifa ci invitò in Uruguay, per una sorta di edizione-a-chiamata, in un contesto semi-professionistico, ma noi rispondemmo picche, considerate le fatiche che un viaggio transoceanico in nave comportava).
Non accadeva dalla notte dei tempi. È successo di nuovo. Dopo mezzo secolo e passa, l’Italia delle quattro stelle dorate appuntate sul petto, di Tavecchio e Ventura, e soprattutto dell’intero sottobosco che sponsorizza e gestisce il calcio italiano, è riuscita nell’impresa delle imprese – impreziosita dalla formula a 32 squadre più spareggio tra le prime tre di ogni girone: un po’ come il sei politico e gli esami di gruppo nel ‘68 – di fallire l’appuntamento con Russia 2018.
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Apocalisse. Terremoto. Tragedia. I titoli che racchiudono le sentenze formulate dalle redazioni dei giornali, nazionali e locali, sono unicamente di questo tenore. Giornalisti e opinionisti, avventori di bar, statali parastatali e privati, di qualsiasi estrazione sociale, credo politico e religioso, sociologi e governanti, da Nord a Sud, interpellati sul tema unificatore per antonomasia, la Nazionale, hanno innalzato una voce sola e un unico coro. All’unisono ne hanno certificato il dramma: è una tragedia. Può cambiare la sfumatura del sinonimo, può variare il contorno, ma la sostanza non cambia: una tragedia sportiva fatta e finita. Un terremoto. L’Apocalisse. Forse incredulità, se è vero che le parole sono ancora importanti («Temo lo stravolgimento della parola», preconizzò tempo fa Guido Ceronetti), li terrebbe insieme, tutti questi sinonimi. La stessa incredulità, frammista in taluni casi a scherno e derisione, dimostrata dalla stampa estera, dalle prime pagine del New York Times al Sun, dai cugini dell’Equipe alla fredda Bild.
Ribadiamo a favore di memoria: non accadeva dal 15 gennaio 1958. Era, quello, un periodo storico di grandi fermenti, di profondi cambiamenti. Di trasformazioni. Di evoluzioni. Cambiamenti, trasformazioni, evoluzioni che apparivano a portata di mano. Al di là del senno di poi, dei rimorsi, del sarebbe potuto essere ma non è stato. Gli italiani uscivano dal secondo dopoguerra, vinti e vincitori, e si catapultavano nel boom economico, piano Marshall anticamera della globalizzazione, entrando dalla porta principale, quasi fosse un obbligo, quasi fosse un diritto acquisito, certi che il passato è passato, il presente pure e il futuro non può che puntare al benessere infinito. Fu, il 1958, l’anno della definitiva chiusura delle case di tolleranza. La cosiddetta legge Merlin, in realtà, inverò un celebre aforisma malapartiano: la legge in Italia è come l’onore delle puttane.
Nel 1958 fu pubblicato, postumo, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Da qui la coniazione del lemma gattopardismo, che inizierà a prendere posto e corpo nella terminologia degli -ismi, dando di gomito nei discorsi popolari e nelle pance della classe dirigente del Paese. Fu, infatti, l’anno della vittoria alle elezioni dello scudo crociato: ci si turava il naso per esorcizzare i miasmi che esalavano fin dalle cabine elettorali e – abyssus abyssum invocat – si affidavano i primi televisori in bianco e nero, il divano in pelle e le chiavi della Bianchina, pagati in venti comode rate a tasso zero, alla causa della Democrazia Cristiana: il primo giorno di luglio del 1958, Amintore Fanfani avrebbe battezzato il suo secondo governo e rispettato alla lettera i dettami del futuro manuale Cencelli. È il principio dell’eterno ritorno dell’uguale, direbbe quel genio incompreso di Nietzsche. E puntualmente, non subito ma a distanza di tempo, come ebbe modo di sperimentare a sue spese, gli avremmo dato ragione.
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Il 1958 è il gemello del 2017. Magari potrebbe esserlo anche del 2037, o del 2047. Chissà. I presupposti non mancano e sono facilmente elencabili. Vi insiste un legame di corrispondenza: politico, sociologico e, mutatis mutandis, calcistico. D’altronde la storia, si sa, è fatta di cicli: si ripete e si rinnova negli errori. Non si ferma mai, non ha un punto d’arrivo, finale, con buona pace di Francis Fukuyama e dei suoi epigoni. Paragonare quindi quell’anno, il 1958, all’oggi, il 2017, viene facile e immediato. Oggi il gattopardismo, specie negli ambienti che contano, si è imposto come regola di vita, e ha scalato le classifiche del citazionismo, usato e abusato, svilito di significato, per sottolineare che in questa nazione, e per questo popolo di santi, di poeti, di navigatori, di nipoti, di cognati e – parafrasando Ennio Flaiano – di commissari tecnici, tutto deve cambiare affinché nulla cambi davvero.
Oggi la Balena bianca, data per spiaggiata e per morta, vegeta e lotta insieme a noi: le ideologie sono state sepolte, già, ma i partiti, nonostante il loro ruolo guida si sia ridimensionato, se non proprio azzerato – poiché assoggettati ai desiderata del capitalismo finanziario e incapaci di prescrivere ricette a problemi globali con ricadute locali – si preoccupano tutt’al più, spinti da un’innata tendenza all’istinto di conservazione, a rifarsi il trucco e il parrucco, a riciclarsi, a sopravvivere. Oggi i dati su nevrosi, suicidi e mali collaterali attestano che l’anelito alla crescita economica, al maledetto punto percentuale in più del Pil, ha definitivamente calpestato le reali esigenze dell’individuo, mutatosi intanto in un apolide in mezzo ad altri atomi, all’interno della propria comunità d’appartenenza.
Eppure consumare e produrre, proprio come nel ‘58, restano scolpite come parole d’ordine, totem assoluti, inscalfibili, inviolabili. Mentre sono tramontati, al confronto con quegli anni, valori quali la dignità, il rispetto, il mutuo soccorso, la stretta di mano. Sia come sia, tutto ritorna, ciclicamente. Ineluttabile. Oggi, alla stregua di sessant’anni fa, la Nazionale si arrende al cospetto di una Svezia ordinaria e dozzinale, implodendo e fallendo lo spareggio che gli avrebbe garantito quantomeno uno strapuntino russo, con la conseguente colata di moneta sonante, un palliativo al sapore d’elisir. Invece l’Italia del calcio (e non solo) è costretta a leccarsi le ferite. Tra retorica e pentitismo di facciata, le nostre stigmate di popolo che mai lo è stato fino in fondo. Dobbiamo ripartire, è la frase più gettonata. Rifondare. Ricominciare da zero. Fare un profondo repulisti.
Ricominciare? Siamo seri, con queste premesse è pura utopia. Davanti ai nostri occhi si è palesata la crisi innegabile di un sistema, di un movimento scalcagnato e ributtante nel suo complesso, dove il commissario tecnico e i Tavecchio di turno, ammettiamolo, non sono altro che la punta dell’iceberg. Sia chiaro: non che fallire, attraversare un momento di crisi, equivalga a un’onta incancellabile. Nient’affatto. Per dirla con Hemingway, siamo tutti apprendisti in un mestiere dove non si diventa mai maestri: la vita. A patto però che non ci si crogioli nell’errore sistematico. Prendiamo la Spagna. Gli iberici non vincevano da una vita, ecco, chiamano a sé Luis Aragonés, tecnico capace e dalle spalle larghe, e aprono un ciclo lungo e proficuo, dominato a suon di tiki-taka.
Prendiamo la Germania. Arriva terza al Mondiale organizzato in casa, no?, e loro subito si rimboccano le maniche, inaugurano un centinaio di nuovi centri regionali per ragazzini sul modello di quelli che spopolano in Francia (costo dell’operazione, 90 milioni di euro all’anno), e si riprendono il tetto del mondo. Prendiamo l’Italia. In undici anni, da Berlino in poi, è cambiato tutto. Tutto uguale a niente. La promessa da marinai della riforma dei campionati. Le Leghe regalate a Infront, advisor investito di pieni poteri dai referenti dei clubs e dai partiti lottizzanti. La palla rimbalza dalla metà campo dei diritti tv a quella delle sovvenzioni statali indirizzo Coni: tutto il resto è noia, cioè un gigantesco glomerulo di conflitti d’interesse.
Quattro commissari tecnici (Roberto Donadoni, Cesare Prandelli, Antonio Conte e Giampiero Ventura) estratti dal cilindro senza un perché, senza uno straccio di progetto: quindi tutti e quattro passeggeri, scartati logorati e buttati via. Si naviga a vista.
In questa situazione kafkiana, Tavecchio, parafulmine e gaffeur, bissa finanche l’elezione del 2014 (con il 63,63% dei voti, su Demetrio Albertini). Stavolta raccoglie qualcosa in meno, il 54 per cento dei consensi (meglio del concorrente Andrea Abodi), sì, ma ottiene il pieno riconoscimento della minoranza, la parte riottosa capeggiata da Andrea Agnelli. «La Serie A è malata, l’elezione di Tavecchio è una sconfitta», fu la dichiarazione a caldo, al primo giro di giostra, del figlio di Umberto Agnelli. Do ut des: pace fatta e trattativa conclusa. E così, aspettandosi risultati diversi facendo gli stessi errori, il calcio italiano si è presentato a San Siro, desnudo, tremebondo e con le armi spuntate, per ballare il suo tango. L’ultimo. Prima di riprendere a scavare, a scavare, a scavare. Come se Nietzsche non ci avesse insegnato nulla, come se perseverare fosse umano. Se scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te.
Noi di Contrasti abbiamo voluto sondare le opinioni sul tonfo degli Azzurri di alcune penne di casa nostra, scrittori, giornalisti, blogger, sociologi. Gli abbiamo sottoposto tre domande, strettamente correlate tra loro. Prima: la débâcle azzurra è davvero lo specchio del Paese dal quale è stata generata? Seconda: dove ricercare le cause? E poi: come ripartire, fare tabula rasa o mediare?
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Massimo Fini – alle spalle nientemeno che cinquant’anni di giornalismo, inanellati consumando le suole delle scarpe. Polemista e battitore libero, ha collaborato con quasi 100 testate. Scrive per il Fatto Quotidiano.
La disfatta della Nazionale non dovrebbe essere presa come una tragedia. È rimasta fuori l’Olanda che ha espresso, insieme alla grande Ungheria di Puskás, il miglior calcio del dopoguerra e non mi pare che in quel Paese ne abbiano fatto una tragedia. Ciò che invece esprime l’Italia al suo peggio sono i fischi degli 80mila di San Siro all’inno nazionale svedese. Se si vuole, c’è in questo l’Italia di oggi, dove la prima, urgente, riforma dovrebbe essere quella della buona educazione. Riforme? Come può la Nazionale mettere in campo una formazione decente se le squadre di A e di B sono piene di giocatori stranieri, spesso brocchi, che sbarrano il passo a quelli italiani? Poi sul calcio in generale si può dire che l’economico ha distrutto tutti i suoi contenuti identitari, sentimentali, simbolici, mitici. Nel 1982, quando fu introdotto il «terzo straniero», scrissi per Il Giorno un articolo in cui dicevo che il calcio sarebbe andato a morire. Per overdose. E così, prima o poi, finirà.
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Roberto Beccantini – il giornalista-tifoso più imparziale che conosciamo. Una vita trascorsa tra Tuttosport, La Gazzetta dello Sport, La Stampa, Guerin Sportivo (ancora oggi tiene una rubrica fissa). Ex giurato del Pallone d’Oro, collabora attualmente con il Fatto Quotidiano, Eurosport e La Gazzetta dello Sport.
La débâcle azzurra non è uno specchio. Il Paese raramente arriva ai playoff. Viene eliminato prima. Quanto alle cause di tale disfatta, sono da ricercare in una classe di dirigenti senza classe, anche se in campo non vanno loro, in un buco generazionale tra i giocatori, nell’importanza eccessiva riservata agli allenatori che sono importanti, sì, ma neppure loro maghi Merlino. Quindi: tabula rasa o mediazione? È la stessa domanda che ci ponemmo dopo il 2010 e, non sazi, dopo il 2014. Punto e a capo: nella speranza di trovare, finalmente, dei capi al vertice e in campo.
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Renato La Monica– blogger e scrittore, con due punti di riferimento: Enzo Biagi e Indro Montanelli. Ha pubblicato ben 15 libri sul tema calcio e dintorni. World Cup Story (Curcio, 2014), il suo epitome della competizione iridata.
Questo Paese è amministrato male da almeno quaranta anni, eppure in questo lasso di tempo la Nazionale ha trovato il modo di vincere due Mondiali. Diciamo comunque che in uno Stato dove l’ingiustizia è stata ormai «legalizzata» diventa più difficile ottenere risultati. Le cause sono molteplici: incompetenza di chi gestisce il carrozzone, mentalità retrograda, mancata programmazione. E poi ci sono gli interessi economici dei clubs, che prevalgono su quelli della Nazionale. Dare la colpa ai tanti stranieri presenti nel nostro campionato è un alibi di comodo: riguardo ai calciatori di altre nazionalità, abbiamo la stessa percentuale di Spagna e Germania. Nonostante ciò, tedeschi e iberici continuano a essere competitivi. Non credo ci sia la volontà politica di rivoluzionare un movimento fondato sull’omertà e la conservazione. Una sorta di circolo chiuso, regolato dalle connivenze e dal nepotismo. Credo che si continuerà a vivere alla giornata, più o meno con le stesse facce. Sperando nel solito miracolo italiano. Ovviamente, questo comporterà un ulteriore decadimento del nostro calcio che, a mio avviso, non ha ancora toccato il fondo.
Darwin Pastorin – a 11 anni fallì un provino alla Juventus. È stato inviato speciale e direttore di varie testate sportive televisive e della carta stampata: Tele+, Stream TV, il manifesto, Sky Sport, l’Unità, La Stampa, Il Gazzettino di Venezia. Cura un blog su L’Huffington Post. È in libreria con Lettere a un giovane calciatore (Chiarelettere).
Io parto sempre da una frase pronunciata da Jean-Paul Sartre: il calcio è una metafora della vita. No: il calcio non è solo una metafora della vita. Il calcio è anche una metafora della società. Ecco, questa sconfitta, inaspettata ma prevedibile per come è andata maturando, il mancato accesso degli Azzurri ai Mondiali in Russia, su cui dibatteremo ancora per tanto, rientra in questo momento confuso e balbettante che il nostro Paese sta vivendo. Che formazione mandare in campo? E con che modulo? Per chi votare? Quale sarà il futuro dei nostri figli? Quando si andrà in pensione? Interrogativi che raccontano di cosa è diventata l’Italia, e che si riflettono anche nel calcio. Con un allenatore – traslando il discorso alla Nazionale – che non sapeva che squadra mandare in campo. Coi giocatori che hanno dimostrato a più riprese di non nutrire tanta fiducia nell’allenatore. Con un presidente federale che non ha ritenuto di dover fare quel gesto nobile di rassegnare le dimissioni: non solo per le gaffes commesse in passato, ma neppure a disastro sul campo compiuto.
Del resto, lo sappiamo, l’Italia è questa. Siamo una nazione in cui nessuno si assume le proprie responsabilità, dove se uno sbaglia non pensa ad ammettere l’errore, anzi è pronto a scaricare le colpe sugli altri. Torno un attimo su Ventura: mentre in passato perlomeno c’era stato qualcuno che, al suo posto e nella sua stessa condizione, si era fatto da parte, lui non si è scomposto più di tanto, è rimasto quasi impassibile. Ventura non si è dimesso, è stato licenziato: e la differenza non è da poco. Nel ricercare le cause del tracollo ci si sofferma sulla presenza degli stranieri nel nostro calcio. Lo trovo fuori luogo. Ci siamo dimenticati quando vincevamo potendo contare sugli oriundi? Non è questa la causa del problema. Piuttosto, bisogna cercare di cambiare questo calcio marcio dalla radice.
Bisogna riportarlo alla sua condizione iniziale, a essere quello che era: uno sport. Bisogna inculcare nei ragazzi, a scuola come in famiglia, un’idea di calcio che si sposi col merito, dove quello bravo, a lungo andare, viene fuori, come succede per il bravo conduttore, il bravo giornalista, il bravo scrittore, il bravo elettricista: i genitori non devono subito pensare a tirar su i loro figli come se fossero i nuovi Neymar, i nuovi Messi. E poi bisogna cercare di riportare al centro del giornalismo, nel calcio, nello sport e più in generale, la forza del racconto, il potere delle inchieste, la capacità di fare domande scomode. Mentre, oggi più che mai, a dominare è il calciomercato, la figura del giornalista nella veste di passacarte. In definitiva, sì, va fatta tabula rasa. Senza retorica, però. Il calcio come rito laico, nazionalpopolare: ritornare a quella sfera lì e da lì ripartire.
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Pippo Russo– sociologo, giornalista e scrittore. Pallonate, sua rubrica su carpiati e contorsioni semantiche del giornalismo italiano, è approdata sulle nostre pagine. Suoi i romanzi Il mio nome è Nedo Ludi (Clichy, 2006) e il sequel Nedo Ludi. Il ritorno (Clichy, 2017).
È più che uno specchio, la débâcle della Nazionale. Da noi, il calcio è stato narrato come un movimento in salute anche quando il Paese attraversava momenti di crisi. In questo senso si può dire che fosse uno specchio deformante della nazione. Adesso quell’illusione è finita, e ciò testimonia quanto profonda sia la crisi del Paese. Le cause della disfatta dell’Italia vanno ricercate, essenzialmente, nell’incapacità di fare sistema mostrata dal calcio italiano. Che infatti è scollato a tutti i livelli. Due leghe commissariate, una (la Lega Pro) che lo è stata, e un’altra (la ex Lega Dilettanti) che ha dovuto cambiare presidente a causa di uno scivolone sessista. Ciascun soggetto del calcio italiano ha mirato a massimizzare il proprio interesse, e ora ci si ritrova a scontare la fragilizzazione del sistema. Di spazi per la mediazione non ne vedo. Anche perché a condurla sarebbe la classe dirigente che ha fallito, e medierebbe in favore di se stessa. Servirebbe un passaggio traumatico, che permetta di riformare il calcio con procedure straordinarie, ridisegnandolo dalle fondamenta. Due parole su Ventura e Tavecchio: i loro comportamenti all’indomani della disfatta sono stati indecorosi, messi in atto da persone di bassissimo spessore. Ma da due così non mi sarei aspettato nulla di diverso.
Marco Bellinazzo – scrive per Il Sole 24 Ore di economia sportiva e, in particolare, dei business che ruotano intorno al mondo del calcio. Ne scrive quotidianamente sul suo blog Calcio&business e ne discute settimanalmente su Radio24. Nel 2015 ha pubblicato Goal economy (Baldini & Castoldi). A maggio di quest’anno, I veri padroni del calcio (Feltrinelli).
Il calcio non è solo e semplicemente uno sport. È ormai una piattaforma economico-industriale capace di fotografare lo stato dell’arte di un Paese. Quindi è possibile tracciare un parallelismo tra le due realtà, quella del calcio e quella dell’Italia come nazione. Credo non fosse un’eresia attendersi la nostra qualificazione, ma che ci sia una situazione di crisi conclamata del calcio italiano è abbastanza evidente. E lo è da tempo. Pensiamo un attimo al rendimento della Nazionale dal 2010 in poi: i due Europei del 2012 e del 2016 ci avevano illuso di avere una squadra competitiva. I problemi erano, e sono, ben più radicati di quanto quelle due esperienze fossero riuscite a celare. La nostra Serie A è diventata la quarta lega europea e la Nazionale non riesce più a vincere né a livello d’élite né giovanile. Ciò vuol dire che a mancare è la base del movimento. Sul perché manchi la base e su come ricostruirla ci si dovrebbe seriamente interrogare.
Insomma, ripartire da zero non fa parte della natura delle cose, ma è chiaro che occorrono delle revisioni profonde, che interessino vari ambiti. Quello che non percepisco nelle parole di chi governa le diverse componenti del nostro calcio è proprio la consapevolezza della necessità di un intervento globale: normativo, infrastrutturale, giuridico, finanziario e, oserei dire, persino culturale. Tutti interventi che sono già stati fatti in quei Paesi in cui si è vissuta una crisi calcistica analoga a quella che stiamo vivendo noi. La Francia, la Germania, il Belgio, la Spagna, attraverso delle riforme ad ampio raggio, totalizzanti, ripartendo dalle fondamenta, sono riusciti a ricostruire un intero movimento. Le ricette sono chiare, e non da oggi. Se non si applicano, è a causa di veti incrociati, di interessi di parte, perché nessuno pare voler rinunciare a una porzione dei propri interessi per uno più grande e comune. E così tutto rimarrà uguale: toccare un elemento del sistema senza correggere tutto il resto non porta a niente.
Tavecchio ha le sue colpe, chiaro, ma non tutte. Si può tranquillamente ammettere che le riforme ventilate nel suo primo programma sono del tutto sparite nel secondo, e questo perché mancava una volontà generale e politica, e non solo di Tavecchio, di condurle in porto. Così facendo, perdiamo tempo e ulteriore terreno. Ora, se il presidente federale ha fatto delle scelte, condivise o meno dalle altre componenti, e messo a capo della Nazionale un c.t. che si è dimostrato inadeguato, non intervenendo neppure quando si sono evidenziati problemi tra lui e la squadra, dovrebbe trarre le conclusioni e farsi da parte. Il problema, però, è chi si siederebbe al suo posto. Questo è il momento in cui tutte le componenti del sistema, dalla politica alle Leghe, alla Federazione, dovrebbero essere unite nell’individuare almeno cinque aree d’intervento, prendendo spunto dalle migliori esperienze internazionali e adattandole al nostro contesto. Alcuni esempi? Dai centri federali d’eccellenza alle squadre B in stile spagnolo, allo ius soli sportivo.
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Andrea de Benedetti – scrittore, giornalista, linguista e barcellonista. Scrive o ha scritto di sport, società e cultura su D La Repubblica, GQ, Tuttosport, il manifesto. Una delle sue fatiche letterarie s’intitola La situazione è grammatica (Einaudi, 2015).
No, il tracollo della Nazionale non è lo specchio dell’Italia. Non siamo un Paese peggiore di dieci anni fa, quando il Mondiale lo abbiamo vinto, né del 1994, quando arrivammo secondi in piena esplosione del berlusconismo e riemersione «dalle fogne» (Gianfranco Fini dixit) dei post-fascisti, mentre eravamo, probabilmente, un Paese migliore – almeno entro certi limiti – nel 1958, quando siamo rimasti fuori dai Mondiali l’ultima volta. Se le cose fossero così semplici, dovrebbe vincere sempre, in tutti gli sport, il Canada o una nazione scandinava, ma ovviamente non è così. Tra le cause della Caporetto di Ventura & Co., escluderei l’invasione degli stranieri.
Anzi, se applicassimo lo ius soli avremmo buone speranze, nel giro di un paio di generazioni, di raccogliere i frutti dell’ibridazione etnica. Tra le tante diagnosi che ho letto in giro, quella più convincente mi è sembrata una (non ricordo di chi) in cui si sottolineava la scarsissima preparazione degli istruttori delle scuole calcio. È un ambiente che un po’ conosco e posso confermare che è vero. Certo, la tentazione di azzerare tutto è forte, ma non sono sicuro che la rottamazione sia la soluzione. Al PD l’hanno fatta ed è venuto fuori che i quarantenni sono forse peggio della generazione precedente. E comunque, nel caso, Tavecchio andava rottamato assai prima. Tra tutte le responsabilità che gli si potevano addebitare, quelle dei risultati sportivi sono, dal mio punto di vista, le meno gravi.
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Jvan Sica – è uno «scrittore con il desiderio di portare la letteratura sportiva sugli scaffali migliori delle librerie». Autore e co-autore di alcune pièce teatrali di Federico Buffa. Da anni tiene il blog Letteratura sportiva. Ha scritto Italia,1982.
Non ne farei una sovrapposizione di spirito, quanto una semplice ma fondamentale questione di investimenti. Non siamo in picchiata solo nel calcio, ma in tutti gli sport di squadra dove una volta eccellevamo: non abbiamo più un rappresentante valido nell’atletica leggera, non abbiamo più un boxeur di alto livello. Malagò si è genialmente slacciato dal tracollo, ma è bene che non si senta completamente escluso da tutto quello che succede nel calcio e non solo. Non ci sono più soldi pubblici per sostenere insieme base ed eccellenze, questo porta a peggiori risultati, che a loro volta portano ad allontanamenti anche di investimenti privati. La spirale è pessima. Lo sport è in questa spirale come anche le biblioteche, i cinema, la manutenzione ordinaria dei piccoli e medi comuni, e tanto altro. In questo senso lo sport è lo specchio del Paese attuale.
Per ripartire, fra tabula rasa e rimediare, io direi che occorra ottimizzare. Ecco un piccolo-grande esempio: hai Conte e con lui riesci a sfiorare le semifinali europee facendo giocare Giaccherini, Sturaro e Parolo regista. Prende quattro milioni, ne vuole di più per restare. Sull’onda dell’opinione pubblica che spara cagate in Parlamento e sui social lo fai andare al Chelsea. Prendi Ventura perché è uno dei pochi che è senza squadra e viene da te per meno della metà di quello che vuole Conte. Conte ha vinto un campionato col Chelsea, Ventura non ci ha fatto andare ai Mondiali dopo 60 anni. Per risparmiare quei 4, 5, ma anche 6 milioni di euro all’anno, quanto hai perso? Pessimo esempio di ottimizzazione delle risorse. La vicenda Conte-Ventura spiega anche un altro problema gigantesco dell’Italia, esteso ovunque: non voler pagare le competenze secondo il loro valore.
Christian Giordano – mente, penna e voce di Sky Sport, ha scritto, tra i tanti, Maestri di calcio. I grandi allenatori stranieri (Rainbow Sports Books, 2016).
La Nazionale come immagine della nazione? Sì e no. Sì, perché il calcio abita lo stesso Paese che ogni giorno fingiamo di rigettare come se non fosse il nostro, non fossimo noi a farlo. Allo stesso tempo è no, perché che c’azzecca l’eliminazione della Nazionale di calcio con la malasanità, la malagiustizia, la corruzione, il «furbismo» eletto a ideologia fondante, il parassitismo, la mancanza di rispetto per le regole, una stampa e, più in generale, i media clowneschi prima ancora che imbavagliati, eccetera? Però un po’ – almeno un po’ – c’azzecca eccome, e il terreno comune è quello inaridito con mefistofeliche incompetenza, malafede, incapacità o mancata volontà di preparare le persone «giuste» per i posti giusti, e non gente arrivata lì a decidere (nella migliore delle ipotesi) senza un perché. E soprattutto un per come. Generalizzo, ovvio: ma chi di noi si sognerebbe mai di farsi operare da un chirurgo impreparato, non aggiornato, troppo vecchio o semplicemente inadeguato? Ebbene, nel calcio è spesso la norma.
Essere stati giocatori non ti fa diventare per magia allenatore, voce tecnica o team manager. A qualcuno questi discorsi interessano? A me non sembra. La prova? Italianamente, tutti si lamentano, pochissimi osano fare qualcosa per cambiare le cose; e di quei pochissimi, troppi, fiutata l’aria, ci provano, sì, ma all’estero. Come dargli torto? Last but not least: staremmo qui a fare questi discorsi per un 2-0 strappato con un tuffetto del Grosso australiano di turno, una carambola fortunosa come quella dell’autogol di De Rossi a Solna, un gollettino irregolare per un offside non rilevato? Non credo. Perlomeno, non in questi termini. Dove ricercare le cause della disfatta? Forse nella nostra cultura, ma il discorso si allargherebbe ad ambiti filosofici. Se parliamo di calcio, già dal primo Lippi: abbiamo vinto a Germania 2006, evviva.
Ma come? Da lì in poi cosa abbiamo costruito? Donadoni, che come c.t. era di sicuro non ancora pronto (tantomeno per aprire un ciclo) e come allenatore potrà piacere o no, ma era ed è una persona seria: gli è stato forse consentito di lavorare? Deriso e vilipeso quando non osteggiato da certa stampa tanto cara al predecessore che in privato dispensava dritte sulla formazione, il buon Roberto pensava che per fare un buon c.t. bastassero qualità e lavoro. Si sbagliava. Alla fine gli han fatto le scarpe, e dal Lippi-bis è partito il disastro sportivo di Sudafrica 2010. Altra ricostruzione con Prandelli, che come c.t. ha avuto la malsana idea di lasciare qualcosa anche come persona con il rivoluzionario «codice etico» (anche se qua e là applicato ad personam) e sul campo ha fatto tutto bene fino alla partita con l’Armenia. Di lì in poi non ci ha capito più nulla. Come Ventura con la Spagna, che ci ha massacrati più all’andata che al ritorno restando fedele a se stessa, al proprio calcio, alla propria cultura, ai propri talenti.
C’è qualcuno che ha fatto dei discorsi tecnici su questo? Ma prima dell’Apocalisse? Certo, se poi Insigne è ritenuto il miglior talento italiano e con la Svezia la sua iniziativa più pericolosa è quel tiro che a momenti finisce in fallo laterale, allora vabbè. Dagli addosso a Ventura che l’ha fatto giocare troppo poco e fuori ruolo. Dei giocatori sopravvalutati o mal valutati, invece, quando parliamo? E degli pseudogiornalisti che per mestiere dovrebbero fare critica e non (solo) tifo? Perché Simone Inzaghi fa giocare Ciro Immobile titolare fisso in campionato e lo fa riposare in Europa League? Perché Di Natale faceva magie all’Udinese ma in azzurro scompariva? Si chiama personalità. Non si misura, e o ce l’hai o non ce l’hai. Non va bene neanche se ne hai troppa, perché poi sfocia nel mancato rispetto di regole e ruoli: il veterano che platealmente rifiuta di scaldarsi è il titolo di coda di una non-gestione, peraltro già delegittimata dalla riunione fra senatori con Ventura fuori della porta.
Lo stesso Ventura che sul piano della comunicazione sembrava un ragazzino dell’asilo iscritto al master post-laurea, ma a 68 anni: Berardi inadatto al modulo, Balotelli ricusato prima ancora di conoscerlo (mentre il cosiddetto gruppo è fatto di santi), Jorginho e il ruolo che nel calcio di Ventura non c’è, salvo poi trovarglielo per affidargli (chiavi in mano) la squadra nella partita della vita, Gabbiadini titolare, Belotti e Immobile in campo rotti, Florenzi mezzala a sinistra, Spinazzola chiamato per la Spagna il 2 settembre senza aver giocato in campionato. Una serie infinita di autogol che un team manager e un addetto della comunicazione anche stagisti gli avrebbero evitato. Tutto questo è colpa del solo Ventura e del suo patetico attaccarsi alla clausola per non perdere la pensione. Se ci credete, accomodatevi. Come ha detto Zeman: Tavecchio e Ventura non sono scesi in campo. Vero, ma in campo ce li hanno messi loro. Allora ha ragione Trinchieri, non a caso un cervello – di basket – in fuga: in Grecia, a Kazan, a Bamberg.
Ormai abbiamo perso. È un disastro sportivo – sportivo! – adesso uniamoci e ripartiamo. Né facendo tabula rasa né mediando. Perché sono non praticabili, e del tutto anacronistici. Fare tabula rasa, con quella rete e radicata, secolare profondità di ammanicamenti, è impresa che va oltre l’impossibile: nemmeno è concepibile. Mediare, oggi, anche in questa Italia, è un concetto neanche più presentabile. Io voglio – no: pretendo – un presidente federale incensurato, un c.t. che non abbia un figlio procuratore; un c.t. che mai abbia dovuto anche solo patteggiare e che consideri la Nazionale il massimo traguardo della carriera; un c.t. non messo lì a fare il lavoro sporco di ricostruire e poi abbandonato a se stesso perché è vecchio e costa poco ma sa lanciare i giovani e pazienza se mai avrà esperienza internazionale; un team manager mai implicato in questioni di passaporti irregolari. E potrei continuare.
Se invece vogliamo ancora abbeverarci al falso mito di «Vincere è l’unica cosa che conta», senza curarci troppo del come, queste – anche queste – sono le conseguenze. Per ripartire: vanno bene tutte le ovvietà (vivai e tutto il resto), ma non assurdità tipo: facciamo giocare tutte le Nazionali con lo stesso sistema di gioco. Le Nazionali sono per definizione squadre da modellare sui selezionati, ed è compito del c.t. scegliere i migliori giocatori di un Paese per ritagliare su di essi il miglior abito tattico collettivo. Anche qui, torniamo alla competenza, alla preparazione, alla programmazione. Se interessano: federazione commissionata, elezione senza i soliti noti, pannello tecnico di gente pulita e competente, e pazienza se per cause generazionali inesperta.
Sbaglierà ma si farà, e potremo non ripartire ma cominciare sul serio. Come hanno fatto in Germania dopo Euro 2004. (A proposito, sul tema è uscito un libro che approfondisce i segreti della rinascita tedesca: Reboot, qualcuno in federazione lo avrà mai nemmeno sfogliato?). Integrazione, scuole dello sport, scouting. Altro che troppi stranieri e frontiere chiuse. Il mondo è cambiato, bellezza. Solo gli «Opti Pobà» non se ne sono accorti, o fingono di. Grazie, ma basta. Un’avvertenza: serve gente intelligente e moderna (come Bierhoff e Klinsmann, non un grande c.t., ma un innovatore che come tattico s’era scelto una spalla niente male: Joachim Loew), ma soprattutto servono investimenti. Non i 4 milioni dello sponsor tecnico per un conducator, ma per investire. A fondo, per non restarci.
Scrivere per l'utopia e per la memoria. Per gli eroi e i perdenti vestiti di sogno. Attraverso la tecnologia e grazie alla storia, lungo quell'ombra tra romanzo e realtà che noi chiamiamo Calcio.
Firma nobile del giornalismo italiano (e non solo sportivo), Roberto Beccantini è il giornalista-tifoso più imparziale che conosciamo. Tifoso dai tempi di Sivori, per via dei calzettoni abbassati e del genio fumantino; imparziale, perché – sue parole – sincero col lettore.
Un album dei ricordi, tra le parole di Darwin Pastorin e le illustrazioni di Andrea Bozzo, che recupera il lettore a una dimensione pallonara sconosciuta al mondo di oggi.
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