L’insistente pioggia di novembre, frequente e violenta sulla capitale argentina, sta giocando come sempre a nascondino con il sole, pronto a incendiare l’emisfero subequatoriale qualche settimana dopo. Il nono giorno di quel mese del 2006, nel teatro palpitante del Monumental, il River Plate del Kaiser Passarella affoga il temibile Ciclón del Pocho Lavezzi minuto dopo minuto nella piscina di Nuñez. Il risultato acquisito lascia spazio alle rotazioni e, quando il controllo volante del subentrato numero 7 Millonario lascia turbinare a vuoto le gambe del povero Bottinelli, le sessantamila gole sugli spalti – a dispetto del punteggio – si annodano in un groppo di tensione.
La corsa diretta verso la porta con quel tipico tocco leggiadro di palla che solo i grandi conoscono, e nei pressi dell’area il gesto liberatorio: irriverente e maestoso, la sua vaselina, marchio di fabbrica. Una beffa immacolata come la traiettoria dell’arcobaleno che in quel momento sembra spezzare in due il cielo di Buenos Aires, diviso tra la paura di averlo perso e la gioia liberatoria di averlo ritrovato:
«Hacélo y me muero. Hacélo y me muero. La tiró por arribaaaa! Me voy! Me voy! Te quiero hasta el final de nuestras vidas! Te amo futbolisticamente! Siempre fuiste mio Ariel! Ese gol no merece mi grito. Merece el grito de tu gente Ariel!».
“Hacélo y me muero”.
Così, iperbolicamente, narrava davanti a un microfono acceso quel pomeriggio la voce emozionata di Costa Febre, per un attimo megafono di tutta la hinchada Millonaria. La lirica non celebra però un gol che, per quanto straordinario, rappresenta la ciliegina sulla torta di una partita dominata e abbondantemente avviata, con il 3 a 0 parziale, verso un felice epilogo; no, racconta una gioia primordiale di liberazione, la nuova epifania di un ragazzo che sembrava essersi perso dopo essere stato ricoverato per 35 giorni in un centro di recupero dalle dipendenze.
Genio e sregolatezza, talento e follia, respiro, pensiero e poi dribbling secco. Gioia e tanto dolore. Opposti che si attraggono, controsensi che collidono. Questo e molto altro è stato Ariel Arnaldo Ortega.
Ci sono molti modi per interpretare il calcio, ma solo uno in cui avrebbe potuto farlo Ortega. Questo racconta delle sue radici e dei suoi luoghi, a pochi chilometri dal confine boliviano, nel nord-ovest argentino, dove ogni momento della vita deve fare i conti con la realtà rurale della provincia jujuense. Così anche il calcio, giocato nei potreros, che mai come in questo caso segnano un legame indissolubile con il giocatore.
Quel modo autodidatta di toccare il pallone, slegato da ogni dettame tattico e con l’obiettivo ultimo di divertirsi, è forse la vera essenza di uno dei talenti più cristallini di fine secolo argentino. Quella palestra fatta di sabbia e sassi allena la mente prima che il corpo a fronteggiare ogni imprevisto: la buca, il pallone a rimbalzi irregolari, un mantra che sul campo verde si traduce in velocità di esecuzione senza pari, adattabilità alle situazioni più disparate e quella endemica necessità di vivere per la gioia di giocare.
Ecco perché nel calcio di Ortega le gambetas, i dribbling fulminei, oltre ad essere funzionali al gioco della squadra provocano una gioia ancestrale: una vera e propria iniezione di estetica che dura un momento lungo quanto lo spostamento dell’aria provocato dall’intervento del difensore, che va inesorabilmente a vuoto.
Ortega è un predestinato da sempre, sin da quando nella sua Ledesma gli osservatori del River si recano in paese alla ricerca di talenti e quel ragazzino dall’andatura un po’ ingobbita e sgraziata, proprio come un Asinello, li strega in mezzo ad altri 500 bambini, non passando la palla ma dimostrando di condurla ovunque voglia e come nessun altro. Un biglietto di sola andata lo porta a vestire la Banda nella capitale: il suo apprendistato dura il tempo di un attimo, un paio di partite nelle giovanili, per poi essere subito aggregato alla prima squadra.
Qui incontra il suo padre putativo, Daniel Passarella, che da buon allenatore si rende conto di avere tra le mani un diamante grezzo attorno al quale gettare le basi della rinascita milionaria. La beffa del destino è che proprio lui, El Kaiser, fautore di una disciplina quasi militaresca, diventa il riferimento di quello che – tra i ragazzi della generazione mitica dei primi anni ’90 del River Plate – ha la peggiore attitudine al sacrificio e al rispetto delle regole. Eppure l’allenatore è letteralmente estasiato dalle giocate del Burrito, genuine quasi quanto il suo modo di stare al mondo, se è vero che proprio Passarella accompagna Ariel ad aprire il suo primo conto corrente per consentirgli di accumulare qualche risparmio.
Lui che nemmeno sapeva cosa fosse o meglio come funzionasse, un conto corrente.
Sotto la guida in campo di Enzo Francescoli riporta il River a dominare le competizioni nazionali, con la conquista di tre titoli Apertura consecutivi e poi, con il passaggio a Don Ramon Diaz, della seconda Copa Libertadores della storia millonaria, dopo la prima datata 1986. I colori della Banda saranno gli unici tatuati addosso alla pelle dura di Ortega, i soli che lo abbiano fatto sentire a casa e che, grazie all’empatia della gente, gli abbiano fatto sprigionare il suo incredibile talento.
L’altro grande amore calcistico di Ortega è però la maglia albiceleste: qui eredita la 10 di Maradona, ed è tutto dire, in un ideale passaggio di consegne sotto il cielo torrido dei mondiali statunitensi. Un talento sbocciato in mondovisione nei campionati del mondo seguenti, quelli della sua consacrazione, quando in Francia le sue giocate trascinano la squadra allenata proprio dal suo mentore Passarella: un Mondiale iniziato in modo sfolgorante a suon di giocate funamboliche e decisive, che portano in dote alla nazionale 3 assist e 2 splendidi gol, segnati entrambi nel pomeriggio di tango allestito contro l’inerme Giamaica.
Poi gli ottavi, con la messa in onda dell’ennesimo capitolo della eterna resa dei conti tra Argentina e Inghilterra, ideale prosecuzione di una guerra mai terminata: i suoi 4 tunnel a centrocampisti come Scholes e Ince sono un’umiliazione quasi pari alla mano di Diego dell’86, magari più intima, ma ugualmente disarmante. Il felice epilogo sancito dai calci di rigore conduce quindi con il vento in poppa (e i favori del pronostico) la squadra del Kaiser a giocare i quarti contro l’Olanda del CT Advocaat, figlia della generazione plasmata da Van Gaal nei primi anni ‘90 con i Lancieri.
Qui, come in un brutto sogno, il genio di Ariel si scontra con il suo demone nel pomeriggio di Marsiglia. Una sconsiderata testata a Van der Saar gli vale il rosso diretto a pochi minuti dalla fine della partita, quanto basta a Dennis Bergkamp per inventare una prodezza balistica al limite del metafisico. Il resto è storia, triste storia, per l’albiceleste.
Nonostante le critiche taglienti della stampa latina, il genio mostrato negli stadi transalpini porta il Valencia a ingaggiare il nuovo astro nascente del calcio mondiale. Sarà una parentesi, quella europea, fatta però più di bassi che di alti. Poche gioie e molte incomprensioni tattiche con il pragmatico Claudio Ranieri tra le fila levantine. Poi, qualche sprazzo di classe in maglia blu-cerchiata a Genova, legame obbligato con la capitale argentina: in particolare una vaselina, filo conduttore del calcio del Burrito, questa volta davvero surreale.
È un colpo vellutato di esterno, una traiettoria dolce e beffarda che la lesa maestà di Gianluca Pagliuca può solo seguire con un arrendevole gesto del collo, anch’esso attratto dall’impossibile appena verificatosi. Uno dei gol forse più affascinanti della storia della Serie A.
Era una di quelle giornate in cui Ortega era semplicemente imprendibile; un ricordo indelebile, seppur fugace, è lasciato per sempre nel massimo campionato italiano. Sembra davvero incredibile che quella Samp, allenata da un giovane Luciano Spalletti, equipaggiata della potenza di fuoco del bomber Montella e dal genio del nostro 10, sia retrocessa senza appello costringendo il Burrito a nuovi pellegrinaggi, in cerca di una Mecca dove professare il suo calcio.
Sampdoria 4-0 Inter: Ariel Ortega.
Il Parma dell’offensivo Malesani e il ricongiungimento con il suo fratello della Banda, Hernan Crespo, sembrano i presupposti migliori per rinverdire la sua gloria. Tuttavia, lontano da casa e dalla gioia del suo calcio, in un Occidente scintillante da fuori ma spaesante da dentro, Ariel inizia ad annegare il suo disagio nell’alcol: sarà questo un vizio e uno spettro che lo seguirà ovunque, di cui sarà impossibile liberarsi.
Dopo il fallimento ducale, ritorna sui suoi passi e soprattutto ritorna a casa (non tutti, d’altronde, sono fatti per la gloria “nel calcio che conta”). Tra le mura amiche del Monumental Ortega ritrova giocate e prestazioni, riportando a Nuñez il titolo nazionale e ottenendo nuovamente la chiamata della Seleción, dove un visionario di nome Marcelo Bielsa sta costruendo la sua macchina perfetta: la nazionale perdente più forte di sempre.
Nel credo calcistico del Loco, quel suo dogma irriverente fondato solo sui numeri primi del 3-3-1-3, l’unico spazio destinato alla singolarità è ritagliato per le doti del Burrito, che incanta e guida le trame offensive di una nazionale travolgente.
Nel biennio di preparazione al mondiale nippo-coreano, l’Argentina di Bielsa spazza via ogni avversario e si presenta in terra d’oriente con i gradi di favorita. Non si è ancora capito ancora bene cosa abbia fatto fallire così incredibilmente quella spedizione (l’albiceleste esce ai gironi), in un disastro sportivo che tutt’oggi viene ricordato dai protagonisti, in modo pressoché unanime, come la più grande delusione delle loro carriere. Ma per Ortega è ancora tempo di Europa, e il richiamo delle ricche casse del Fenerbache convince il 10 argentino a prendere la decisione peggiore della propria carriera.
Saranno pochi mesi di totale spaesamento: Ortega è ontologicamente completamente estraneo alla cultura turca, al modo di vivere e di mangiare. Alla prima occasione buona, dopo una partita della sua nazionale in Olanda, prende l’aereo che porta a Buenos Aires invece che a Istanbul, mettendo di fatto una pietra tombale sulla propria carriera a soli 29 anni. Una multa salatissima, una squalifica di oltre un anno, i debiti che lo sommergono; ma la discesa agli inferi è appena iniziata per il ragazzo di Ledesma.
Ariel spera con la fuga di scacciare le proprie inquietudini, ma senza il calcio come valido alleato il Burrito ricade nelle solite tentazioni: la dipendenza da alcolici riesplode in tutta la sua tragicità.
Alla base un grande equivoco, e l’errore di chi forse non ha mai saputo davvero riconoscere la depressione come causa scatenante delle proprie azioni: l’alcol così diventava un’illusione di antidoto per il male da cui era afflitto, come capitato a suo padre prima di lui – si dice d’altronde che i figli di bevitori cronici abbiano molte più probabilità di cascarci anch’essi. Per Ariel Ortega inizia dunque una lunga agonia trascorsa dentro e fuori dai centri di recupero, anche quando prima il Newell’s poi ancora il River lo avevano riportato nell’unico posto dove poteva stare: sul campo.
Con il viso segnato ben oltre l’età biologica, Ortega è oggetto misterioso, talismano capace di giocate splendide e malinconiche, come una Milonga sussurrata in una notte bonarense, quando la pioggia torrenziale lascia il posto al vento dell’oceano. Tante piccole istantanee che compongono il quadro straziante di un talento inarrivabile del calcio latino, straripante nella sua superiorità tecnica, tremendamente umano nelle sue debolezze. Argentino come le storie di sassi, di polvere e palloni di pezza, con il calcio come gioia dell’anima.