Le rivoluzioni si fondano sempre su un amore divenuto ossessione.
Arrigo Sacchi aveva dovuto rinunciare presto all’idea di diventare un grande calciatore. Eppure ci aveva provato proprio come ci poteva provare uno come lui, mica per scherzo. Ancora non l’aveva tirata fuori, quella parola che è diventata un approdo sicuro per tutti i contemporanei teorici del pallone. Dispensatori di saggezza e di purezza applicate al pensiero calcistico, quando il loro tenace impegno speculativo si avventura in mare aperto, infilandosi in complicati grafici di linee, diagonali, triangoli; ingarbugliandosi in ambiziose rappresentazioni numeriche di moduli, nella faticosa ricerca di una fonte di significato, di un’unità concettuale da cui tutto derivi e a cui tutto possa essere ricondotto.
Ed allora, in un puro slancio fideistico, dicono intensità. L’intensità, per loro, è ciò che tutto fa nascere, ciò che tutto trasforma, e ciò verso cui tutto si muove. Il motore immobile del calcio. Eppure quando, circa trent’anni prima, proprio Arrigo tirò fuori quella parola per applicarla in un contesto che ad essa risultava sconosciuto, sembrava una pezza messa lì per caso, in mancanza del tassello originale.
Ecco, quando da giovinotto di ricca famiglia Arrigo Sacchi calcava i campi dilettantistici romagnoli, l’intensità non gli mancava affatto. Pur non contemplandola ancora da un punto di vista teoretico, ce la mise tutta. Mancavano i piedi adeguati. Pur con tutta la buona volontà e la massima tenacia speculativa applicabili, questo dettaglio risultava un problema insolubile. E così mordeva le caviglie avversarie, il giovane Arrigo.
Rincorreva il proprio uomo senza tregua. Rispondeva al più classico modello di terzino marcatore, proprio uno dei bersagli preferiti della sua furia da Savonarola che si abbatterà sul calcio italiano nella sua vita futura. Non mollerà nessun attaccante e neanche il Fusignano, squadra della città in cui era nato. Inizierà a giocare a 18 anni, circa due anni prima di iniziare a guidare la sua Porsche, e continuerà fino a 33, fin quando ne aveva in corpo.
Poi si convinse che era il caso di spostare in un’altra direzione la sua fervente energia.
E così lavorava per la fabbrica di scarpe del papà, girava il mondo e studiava il calcio, con la stessa intensità che sempre e ovunque lo contraddistingue, non mollandolo per un attimo, proprio come aveva provato a fare in campo con gli attaccanti avversari. In particolare si appassionò al calcio olandese, all’Ajax, all’Olanda di Rinus Michels, una delle più affascinanti squadre di tutti i tempi. Soprattutto una di quelle squadre che avevano fatto parlare il mondo, prestando il fianco al furore teoretico di tutti quegli innamorati del pallone cui era tendenzialmente sottratto il piacere di sublimare il loro amore nella pratica, e quindi cercavano nella teoria quel surrogato che potesse essere atto a soddisfarli.
Il riferimento, che lo stesso Sacchi ammette e che cita personalmente, è l’Ajax di Stefan Kovacs, squadra che vinse due coppe dei Campioni nel 1972 e nel 1973. L’allenatore rumeno raccolse l’eredità proprio di Rinus Michels e, contando su una generazione di calciatori straordinari, perfezionò un meccanismo di gioco effettivamente rivoluzionario per l’epoca.
Pressing, difesa alta, sincronismi consolidati, una squadra che consisteva in una pura entità collettiva, piuttosto che nella banale sommatoria delle proprie singole parti. Lo chiamarono calcio totale proprio perché si fondava sull’idea che tutti i calciatori fossero messi nelle condizioni di partecipare ad entrambe le fasi di gioco. Tutti dovevano partecipare all’azione di attacco, tutti dovevano collaborare alla fase difensiva. Per rendere possibile ciò, ovviamente, c’era bisogno di una preparazione fisica e di una condizione atletica curate nei minimi dettagli. Prima Rinus Michels, poi Kovacs, grazie a calciatori straordinari come Krol, Neskeens, Haan, Rep e al fuoriclasse Cruijff, diedero vita a questa fantastica idea di squadra.
Quando, dieci anni dopo aver terminato la sua carriera di calciatore dilettante, arriverà l’occasione della sua vita, per Arrigo Sacchi sarà soprattutto l’occasione di essere lui stesso a poter creare una squadra come quella.
Fossati l’avrebbe definita la costruzione di un amore. Assoluto al punto da divenire lacerante, frustrato in gioventù da un problema tecnico, senza possibilità di raggiungere l’appagamento per insuperabili, invincibili limiti personali. Un amore che più sfugge e più ti condanna a vivere nella sua ricerca, nel perenne e ossessivo desiderio del suo appagamento. L’occasione della sua vita, per creare una squadra come l’Ajax, per continuare a rincorrere un amore e il suo impossibile appagamento.
Silvio ed Arrigo erano destinati ad incontrarsi. Due caratteri diversi, due modi assolutamente differenti di esprimere la stessa ipertrofia, quella del proprio incontenibile ego. L’ex terzino del Fusignano era sulla panchina del Parma, Berlusconi era al primo anno di presidenza, e di certo non aveva temporeggiato prima di lanciare urbi et orbi la sua volontà di potenza. Il suo Milan avrebbe dovuto conquistare non solo l’Italia, ma tutto l’Universo, risorgendo dalle proprie ceneri.
Era la stagione 86/87 e l’audace profezia sembrò lontana anni luce dal potersi avverare, specie allorché una squadra di Serie B, per l’appunto il Parma di Arrigo Sacchi, venne a sbancare due volte su due San Siro, in Coppa Italia.
La prima volta era settembre. Il Milan di Liedholm sprecò palle gol in quantità industriale, alcune anche incredibilmente. Poi un biondino dalle movenze un po’ ciondolanti infilò il varco giusto in contropiede e siglò il clamoroso 0-1 finale. Costui era Fontolan, che poi si costruì una carriera di livello, militando anche nei cugini nerazzurri. La seconda volta era febbraio ed era l’andata degli ottavi. Di nuovo Parma corsaro a Milano, con rete di Bortolazzi (ironia della sorte in prestito proprio dal Milan). Al ritorno un asfittico 0 a 0 eliminò i rossoneri dalla competizione.
Il suo Parma aveva vinto due volte su due in casa del Milan. In campionato non gli riuscì mai: i gialloblu non ottennero neanche una vittoria esterna, una che sia una in tutto il campionato. Il Parma rimase in Serie B, ma Silvio gli diede l’occasione. Due volontà di potenza che s’incrociano e, in qualche modo, riescono a congiungersi. L’obiettivo era sbaragliare tutti gli altri, chi si trovava sulla loro strada era essenzialmente un ostacolo. Chi non era con Arrigo, era contro Arrigo. Non a caso, recentemente, ha detto:
“In Italia hanno bruciato Giordano Bruno. Io ero visto come un eretico. L’ambiente del calcio e una parte dei giornalisti mi consideravano un eversore, un diverso, un avversario, perché mettevo in crisi la loro leadership e il loro ruolo di detentori di un sapere antiquato.”
Sin dal ritiro i calciatori dovettero fare i conti sin da subito con un’ossessione, e capire che o ne divenivano complici, o erano guai. Lo stesso Ancelotti – a proposito di storia del Milan – dirà: «La prima preparazione con Arrigo è stata terribile. I suoi metodi erano totalmente innovativi. Se prima potevo dire che nel lavoro c’era un’intensità pari a venti, a Milanello l’intensità era pari a cento. Una differenza abissale, una fatica tremenda… Il problema era che la giornata non finiva alle sette di sera, dopo il secondo allenamento. C’era la cena, poi fra il caffè e il letto Sacchi ci piazzava la riunione. Non la riunione tecnica, ma quella psicologica…
A inizio preparazione pesavo 84 chili, alla fine 68. Il terrore di tutti noi erano le scale che portavano alle stanze, non riuscivamo più a farle, ci veniva da piangere. Un calvario, sembravamo un gruppo di zombie. Quando sono tornato a casa, mia madre quasi non mi ha riconosciuto».
Non tutto andò liscio fin da subito. Ci furono problemi, aporie, battute d’arresto pesanti come quella subita per mano dall’Espanyol, che eliminò il Milan dalla Coppa Uefa. Ci fu l’operazione alla caviglia di Van Basten, con il quale, tra l’altro, c’era pure stata qualche schermaglia. Altre ce ne saranno anche negli anni a venire.
Ma poi il motore partì, e nessuno poté fermarlo. Non ci riuscì il Napoli di Maradona, che si piantò nel finale di stagione, quando sembrava ormai avere la vittoria finale in pugno. Il sorpasso andò in scena proprio al San Paolo, a solo due giornate dal termine.
C’è ancora una frase di Ancelotti a poter fare da chiosa: «Arrigo ci credeva così tanto, era così convinto, così tanto convinto, che alla fine ce ne convincemmo anche noi». Scudetto, Supercoppa italiana, soprattutto due Coppe dei Campioni, due Supercoppe Uefa e due Coppe Intercontinentali. In termini di semplice contabilità la questione si potrebbe riassumere così. Ovviamente non basta a dare il senso di uno squadrone che fece epoca, nella più pura accezione.
Per lui era la sua squadra, il suo meccanismo, sarebbe più appropriato dire la sua idea. Quando gli chiedono di esprimere un esempio di applicazione pratica di quell’idea che sarebbe riseduta nella sua testa, lui dice: «Volevo che la squadra difendesse aggredendo e non arretrando, ma avanzando. Volevo che la squadra fosse padrona del gioco in casa e in trasferta. Era difficile far capire il nuovo modo di giocare, il movimento sincronizzato della squadra senza palla, avere undici giocatori con e senza palla sempre in posizione attiva.
Avere una difesa attiva vuol dire che anche quando hanno la palla gli avversari tu sei padrone del gioco. Con tale pressione li obblighi a giocare a velocità, a ritmi e intensità tali per cui non essendo abituati vanno in difficoltà».
Le convivenze sono difficili, quelle con un’ossessione sono forse le più difficili di tutte. Oltre quella squadra, possiamo tranquillamente dire che Arrigo non ne ebbe alcun’altra. E il nostro ci perdonerà, se pur affascinati dalla sua eresia, non arriviamo comunque a credere che una squadra in cui c’erano Baresi, Maldini, Donadoni, Ancelotti, Gullit, Van Basten, poi Rijkaard (per dirne alcuni), possa poi realmente essere tramandata alla Storia come la squadra di Sacchi. La sua voglia di allenare sarà divorata dalla sua stessa ossessione, e deciderà di non sedere mai più in panchina.
Non prima di aver incarnato anche il ruolo di bersaglio preferito dagli Italiani, definizione alternativa di Commissario Tecnico della Nazionale. Se lo sentirà sempre molto stretto addosso, quel ruolo. Lui che non voleva sentirsi un selezionatore e soprattutto lui che la sua squadra voleva averla sempre a propria disposizione, nelle proprie mani, per rincorrere l’illusione di poterla plasmare a propria immagine e somiglianza.