Abituati a vivere di rincorse e abbordaggi, abbiamo ceduto alla paura di vincere.
Cinque sconfitte su cinque partite per l’Italrugby fanno subito pendere la bilancia dal lato sinistro, quello di segno negativo. In un sistema che non premia decoubertianamente partecipazione o impegno, questo dato – stringi stringi – costituisce l’unica cosa che conti davvero.
È soprattutto come siano venute queste sconfitte che lascia un retrogusto amaro, paradossalmente. Abituati purtroppo negli ultimi due lustri a restare in partita per una manciata di minuti appena dopo il fischio d’inizio, il Sei Nazioni 2023 ci ha fatto illudere ad ogni singola partita di poterla davvero spuntare, di poter fare l’impresa, vedendo poi però i nostri ragazzi mancare regolarmente al momento decisivo. Questa è certo la cifra di una squadra giovane (26,4 anni la media del XV titolare contro la Scozia), che solo fra un paio di stagioni raggiungerà il proprio apice in quel rapporto freschezza/consapevolezza che porta una formazione di norma a prevalere, piuttosto che fallire, all’ultima azione di gioco.
Resta questo, però, un aspetto da indagare con estrema attenzione da parte dei responsabili tecnici degli Azzurri, specie ripensando allo psicodramma sportivo consumatosi alla penultima giornata, l’unica che si dovesse assolutamente vincere, in casa, contro un malandato Galles. Abituati a vivere di rincorse e abbordaggi, marchiati con l’etichetta degli eterni sfavoriti e sicuri perdenti, l’Italrugby non ha saputo reggere alla “paura di vincere” che sfiora ogni formazione favorita in partenza.
Contro i gallesi – meno abili a giocare un rugby arioso magari, ma con più chiari in mente gli immutabili principi del gioco: possesso, avanzamento, pressione – si è sbagliato tutto quello che si potesse sbagliare e anche quando la partita sembrava avere comunque mutato la propria inerzia, si è gettata al vento l’occasione di ribaltarla completamente. Era successo anche con la Georgia, in estate, laddove la maggior fame degli avversari aveva mandato in crisi un gruppo che fatica a imporsi quando non deve tentare l’impresa disperata e ribaltare il pronostico.
Un anno fa ci interrogavamo sullo stato dell’arte del nuovo corso azzurro
Se i risultati finali e la maniera in cui questi sono giunti ci restituiscono dunque un’impronta di fatto negativa, l’aspetto al contrario positivo che possiamo individuare è il modo in cui gli Azzurri sono riusciti a restare in partita in tutte e cinque le prestazioni, sino alla fine. Questo è rilevante per due ragioni.
Ragione numero uno: nel momento in cui una maggiore lucidità e mentalità vincente faranno (forse) parte del vissuto di questa nazionale, allora si potrà pensare realisticamente di andare a prevalere ad ogni giornata, come da proclami della vigilia. Ciò che appare evidente è che, se dal 2014 al 2021 il divario fra l’Italia e le altre 5 si era progressivamente acuito, con il movimento nostrano in involuzione e altre realtà invece in costante crescita, oggi la tendenza è opposta, con Galles, Inghilterra e Scozia pienamente alla nostra portata e solo Francia e Irlanda con una qualità generale ancora di fatto superiore, ma pure quelle non più irraggiungibili.
A incoraggiare da questo punto di vista, in prospettiva, sono del resto i risultati della nazionale Under 20, da quattro anni ormai fra le selezioni più competitive a livello continentale, stabilmente superiore a gallesi e scozzesi, di almeno pari livello rispetto alle altre tre.
Ragione numero due: non sono tanto (non solo) le mancate vittorie ad aver fatto parlare, sino alla scorsa stagione, di un’esclusione italiana dal Sei Nazioni, ma proprio la passata incapacità di restare in partita fino alla fine. Il torneo più antico del mondo è, alla base, una piattaforma di intrattenimento che si regge su diritti televisivi e inserzioni pubblicitarie e ha bisogno dunque di confezionare un prodotto accattivante, che mantenga la propria base di pubblico e la allarghi a ogni nuova edizione.
Sapere che l’Italia al 35° minuto del primo tempo sarà già sotto di 30 punti, senza alcuna speranza di risalire la china, spinge “l’utente” medio gallese, scozzese, inglese, ma anche quello italiano, a non collegarsi con la partita o spengere il televisore prima dell’intervallo. La capacità di restare aggrappati al risultato fino all’80° porta semplicemente maggiore interesse e dunque più soldi nelle casse degli organizzatori del torneo (e del fondo speculativo che lo partecipa, CVC Capital Partners).
Da questo punto di vista anche il gioco espresso dagli Azzurri aiuta. Offensivamente l’Italia gioca un rugby nettamente migliore di Galles e Inghilterra: spregiudicato come quello scozzese, ma meno anglosassone e più allegramente imprevedibile, tendenzialmente iperbolico (nel bene e nel male) come tutte le italiane cose. Uno stile perfettamente incarnato dalla faccia pulita, la brillantezza e il coraggio di Ange Capuozzo, adorabile scugnizzo premiato da World Rugby come Breakthrough of the year (Rivelazione dell’anno) per la stagione 2022. Francamente un fuoriclasse, senza la cui assenza nelle ultime due giornate del torneo, probabilmente ora staremmo commentando un altro Sei Nazioni.
Le statistiche
Da ultimo un po’ di statistiche, per riuscire a squarciare il velo spesso fallace delle impressioni soggettive e ricavare qualche elemento invece oggettivo di riflessione.
Si è detto di un buon attacco, ciò non toglie che lavorandoci sistematicamente non possa migliorare ancora. Se guardiamo i metri corsi, l’Italia è al livello dei migliori attacchi del torneo: 3911,6 metri, appena dietro la Scozia (3984,4) e più staccati dall’Irlanda (4285,7). Le palle portate avanti per produrre quei metri sono state 649 (Irlanda prima con 696, Scozia terza con 620). Una attitudine offensiva confermata dall’impianto di gioco: i palloni giocati alla mano sono stati 1587, con l’Italia prima assoluta davanti ancora a Irlanda (1563) e Scozia (1431); i metri percorsi con calci di spostamento sono stati invece 3024, meno di tutte le altre formazioni, con Inghilterra prima (5286,4) e Francia seconda (5129,3).
A conferma ulteriore della scelta filosofica di giocare in tale maniera stanno i passaggi fatti: Italia ancora una volta prima a 974, solite Irlanda (897) e Scozia (851) a seguire. Le mete segnate, tuttavia, ci consegnano il dato di una profonda sterilità offensiva, specie a fronte di un simile sforzo: l’Italia è ultima a 8 segnature (Francia prima a 21, Irlanda seconda a 20, Scozia terza a 17).
Situazione simile per le mischie ordinate, laddove la vulgata ci vorrebbe nuovamente solidi, spesso dominanti, finalmente riconciliati con una tradizione ovale italiana che sino al più recente passato richiedeva alle nostre squadre di essere catenacciaramente composte da “otto uomini che spingono, un’apertura che calcia, due centri che placcano” (cit. Pasquale Presutti, ma avrebbe potuto essere Nereo Rocco se il Paròn si fosse dato al rugby). Qui il dato rilevante è sui calci di punizione concessi in mischia ordinata, sintomo principe della eventuale sofferenza della propria prima linea: Italia primissima con ben 14 penalità, con Inghilterra in veste di più virtuosa e solida (3), Francia seconda (5), Irlanda terza (6).
Proiettati al futuro con uno sguardo al passato
Per comprendere la traiettoria attuale del rugby italiano e immaginare quella futura occorre voltarsi indietro e analizzare l’ultimo decennio (abbondante) di storia ovale nostrana.
L’idea di creare due franchigie che militassero nella allora lega celtica (oggi Pro 14) si è rivelata poco lungimirante, almeno stando ai risultati. Una delle due selezioni è fallita (Aironi) sostituita da un’altra (Zebre) stabilmente in ultima posizione in classifica e con problemi dirigenziali ed economici per ora in parte tamponati. L’altra non è una franchigia, ma la società più ricca e vincente del rugby italiano (Benetton Treviso), che forniva la maggior parte dei giocatori in nazionale prima della Celtic League e lo stesso fa oggi.
L’effetto più rilevante di questa svolta è stato piuttosto il crollo di qualità del campionato domestico (Top 10), con relativo scadimento di interesse di appassionati e sponsor attorno ad esso. Urgono idee su cosa fare di questo contenitore, per allargare la base tanto di praticanti quanto di pubblico (le due cose vanno di pari passo) e per rendere sostenibile l’attività dei club che vi partecipano (il Top 10 è un campionato che costa tanto e non dà ritorni di sorta). Positiva la recente nomina di un direttore del torneo (Marco Aloi), ma dopo questa prima mossa ne occorrono altre.
Gli otto anni di presidenza Gavazzi sono stati poi un flagello, con un calo verticale di risultati, competitività, immagine. Ci si sta riprendendo oggi, ma il terreno da recuperare è molto e nessuno possiede la bacchetta magica. Servirà, ancora una volta, quella pazienza tanto evocata quanto scarsa alle nostre latitudini, insistendo sulla linea tecnica ad oggi in piedi, migliorandola ove serva. Per dire: a quando un “Progetto Scuole” della federazione, strutturale e capillarmente organizzato nei territori, per allargare la base dei praticanti?