Sulla pietra del suo Milan ha costruito una chiesa.
Sono gli ultimi giorni di ottobre del 1987 e, nella pancia dello stadio Bentegodi, si sta tenendo la riunione di una partita che si rivelerà uno snodo cruciale della stagione: l’allenatore della squadra ospite sta dispensando consigli, incitamenti e ripetendo, per l’ennesima volta, le consegne tattiche da osservare inderogabilmente. Sulla porta, un uomo distinto attende con pazienza che arrivi il suo turno. A uno a uno, i calciatori vengono fermati dall’elegante personaggio che, sfoderato un radioso sorriso, ripete a tutti, nessuno escluso
“Mi consenta di ricordarle che, comunque vada a finire questa partita, il signor Sacchi sarà anche l’anno prossimo il tecnico del Milan. Questo allenatore l’ho scelto io, chi non segue le sue indicazioni non rimarrà! Auguro a tutti un buon lavoro.”
Erano ancora lontani i tempi in cui Berlusconi avrebbe arricchito il suo nutrito pool di avvocati, intasando le aule dei tribunali. Curiosamente nessuno, però, lo ha mai citato per il suo crimine più grande: averci condannati per anni a subire le terrificanti dissertazioni di Sacchi sul calcio, che vedono invariabilmente come termine di paragone la persona, parafrasando Brera con Herrera, che lui più ama: sé stesso. Ma non bisogna essere ingenerosi, con Silvio: in fin dei conti, Sacchi era stata una sua scommessa, anzi una sua intuizione; un allenatore che aveva creato lui (ad alti livelli), un parvenu che aveva introdotto nei salotti buoni del calcio.
Arrigo era infatti nato dal niente: men che mediocre come calciatore, capisce ben presto di dover riporre nel cassetto i sogni di grandeur, dedicandosi al lavoro di rappresentante di calzature che gli consentirà due importanti successi: farsi la Porsche, non ancora dissacrata dalla caustica comicità di Crozza a Mai Dire Gol, ma soprattutto studiare e aggiornarsi sul calcio, abbeverandosi in modo particolare alla fonte del totalvoetbal olandese, del quale Rinus Michels all’epoca era il venerato maestro.
L’uomo di Fusignano ha in sé una duplice natura: dal padre eredita l’animo dei lombardi, col culto del lavoro duro e del sacrificio, dalla madre l’animo folle, visionario e sognatore dei romagnoli. I primi tempi concilia lavoro e passione allenando Fusignano, Alfonsine e Bellaria, dove già fa si fa promotore della sue idee di calcio spettacolare e offensivo: all’età di Cristo, dopo un grave lutto familiare, decide di investire su sé stesso, abbandonando definitivamente il lavoro nell’azienda di famiglia.
Il destino gli fa trovare sulla sua strada due pigmalioni di eccezione: il Conte Rognoni, che ne caldeggerà l’ingaggio nelle giovanili del Cesena, e Italo Allodi, che agevolerà la sua iscrizione al Supercorso di Coverciano e lo porterà poi a istruire le giovanili a Firenze. Ma è col Parma che Arrigo si rivela al grande calcio, e lo fa col botto, umiliando ripetutamente il Milan in Coppa Italia. È in quel momento che Berlusconi va all-in su quell’omino ispirato: il monumento Liedholm, icona irrispettosa e insensibile al fascino berlusconiano, svuota l’armadietto a Milanello. È la grande occasione per Arrigo.
Sacchi giunge in un Milan minore, reduce dai nefasti anni di gestione Farina, con le stanze di Milanello affittate per matrimoni. È fautore di un’etica del lavoro tutta nuova, fatta di tabelle da tortura e ripetizione ossessiva degli schemi, fino quasi a portare i calciatori a ripetizioni pavloviane: è asfissiante, non si accontenta mai, trovando difetti pure dopo le grandi vittorie. Otterrà il rispetto dei suoi giocatori, in alcuni casi anche ammirazione, ma non sarà mai particolarmente amato.
«[era] martellante, non mollava mai. In ritiro poteva capitare che ti fermasse per le scale per ripetere uno schema. C’era chi scappava dallo spogliatoio per non incrociarlo dopo l’allenamento. E chi non riusciva a dormire al pensiero che l’indomani lo avrebbe dovuto incontrare di nuovo».
Pietro Paolo Virdis
Parole di Virdis nel libro “Alla ricerca del calcio perduto – secondo tempo” di Nicola calzaretta (GoalBook Edizioni), in cui è citato anche il pensiero di Giovanni Galli: «Mentalmente era dura. Eravamo più stanchi di testa che di gambe».
Anche perché l’entrata in scena di Sacchi è a gamba tesissima: ricorda ai suoi uomini che non hanno vinto nulla, fa paragoni da camicia di forza, come quando consiglia a un perplesso Franco Baresi di prendere esempio dai movimenti da Gianluca Signorini. Dimostra determinazione e competenza quando si fa comprare un Ancelotti coi cerotti e, a suon di ripetizioni e allenamenti doppi, gli regala un gran finale di carriera; o qualche mese più tardi, quando si dirà pronto a dimettersi nel caso gli avessero imposto in squadra la meteora Borghi al posto del più utile Rijkaard.
Ma il campo, i primi mesi, gli mostra il pollice verso. Lo ammetterà anche nella sua autoagiografia, scritta da Guido Conti, “Calcio Totale”: «i miei inizi sono spesso stati terribili».
È così anche nel capoluogo meneghino, dove la difesa alta sacchiana fatica terribilmente in campionato e traballa contro le spagnole in Europa: prima lo Sporting Gijon, con cui rimonta però la sconfitta dell’andata sul neutro di Lecce, poi il difensivista Clemente che lo estromette brutalmente dalla Coppa UEFA 1987/88 con un 2-0 che non ammette repliche. Sacchi è in evidente difficoltà, al punto da telefonare una sera a un probabilmente allibito Sconcerti per aprire il suo cuore al cronista toscano, temendo non gli dessero il tempo di fare il suo lavoro. Fino a quel 25 ottobre.
Da quel giorno, col Milan capace di espugnare il Bentegodi per 1-0, nasce un’esaltante epopea di tre stagioni strepitose, ricche di successi (1 scudetto, 2 Coppe dei Campioni, 2 Intercontinentali, 2 Supercoppe Europee, 1 Supercoppa Italiana) ma anche di stress, fino al momento del commiato inevitabile, con i giocatori ormai a un passo dalla rivolta e l’intervento di un Capello capace di allentare quelle briglie strette al parossismo. Celeberrime le punzecchiature con Van Basten, con Sacchi che si ostinava a trattarlo come uno dei tanti, e in una occasione lo aveva addittura provocatoriamente paragonato all’onesto centravanti di provincia Bivi, ritenuto “più utile alla squadra”.
Non sorprende allora il livore astioso con cui il Cigno di Utrecht ne traccia il ricordo nella sua biografia o in diverse interviste degli ultimi anni, né che gli scontri verbali avessero addirittura portato a un famoso aut aut inutilmente smentito più volte: “o io o lui” disse Arrigo, “Lui!” rispose Berlusconi, al quale venne in soccorso un Matarrese desideroso di smarcarsi da quel Vicini che aveva fallito l’appuntamento mondiale casalingo con la nazionale forse più amata di sempre.
«Sacchi parlava troppo. Gli dicevo: mister, me lo hai già detto 12 volte. Era un tale fanatico che continuava a raccontare le stesse storie. La storia l’hanno fatta i suoi giocatori. Quel Milan era una delle squadre più forti di sempre. Lui ha avuto una parte importante ma era bravo a farsi amici i giornalisti, e ha saputo costruire una immagine da grande innovatore».
«Non ha inventato nulla. Il modulo che usava il Milan non era né rivoluzionario né offensivo. Schieravamo difensori eccezionali. A farci vincere così tanto è stata sempre la difesa, alla quale lui si applicava molto, dedicando invece poco tempo alla fase offensiva».
«Una volta negli spogliatoi gli dissi che vincevamo non grazie a lui, ma nonostante lui. Ci rimase così male che uscì senza dire nulla. Sentii di averlo ferito. E non lo meritava. Uno sfregio gratuito, del quale mi dispiaccio ancora,anche se è passato tanto tempo. A livello personale, non ho problemi con lui, lo ricordo con affetto».
Alcune delle dichiarazioni di Van Basten su Sacchi
È a questo punto che Sacchi inizia a cambiare in maniera definitiva modo di porsi: l’alacre insegnante col lavoro come mantra, inebriato da un triennio di successi epocali, lascia il posto a un algido profeta che scaglia anatemi con toni apocalittici. Memore del suo passato con le giovanili, dove insegnava ai giovani l’etica del lavoro, magari affidandosi a massime tragiche come «La magia nel calcio è una favola da bandire» (da “Ragazzino, vuoi diventare calciatore?”), Sacchi si spinge oltre, a un dogmatismo istrionico senza accorgersi che il suo Milan è un modello difficile difficilmente replicabile.
Non solo, e non tanto, per gli spropositati investimenti berlusconiani: ma perché si sentiva un eretico inventore di un modo nuovo di fare calcio, sorretto da un apparato massmediatico all’epoca senza precedenti. Ci provò Lodovico Maradei, prima firma della Gazzetta quando la Gazzetta era ancora una cosa seria, che dedicò all’Arrigo il corsivo “perché il Milan che morde è una evoluzione e non una rivoluzione” ma venne oscurato dalla valanga di laudatorie per il Vate di Fusignano, dimentiche del fatto che la zona in Italia era già stata introdotta da mister quali Vinicio, Viciani e soprattutto dallo stesso Liedholm.
“Non è il fenomeno, il talento a creare la squadra, bensì il gioco costruito e pensato dall’allenatore che fa grande la squadra e valorizza il talento in campo”.
Arrigo Sacchi
Non sconvolge il fatto che venga sempre ignorato quello che è probabilmente, per metodi di allenamento e idea di gioco, il vero riferimento: Valery Lobanovski, condottiero di Dinamo Kiev e URSS, la cui citazione sarebbe stata inaccettabile per un establishment il cui vertice massimo, prima della finale di Coppa Campioni contro lo Steaua, aveva ricordato che “i nostri avversari sono i comunisti!”
Certo, alcuni match rossoneri terrebbero attaccati allo schermo ancora oggi per intensità e valori tecnici della partita (il successo col Malines, che solo uno strepitoso Preud’Homme salvò dalla scoppola memorabile, le mitiche semifinali di Coppa Campioni dominate contro il Real Madrid – non solo il 5-0 a San Siro, ma anche lo strettisimissimo 1-1 del Bernabeu –, il 4-0 rifilato in finale allo Steaua Bucarest etc.) ma per completezza bisognerebbe anche ricordare anche non tanto la solita nebbia di Belgrado, quanto i clamorosi rischi corsi contro le tedesche Werder Brema e Bayern Monaco.
Qui Sacchi finge di dimenticare la sua prima e più grande nemesi, e si salva proprio in nome dell’ottenimento di quel risultato che tanto dice di disprezzare. In ogni caso i rossoneri, nelle giornate di grazia, sono un autentico spettacolo, con la squadra capace di difendere compatta in 10 uomini e attaccare in 7, con raddoppi e sovrapposizioni che si susseguono senza soluzione di continuità, in tutte le parti del campo, e le linee di centrocampo e difesa che, quando riparte l’azione, danno l’idea di una migrazione di popolo.
“A noi italiani interessa la vittoria a tuti i costi, della storia e dello spettacolo sportivo ce ne freghiamo, così le nostre vittorie si dimenticano presto”.
Arrigo Sacchi
Verissimo anche che va riconosciuto a Sacchi il merito di aver animato un dibattito calcistico al tempo asfittico, e a San Siro le mani venivano alzate non solo in campo da Franco Baresi, a chiamare il fuorigioco, ma anche in tribuna, quando volavano sganassoni in seguito a discussioni furibonde fra i cultori della zona e quelli della marcatura a uomo. Peccato che l’oracolo del gioco offensivo fosse prigioniero del paradosso di presentare un gioco anzitutto difensivo: il suo primo Milan era spesso la miglior difesa del campionato, e la prima attenzione era quella di non far tirare in porta gli avversari.
I suoi allenamenti da ginnasiarca portavano la squadra a correre il triplo degli avversari: memorabile un derby nell’anno dello scudetto in cui Altobelli si rivolse all’arbitro chiedendo di contare i giocatori. “Sembrano in quindici” pare abbia detto Spillo, fra l’impressionato e l’ammirato. Si faceva tutto a velocità impressionanti, con il corollario non secondario che con buoni giocatori si riusciva a esibire uno spettacolo emozionante e coinvolgente, ma se la qualità degli interpreti fosse andata a calare, i match si sarebbero rivelati un susseguirsi di tackle, falli tattici ed errori basilari.
Gli imitatori, privi dei campioni di cui poteva disporre Sacchi, avrebbero potuto al massimo replicarne le durissime sessioni di allenamento, esasperandole ancora di più e contribuendo a far diventare il calcio uno sport in cui contava sempre di più il gesto atletico, la corsa, la forza fisica, mentre andava a ridursi lo spazio per la fantasia, l’astuzia, il gesto tecnico. Capì tutto Brera prima del suo cammino in Nazionale: «Sacchi ha dietro di sé notevoli successi con il Milan, nel quale militavano peraltro tre assi olandesi e cinque-sei nazionali italiani, due dei quali di classe mondiale certa. Nella Nazionale italiana potrà disporre dei milanisti, invecchiati di qualche anno, ma non dei formidabili olandesi.
“Il suo calcio, temo, passerà fatalmente per velleitario”, vaticinò su Repubblica.
I fatti gli daranno ragione. La sua ossessione per il modulo, la sua fissazione per la tattica sopra le individualità, lo portano a far fuori i giocatori di maggior carisma e personalità, come Vialli e Zenga, a impiegare fuori ruolo, svilendone le doti, elementi come Signori, e a trascinare gli azzurri in un vortice di polemiche fra stage e convocazioni naif (77 giocatori in 53 gare, 55 debuttanti, mai la stessa formazione due volte di fila).
Arriva secondo ai mondiali giocando da cani, con le eccezioni di una mezz’ora abbondante nella semifinale con la Bulgaria di Stoichkov e dei lampi di classe di Roberto Baggio (evidentemente la magia da bandire nel calcio è quella che fa vincere gli avversari), che lo scuote dalla visione di lui che sale la scaletta dell’aereo sperando di fare la fine di Amelia Earhart durante i minuti finali della partita con la Nigeria; va fuori agli Europei giocando bene, ma finendo vittima di un assurdo turnover dopo il felice esordio con la Russia.
Stritolato dagli inevitabili processi, rivendicherà il secondo posto negli Stati Uniti e il bel gioco mostrato in Inghilterra, non rendendosi conto del paradosso: ma allora conta più il risultato, anche giocando in maniera orrenda, o una bella prestazione nonostante questa abbia portato a ferie anticipate? Fa quindi i bagagli dopo una clamorosa sconfitta con la cenerentola Bosnia, tornando al capezzale del suo Milan, decisione presa «senza neppure avvertire mia moglie», perché «tra le cose irrinunciabili del mio modo di essere c’è infatti la riconoscenza», disse lui, mentre i più ingenerosi lo tacciavano di essere scappato da una situazione ormai insostenibile.
Ma è ormai maturo il tempo in cui si realizzi la massima di Vergniaud, “La rivoluzione divora i suoi figli”: Arrigo prova a ricreare la magia di un tempo, ma non riesce a moderare la sua propensione all’integralismo. Gli calza a pennello l’abusata immagine della candela che brucia da due parti, durando la metà: lo stress lo corrode dall’interno, le sue fasi d’ansia aumentano, portandolo ai limiti delle crisi depressive. Il ritorno al Milan è un fallimento fragoroso, con la squadra fuori dall’Europa e nelle retrovie della classifica, prendendo memorabili scoppole dalle rivali storiche in campionato e facendosi eliminare clamorosamente in casa dai volonterosi norvegesi del Rosenborg.
Il tentativo di rilancio a Madrid, sponda colchonera, finisce con un siluramento inevitabile dovuto solo in parte al suo malessere esistenziale, e ancora peggio va a Parma, dove il suo ritorno dura tre partite tre. Il suo bisogno di andare sempre a tavoletta aveva irrimediabilmente fuso il motore, e la carriera da allenatore di Arrigo è già finita: il credito di cui gode, tuttavia, gli consente esperienze dirigenziali d’alto livello. A Parma però si trova a dover operare al tramonto dell’esperienza Tanzi, con il club travolto dal crac Parmalat, e in seguito a Madrid il ruolo assegnatogli da Perez è in realtà puramente ornamentale, tanto che lo stesso Arrigo rassegna le dimissioni.
Fuori dall’agonismo, Sacchi ha commesso un peccato mortale, banalizzandosi.
Forse contagiato dal datore di lavoro al quale è più debitore, ha cominciato a innamorarsi della immagine che si rifletteva nel suo specchio, considerandosi depositario della Verità, e ripetendo fino alla nausea i principi base del suo credo calcistico, novello Mosè a redarre le tavole sacre. “Una vittoria senza merito non è una vittoria” recita un suo mantra, dimentico di alcuni scheletri nell’armadio che dispettosamente potrebbero fare capolino: nella notte dei riflettori di Marsiglia in panchina c’era seduto lui, nella sera in cui il suo aziendalismo, agli occhi dei più disincantati, poteva essere scambiato per scaricabarile.
O un Atalanta – Milan di Coppa Italia, dove l’eliminazione fu sventata da un rigore conquistato in spregio alle più elementari norme del fair play, scatenando le ire perfino di quel Claudio Cesare Prandelli che commentò, sardonico: “Signori si nasce, ricchi si diventa”, e Sacchi in conferenza stampa a spiegare che sì, tutto molto brutto, ma in fondo il Milan aveva giocato meglio e quindi la qualificazione era meritata. Per non parlare poi del classico adagio in base al quale gli arbitri vanno aiutati, perché se una squadra è più forte batte anche anche la sfortuna e gli errori arbitrali.
Uno dei cavalli di battaglia di Sacchi, dai quali fu disarcionato brutalmente il 22 aprile 1990, nella seconda fatal Verona milanista, quando “l’integerrimo professore, l’uomo di tutti gli esempi”, come scrisse Cannavò, entrò in campo per insultare Lo Bello junior. Al suo posto, lo avrebbero fatto tutti? Non si può negarlo: ma questo è l’errore capitale di Arrigo Sacchi. Cercare di negare la sua umanità, siano i limiti fisico-mentali che lo portarono ad accorciare sensibilmente la sua carriera da coach facendosi corrodere da ansia e stress, sia la (de)formazione caratteriale che contribuì a formare quell’insopportabile alone di santità intorno alla sua persona.
Da commentatore, in televisione, sulla carta stampata, ai convegni manifesta sempre il bisogno di apparire come una sorta di guru illuminato e saggio, quando invece è molto terreno nel rivendicare i successi della sua squadra e utilizzarli come immancabile termine di paragone. Ad esempio quando parla del «buon gusto e senso dello spettacolo, qualità mai appartenuteci, a parte un certo periodo in cui ce la eravamo costruite con il lavoro» – chissà mai quale sarà questo periodo –, o di lui che dà lezioni “a Pep”, o ancora di altre squadre e di un certo tipo di gioco (quello più reattivo) che «non dà gioia neanche quando si vince».
Come quando invitò Simeone a “credere più in se stesso” perché era inaccettabile giocasse così: “che calcio è mai quello?“, sbottò sulla Gazzetta, chiedendosi come mai “gli spagnoli, gente abituata alla bellezza” lo accettassero – forse perché, con quel gioco, l’Atletico era tornato nel pantheon del calcio spagnolo ed europeo.
Nella sua vecchiaia ormai serena, Sacchi si dedica a raccogliere onori e premi in ogni angolo del mondo, e fra una celebrazione e l’altra continua, immutabile, nella sua opera di divulgazione del Verbo seguendo evidentemente l’aforisma di Goebbels sulla ripetizione che rende vere le cose dette. Un po’ ideologo calcistico, un po’ life coach americano. Il tutto ignorando di essere stato smentito nel suo assolutismo dai cicli della vita calcistica, e soprattutto dalle condizioni in cui i grandi allenatori si trovano ad operare – basta vedere l’approccio del suo Ancelotti, un vero e proprio rovesciamento del dogmatismo sacchiano.
Perché Sacchi, sia chiaro, ha scritto la storia del calcio: sia per la (breve) esperienza al suo Milan, sia per quello che ha lasciato in dote a tanti allenatori che quel Milan lo hanno studiato per replicarne meccanismi e innovazioni. Ma una contingenza non può diventare una dottrina, soprattutto se fondata su “una delle squadre più forti di sempre”, per citare Van Basten, che avrebbe poi vinto anche senza Sacchi.
Se nemmeno Guardiola vuole essere più un guru (ammesso e non concesso che lo abbia mai voluto) fino al punto di rinnegare il “suo” tiki-taka e anzi di renderne i meriti ai fenomeni del Barcellona e non al proprio genio – il tutto proprio per non essere identificato con una teoria e come un ideologo – Arrigo si trova invece a riptere sempre lo stesso copione, e con la stessa presunzione che lui imputa ai difensivisti di turno, colpevoli di “non fare abbastanza per migliorarsi”. Autoreferenziale e settario come nessun altro, vittima delle sue idee ma, ancor prima, del suo (ormai autoproclamato) culto ortodosso.
BIBLIOGRAFIA
A.Sacchi con Guido Conti – CALCIO TOTALE – Mondadori; Marco Van Basten – FRAGILE – Mondadori; John Foot – CALCIO 1898-2010 : storia dello Sport che ha fatto l’Italia – BUR; Mario Sconcerti – STORIA DEL GOL – Mondadori; Mario Sconcerti – STORIA DELLE IDEE DEL CALCIO – Bladini, Castoldi, Dalai; Roberto Baggio – UNA PORTA NEL CIELO – Tea; Osvaldo Casanova, Gino Cervi, Gianni Sacco – CALCIORAMA – Hoepli; Michele Ansani , Claudio Sanfilippo, Gianni Sacco, Gino Cervi – 1899.AC MILAN. LE STORIE – Hoepli; Tommaso Pellizzari – NO MILAN – Limina; Nicola Calzaretta – ALLA RICERCA DEL CALCIO PERDUTO – GoalBook Edizioni; Gianni Brera – DERBY! – BookTime; Mauro Grimaldi – Storia d’Italia, del calcio e della Nazionale : uomini , fatti , aneddoti – LabDFG; Oliviero Beha , Andrea Di Caro – INDAGINE SUL CALCIO – BUR; Federico Buffa, Carlo Pizzigoni – STORIE MONDIALI – Sperling & Kupfer; Paolo Condò – LA STORIA DEL CALCIO IN 50 RITRATTI – Centauria; Sandro Modeo – L’ALIENO MOURINHO – ISBN; Andrea Bacci – IL BUOI OLTRE L’AZZURRO – Sport.doc; Gianni Mura – Non gioco più, me ne vado – Il Saggiatore; Giancarlo Padovan – Abbasso sacchi, viva Sacchi – Sperling & Kupfer; Archivi Gazzetta dello Sport e Repubblica.
La partita di ieri è difficilmente spiegabile perché, ancor prima, è stata irrazionale: alla fine hanno prevalso la forza del Tottenham e la fragilità del City.