«Gli arabi erano figli incorreggibili dell’idea, incoscienti e daltonici, convinti che il corpo e lo spirito fossero per sempre e inevitabilmente in opposizione. La loro mente era strana e oscura, piena di depressioni ed esaltazioni, mancante di regole, ma con più ardore e più fertile di fede di ogni altra al mondo. Erano un popolo fatto di imperi per cui l’astratto era la più forte delle ragioni, il processo di infinito coraggio e distinzione, mentre lo scopo finale non significava niente. Erano instabili come l’acqua, e come l’acqua forse alla fine avrebbero prevalso».
Così il tenente colonnello Thomas Edward Lawrence, meglio noto come Lawrence d’Arabia, descriveva gli indigeni della penisola arabica nel monumentale ‘I sette pilastri della saggezza’. Tra loro si è recentemente fatta strada una nuova idea, una visione che passa anche per lo sport. E a giudicare dalla descrizione di un loro conoscitore come il militare inglese, la fede e l’ardore che impiegano nel perseguire le loro astrazioni di per sé bastano a renderli degni della massima attenzione.
Il rapporto tra sauditi e sport finora non è stato esaltante. Le medaglie olimpiche sono apparse nelle bacheche arabe soltanto a Sydney 2000, in gare di atletica e equitazione. Fino a Londra 2012 il nulla, in terra inglese altra medaglia nell’equitazione a squadre. A Tokyo argento nel karate. Quattro medaglie sono un magro bottino per le ambizioni di una Nazione che sta capendo l’importanza dello sport. Ma se nell’immaginario internazionale i protagonisti dello sport saudita rimangono falconi e cavalli purosangue, lo sport più seguito dalle masse saudite è senza dubbio il calcio. Il recente ingaggio di Cristiano Ronaldo conferma così le ambizioni della Saudi Pro League, il campionato asiatico più ricco.
Vale oltre 300 milioni, e di recente sotto l’egida del ministro dello sport, l’indaffarato principe Turki Al Faisal, il numero di stranieri per squadra è stato innalzato a sette, portandoli nel complesso del campionato al 24%.
È da poco stata istituita persino una nazionale femminile. A livello di immagine le grandi vittorie pesano, e pesantissima è stata la vittoria sull’Argentina al mondiale nel confinante Qatar. Sono circolati video di sauditi pazzi di felicità, c’è chi esultando ha scardinato la porta di casa, altri hanno colto l’occasione per sparare un salutare mitragliata al cielo. Chi ha esultato a suo modo, premiando ciascuno dei ventisei autori di quella straordinaria pagina calcistica con una Rolls Royce Phantom, è Mohammad bin Salman, in arte MBS, principe reggente, primo ministro, con ogni probabilità futuro re. Personaggio singolare, ma prima di conoscerlo meglio è imprescindibile una disanima generale sulla situazione saudita.
L’Arabia è una nazione giovane, il 60% dei sauditi ha meno di trent’anni. L’ambizioso e discusso progetto Vision 2030, una fitta agenda di epocali riforme volte a costruire un’economia meno dipendente dagli idrocarburi e una società più moderna, in realtà è anche e forse soprattutto un piano per offrire ai giovani opportunità per convogliare le loro potenzialità in progetti nazionali guidati dal governo invece che disperderle nel radicalismo islamico e in altre tentazioni antisistema. Tre anni fa una piccola percentuale di Aramco, principale azienda petrolifera al mondo con 360 miliardi di dollari di fatturato, è stata quotata in borsa nell’ottica di un’ulteriore finanziarizzazione dell’economia saudita.
Servirà a supportare investimenti colossali, specie per implementare il settore turistico e progetti come Neom, un’ambiziosissima area urbana di oltre 26.500 km² sul Mar Rosso.
L’idea è ospitarci 9 milioni di residenti senza auto convenzionali, con ogni servizio a una distanza massima di cinque minuti a piedi. Non entusiasti gli Huawaitat, tribù stanziata in zona, che considerati i 500 miliardi investiti nel progetto non dovrebbero avere troppo margine di trattativa. Miliardi di cui, oltre ad altri investitori sauditi e internazionali, si è fatto garante il fondo sovrano Pif, cassaforte con oltre 600 miliardi di asset sotto diretto controllo del presidente del suo cda, MBS. Pif compra di tutto, con una forte propensione per marchi occidentali. Ha partecipazioni in Pfizer, McLaren, Facebook, la totalità del Newcastle, Uber, Eni, Walt Disney, Starbucks, Citigroup, Marriot Hotels, Credit Suisse. Uno shopping compulsivo e per nulla casuale, considerato il miglior biglietto di visita per accreditarsi al mondo occidentale come investitori da fiaba e di ampi orizzonti.
Ampi orizzonti di cui la società saudita è sovente stata accusata per difetto in Occidente, non senza scadere in un moralismo di comodo, per l’adozione di una forma assai intransigente dell’Islam, il Wahhabismo. Questo nacque a metà del Settecento nella regione centrale dell’Arabia, il Najd, culla del nazionalismo saudita, con spirito riformatore. Il Wahhabismo si figura più ortodosso dell’ortodossia sunnita, rappresentata dalle quattro scuole giuridiche tradizionali (ḥanafiyya, mālikiyya, šāfi‘iyya e ḥanbaliyya). Venne da subito affiancato dalla politica, perché nel 1744 ‘Abd al-Wahhāb e Muḥammad ibn Sa‘ūd si allearono per fondare il centro di potere attorno al quale quasi due secoli dopo nacque l’odierno regno dell’Arabia Saudita.
La wahhābiyya è stata considerata un’eresia dai sunniti, di fatto non ha una tradizione di rilievo dal punto di vista giuridico e poggia sulla più chiusa delle suddette scuole interpretative sunnite, quella hanbalita. Pur essendo molto forte anche la tradizione malikita, che rivendica un diretto collegamento alla scuola di Medina, città adottiva del profeta Maometto, il nucleo della corrente wahabita si espanse con alterne fortune fino nel 1818, anno del saccheggio di Dir‘iyya, la capitale dell’emirato di allora, per mano di truppe egiziane inviate dagli ottomani. Sei anni dopo l’espansione riprese, riconquistando il Najd e parte della zona adiacente al Golfo Persico.
Nel mentre i britannici istituirono un protettorato nell’odierno Yemen, creando le basi per il futuro sostegno alla famiglia Saud nella lotta contro l’impero ottomano durante la prima guerra mondiale. L’allora maggiore Lawrence organizza l’insurrezione, ma l’accordo Sykes-Picot rimanda il sogno dell’unificazione araba che si compie solo nel 1926, quando il sultano ‘Abd al-‘Azīz al-Sa’ūd diventa re di Ḥiğāz e Najd. Subito dopo scoppia una rivolta guidata dagli iḫwān («fratelli»), fino a quel momento il braccio armato più affidabile dei sauditi, più vicini al Wahhabismo originario e militarmente più aggressivi dei Sa’ūd. È l’inizio di un ritornello ricorrente nella penisola arabica, quello dell’opposizione a un’élite che, secondo gli insorti, si presta troppo al compromesso ideologico-politico e, conseguentemente, religioso.
Riaccadrà negli anni ’50/60 con il panislamismo della Fratellanza musulmana, nel 1979 con l’assedio della moschea della Mecca da parte dei sodali di Ğuhaymān al-‘Utaybī, discendente di una famiglia di insorti del 1927.
Con la Ṣaḥwa (risveglio) di inizio anni Novanta, che fornirà al saudita più famoso di sempre, Osama bin Laden, lo spunto per lanciare il jihād. Più recentemente, l’attivismo dei ribelli Huthi sostenuti da Theran nella zona meridionale, da cui l’intervento militare oltre i confini yemeniti. Per non impolverarsi gli occhi durante le ricorrenti tempeste di sabbia gli strumenti di casa Sa’ūd sono due: la wahhābiyya e il richiamo a fattori identitari come l’arabismo. Tutto ciò in Arabia, terra custode dei luoghi più sacri dell’Islam, assume un significato ben più forte che in Paesi come Egitto o Siria o quella che fu la Libia di Gheddaffi, ancorati a un panarabismo aconfessionale. Tutte cose che il principe ereditario tiene in gran conto.
Bin Salman in Occidente è uno dei personaggi più demonizzati e meno approfonditi. The Atlantic lo scorso marzo ha avuto l’occasione di intervistarlo, svelando una personalità molto sui generis. Se ora le donne guidano, si vestono come preferiscono e giocano a calcio, se i cinema hanno riaperto dopo trentacinque anni di chiusura, se ottenere un visto turistico è una formalità, se gli uomini possono mangiare nei ristoranti senza divisori che li separino dalle donne, se questo e molto altro adesso è realtà, gran parte del merito è suo e di Vision 2030. Non a caso, sono proprio le giovani donne le più accese sostenitrici di MBS.
Il principe ereditario è un uomo del suo tempo, un trentasettenne che a colazione legge i giornali occidentali dall’iPad con Apple News e divora serie tv come Foundation e Game of Thrones. I gusti non sembrano consoni a un capo di stato, dato che apprezza film di supereroi, la fantascienza, l’animazione, specie se giapponese o targata Marvel. Ma quando c’è da ragionare di economia o geopolitica, diventa serissimo. E si capisce che l’equilibrio in Arabia, come tutto il Medio Oriente, si gioca su un filo sottile. Gran parte dell’assetto attuale nasce da un’operazione anti corruzione al Ritz di Riad nel novembre 2017, quando centinaia di principi, imprenditori e ministri sauditi vennero indotti a negoziare la restituzione di circa 800 miliardi di dollari.
«Al Ritz abbiamo dato loro due opzioni. La prima: vi trattiamo totalmente secondo la legge, con la pubblica accusa che avrebbe preparato la lista d’incriminazione. La seconda era chiedergli se volessero negoziare. Il 95% ha scelto di negoziare».
Il terrorismo è un altro tema vitale. Essendo un’eterna spina nel fianco, non a caso bin Salman stoppa l’intervistatore non appena prova a suggerirgli che sia portatore di un Islam moderato: «Non userei il termine Islam moderato, questo termine gioverebbe a islamisti e terroristi. Sarebbe una bella notizia per loro se usassimo questo termine. Faremmo credere che in Arabia e altri paesi musulmani stiamo cambiando l’Islam in qualcosa di nuovo, e non sarebbe vero. Noi stiamo tornando ai reali insegnamenti dell’Islam, quelli di una società aperta e pacifica. Ai tempi del Profeta cristiani ed ebrei coesistevano sotto le stesse regole. Gli estremisti hanno cambiato la nostra religione in qualcosa di nuovo per i loro interessi.
E ancora: «Cercano di fare in modo che la gente veda l’Islam come vogliono loro. La Fratellanza musulmana ha giocato un ruolo enorme. Sono il ponte che ha portato ad altri estremismi. Quando parli con loro non ti sembrano estremisti, ma ti portano al fondamentalismo. Certo, non è tutto dipeso dalla Fratellanza o dal mondo musulmano ma anche dagli Stati Uniti, l’invasione irachena ha dato modo agli estremisti di propagandare il loro messaggio e guadagnare seguaci. È anche vero che alcuni estremisti in Arabia hanno giocato un ruolo, specie dopo la rivoluzione iraniana del ’79 e l’assalto alla Sacra Moschea della Mecca».
Singolare la visione sul Wahhabismo: «direi che Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhab non è né un profeta né un angelo. Era solo uno teologo come tanti che viveva nel primo regno Saudita, assieme a molti altri leader politici e militari. Il punto è che al tempo nella penisola araba solo lui e suoi studenti sapevano leggere e scrivere e la storia venne scritta secondo la loro prospettiva. Gli scritti di Al Wahhab sono stati usati da molti estremisti per le loro agende. Ma sono certo che se fosse vivo oggi sarebbe tra le persone che combattono idee estremiste e atti terroristi».
Pur richiamandosi alle radici dell’Islam, l’opera interpretativa che fa delle fonti non è banale. Gli ḥadīth sono le decine di migliaia di frammenti sulla vita del Profeta che compongono la Sunna, raccolta dei comportamenti in vita di Maometto e seconda fonte di legge dell’Islam dopo il Corano. La loro importanza e veridicità varia a seconda di quanto sono vicine al Profeta le fonti che li riportano. MBS, che qualcosa di legge conosce data la laurea in giurisprudenza, ha specificato che nel Regno si deve «applicare una pena solo in presenza di un testo coranico chiaro o di un ḥadīth mutawātir» cioè un detto del Profeta dell’Islam tramandato nei secoli da una serie ininterrotta e numericamente significativa di trasmettitori.
Come spiega il principe, questi ḥadīth sono vincolanti, a differenza invece degli ḥadīth ahādī (trasmessi da singoli narratori), che diventano legge soltanto in presenza di un versetto coranico corroborante, e degli hadīth khabar (racconti il cui nucleo è identico tra le diverse versioni ma che variano in alcuni dettagli e nella loro formulazione), la cui autenticità è dubbia e che dunque non possono essere invocati come fonti del diritto, pur potendo servire per l’edificazione personale. Il che lascia possibilità interpretative non da poco. Infatti:
«Quello che stiamo cercando di fare è identificarli e pubblicarli per educare i musulmani a usare gli hadit. Farà una grande differenza. Siamo nelle fasi finali, servono circa due anni da oggi».
Ma forse la cosa più importante l’ha detta, tra le righe, nella risposta alla domanda sul suo presunto coinvolgimento nell’omicidio Khasoggi: «Quell’anno ci sono stati 70 giornalisti uccisi: me li sai nominare? No? Beh, grazie tante. È davvero empatia per un collega giornalista? O è un disegno contro di noi e contro di me? Se davvero fosse empatia per un collega giornalista, allora fammi i nomi degli altri 70. Ha fatto tanto rumore perché esistono gruppi di potere in Occidente e nel Medio Oriente che vogliono veder fallire il nostro progetto. Ma non succederà, al massimo possono rallentarlo di un 5%.
È doloroso vedere una persona uccisa ingiustamente, anche se uno merita la pena di morte, dovrebbe passare attraverso il sistema legale, aver la possibilità di difendersi. È stato un enorme fallimento del sistema e faremo del nostro meglio per sistemare le cose e assicurarci che non riaccada mai più. Porteremo in tribunale queste persone, la corte deciderà le loro pene, che sconteranno. E questo è quello che accadde quando gli Stati Uniti commisero errori in Iraq o in Afghanistan o a Guantanamo, ad Abu Ghraib».
Non sappiamo se l’abbia detto con un sorriso ironico sulle labbra o solo interiore, sicuramente MBS sa bene delle sentenze irrisorie inflitte ai torturatori americani, come delle promozioni di ufficiali assai disinvolti nell’uso di droni. Più di ogni altra cosa, ribadisce l’insindacabile autonomia degli usi e dei costumi sauditi, ricordando all’Occidente che esiste una gran parte di mondo che di accettare morali non vuole saperne. «Non avete il diritto di interferire nei nostri affari interni. Sono cose che riguardano noi e nessun altro. Settant’anni fa non abbiamo abolito la schiavitù perché qualcuno ci ha messo pressione. Ma abbiamo avuto buone influenze da altri Paesi. I sauditi studiano all’estero, compagnie americane e europee vengono a lavorare qui, la loro influenza è forte. La pressione non ha mai funzionato.
Se avete una buona idea continuate a perseguirla, se è giusta la gente la seguirà. Se è sbagliata, la gente continuerà a seguire il proprio modo di pensare, e dovete accettarlo. In Arabia rispettiamo il vostro modo di pensare, rispettiamo tutto della vostra nazione, perché è vostro affare. Vogliamo essere trattati allo stesso modo. Disapproviamo molte delle cose in cui credete, ma le rispettiamo. Non abbiamo il diritto di farvi la predica, lo stesso vale per il verso opposto. Detto questo, io non credo che in Arabia abbiamo ancora raggiunto gli standard sociali per cui stiamo lottando».
La strada per la modernizzazione della società saudita quindi, a sentire il principe, è solo agli inizi.
La corsa verso il progresso stanca, e i fine settimana sono dedicati ad alleviare lo stress con lo sport praticato: «non mi piace la palestra, è orribile. Cerco di fare uno sport vero, per me il basket è l’ideale perché ti muovi tanto divertendoti e non rischi infortuni seri, a differenza che nel calcio. Se ti fai male nel calcio rischi di smettere di esercitarti per tre o quattro mesi». Questo è il volto della nuova società saudita. Piaccia o meno riassume il pensiero di una larga fetta di mondo, a sud come a est dei confini occidentali. Il recente arrivo di Xi Jinping nel regno è stato salutato con colpi di cannone e salamelecchi ben maggiori di quelli riservati a Biden, che ha scottato un po’ MBS per la manifesta freddezza nei suoi confronti, opposta alla sintonia con l’entourage trumpiano.
Molti potrebbero pensare poi che quella di MBS su Abu Ghraib Guantanamo e Iraq sia retorica. Ma a contare davvero non è né l’opinione pubblica occidentale né la sincerità del principe. Perché nelle sue parole c’è il sentimento comune a milioni di persone dell’intera area mediorientale, e in misura pari se non maggiore agli expat di quella regione in giro per il mondo, specie quelli meno assimilati nei Paesi d’emigrazione. Milioni di persone per le quali le prime immagini da associare all’Occidente non sono i foliage a Central Park o l’intervallo del Superbowl, ma i detenuti tenuti al guinzaglio o i bambini massacrati dai droni. L’establishment di una nazione come l’Arabia Saudita è obbligato a tenere sotto controllo tali sentimenti, accettandoli e non esacerbandoli allo stesso tempo.
Una sfida retta da una certezza storica: se il sistema di potere si sfalda, l’estremismo religioso proverà a sostituirlo. È il jihadismo a essere in agguato, non la socialdemocrazia scandinava.
Il Mondiale, in questa cornice, sarebbe il miglior compimento di Vision 2030. Ospitare grandi eventi sportivi offre opportunità notevoli: dalla modernizzazione di strutture alla creazione di nuovi collegamenti, dalla redistribuzione del potere nell’establishment governativo e nei vertici sportivi istituzionali sino al miglioramento delle relazioni tra Paesi confinanti, vedasi la sfilata sotto la bandiera unica delle due Coree ai giochi invernali di Pyongyang o la cooperazione di Giappone e Corea del Sud per il Mondiale 2002. Alle nostre latitudini tutto ciò è spesso derubricato con un termine molto modaiolo: sportwashing. Cioè l’uso strumentale dello sport dai governi per migliorare la loro immagine.
Ha implicito giudizio negativo e nel mondo occidentale è usato con nemmeno troppo velato etnocentrismo per tracciare una linea di demarcazione tra l’uso geopolitico dello sport dei regimi autoritari, descritto come pura propaganda, e l’uso che ne fanno le democrazie occidentali, cioè semplice soft power. Soft power che è il modo in cui una potenza lega a sé comunità esterne trasmettendo un immaginario culturale, stili di vita seducenti, valori, legittimando così il proprio sistema sociale. Roba per potenze affermate, un neomecenatismo sportivo che va ben oltre le attuali capacità dei Paesi del Golfo: non risulta che i tifosi del Psg si siano qatarizzati in massa, né che i calciofili europei abbiano indetto petizioni per adottare l’assetto politico di Abu Dhabi.
La Supercoppa italiana giocata a Riad, inevitabilmente, riapre i soliti discorsi. Mesi fa poi era ventilata l’ipotesi, pare promossa dall’indaffarato Infantino in persona, di una candidatura di Roma accanto Arabia Saudita ed Egitto per ospitare il Mondiale 2030. Ma non è sembrato il caso, e il nostro posto sarà preso dalla Grecia, nazione che per infrastrutture, caratura internazionale, capacità economica e tradizione calcistica non appare troppo migliore di noi. L’impressione è che sia stato uno smarcamento politico, il quale asseconda il doloroso allontanamento dalla nostra tradizionale ricerca di una politica mediorientale indipendente da quella americana, forte del peso di correnti filoarabe e palestinesi un tempo ben più presenti in Italia, seppur non del tutto sopite.
Visione è un termine che ha affinità con la parola miraggio. Il miraggio, cosa comune nel deserto, in senso figurato si apparenta a termini come chimera, illusione, utopia. Quando s’infrange, generalmente, ci si resta male. Ma Vision 2030 si basa su un’idea, e le idee si possono realizzare. Quindi, immaginifica chimera o progetto tangibile? La risposta dipende anche da noi, da come il mondo occidentale saprà imparare a confrontarsi con tali attori. È un momento focale per il dialogo tra l’Europa e il Medio Oriente. E per una nazione mediterranea come l’Italia le opportunità potrebbero essere immense.
D’altronde, al di là delle proteste social e delle opinioni pubbliche, i grandi Stati già dialogano con i tanto vituperati Stati del Golfo: basta vedere il recente scambio di ostaggi, andato in scena all’aeroporto di Abu Dhabi, che ha visto ritornare in Russia Viktor But, noto trafficante d’armi con legami con i servizi del Cremlino, a fronte del rimpatrio di Brittany Griner, cestista e icona gay, detenuta nelle carceri russe. Ai negoziati ha preso parte anche MBS, i quali rapporti con Putin sono tutt’altro che pessimi, considerato che il principe ha facilitato anche il rilascio di mercenari statunitensi ed europei catturati dall’esercito russo in Ucraina, rimpatriati dopo l’atterraggio a Riad.
Insomma, la geopolitica non è un pranzo di gala, né un argomento esauribile con le categorie morali: nostre, così come degli altri. Per il colonnello Lawrence, d’altronde, «forse la più profonda scienza dell’amore è amare ciò che si disprezza». Insegnamento inattuale eppure, forse, disprezzare di meno è possibile. I miraggi, nel mondo di oggi, non servono a nessuno. Il rischio di farsi male è reale, e forse insostenibile. Ma le idee, tanto più sono ambiziose, maggiore è la gioia al loro compimento. Del resto «erano instabili come l’acqua, e come l’acqua, forse, alla fine avrebbero prevalso».