Papelitos
14 Aprile 2022

10, 100, 1000 Atlético Madrid

Una squadra che ci ricorda chi siamo e da dove veniamo.

«Vorrei ringraziare le mamme dei miei giocatori per aver messo al mondo dei figli con due palle così». Così parlava Diego Pablo Simeone nel lontano 2014, e a distanza di quasi dieci anni sembra non essere cambiato nulla. Passano le stagioni, cambiano i giocatori ma l’anima dei Colchoneros rimane lì, immortale e immortalata al termine della partita: nell’esausta delusione dei suoi giocatori, nelle lacrime di Griezmann, perché no anche nella caccia all’uomo da parte di Savic proseguita nel tunnel degli spogliatoi; ma soprattutto nel commovente popolo biancorosso, saldato con la squadra in un abbraccio profondo ed orgoglioso, in «una comunione di intenti – per citare ancora il Cholo –davvero difficile da vedere in uno stadio».

«Chi non ha passione e cuore non può giocare nell’Atletico», per dirla invece con Marcos Llorente, uno che dopo l’ultimo impressionante recupero su Foden si reggeva in piedi a malapena. Piegato in due, distrutto dalla fatica.

E pensare che ieri sera, nella bolgia del Wanda Metropolitano, è stato proprio il Cholo a contenere gli eccessi dei suoi: umani, troppo umani, nei vizi e nelle virtù, responsabili di aver trasformato il finale della partita in una rissa stile vecchi tempi. Leggendo sul web sono centinaia, se non migliaia, i commenti che parlano di “Atletico antisportivo”, squadra galeotta, rissaiola, teppista, da anni ’70; pessimo esempio per i bambini, dicono i sommelier del pallone (neanche fossero la moglie del reverendo Lovejoy), e per chi si avvicina a questo meraviglioso sport, sfigurato e calpestato dalle milizie choliste e dai loro crimini contro l’umanesimo del bel gioco. Nulla di cui stupirsi in una società grondante di moralismo e ossessionata dalla violenza, anche semplicemente minacciata o simulata, terrorizzata da qualsiasi manifestazione di vitalismo e arroccata in un perbenismo ipocrita perché infingardo.

La verità è che ci hanno educato così ma l’Atletico è come magma che ribolle nelle viscere della terra, catarsi rovesciata che risveglia quel lato animalesco proprio di ogni essere umano – ormai inibito, represso e addomesticato dalle nostre società. I Colchoneros ci esaltano per lo stesso motivo per il quale ci piacciono i giocatori cattivi: «forse perché la loro incapacità di accettare la sconfitta sia una forma di attaccamento ai nostri colori, di quel senso di appartenenza che nel calcio di oggi è praticamente un’utopia. Forse perché sono gli unici totem che i tempi moderni ci consentono di adorare, l’ultimo segno di simbiosi tra campo e spalti». Perché «non odiano ciò che hanno di fronte, ma amano ciò che è dietro di loro. E così ci ricordano in qualche modo quanto sia ancora bello appartenere a qualcosa e lottare fino alla morte per difenderlo», come scrivevamo tempo fa in questo articolo.



Per quanto possa essere civilizzato, educato, responsabilizzato e ammaestrato, l’uomo resta anche quello: Stefan Savic il bandito – che con quella faccia spigolosa e il baffo da western potrebbe tranquillamente stare in un film di Sergio Leone, seduto al bancone di un saloon quasi ansioso che scatti la prima rissa – il quale si lancia in una caccia all’uomo che dal campo prosegue pure nel tunnel degli spogliatoi. Eccolo lo scontro di mondi e di uomini, altro che Simeone e Guardiola: Savic il manesco (con una sua etica perversa) che strattona Foden il talento, con quel volto glabro e da ragazzino, quando quest’ultimo rientra in campo rotolando dopo la randellata di Felipe per perdere tempo; Savic il rissaiolo, che non si accontenta di scatenare il mucchio selvaggio ma prima imbruttisce e spintona un po’ tutti, poi in un impulso di machismo tira i capelli mechati di biondo al modaiolo Jack Grealish, icona di stile che non potrebbe mai (r)esistere nei ranghi biancorossi.

La buona notizia è che il Manchester City nell’arena ci è sceso, a proposito di catarsi negli inferi: ha partecipato alle risse, ha perso tempo come fosse una provinciale qualsiasi, soprattutto si è difeso nel secondo tempo senza mai superare la propria metà campo. È andato oltre le dichiarazioni un po’ ipocrite del suo allenatore, molto più furbo e pratico di quanto si possa pensare, e ha dato conferma dell’assunto cholista: non sempre vincono i migliori, vincono quelli che lottano. Per questo è stato un piacere vedere finalmente i giocatori del City ricorrere agli stessi mezzi “antisportivi” rinfacciati agli avversari, che da angeli immacolati e profeti del gioco καλὸς καὶ ἀγαθός (bello e buono) si sono trasformati in lottatori, come sottolineato anche da Cambiasso nel post-partita. Per dirla con le parole di Koke in sala stampa:

«Tante volte ci viene rimproverato che perdiamo tempo, che ci buttiamo, che siamo l’anticalcio… Oggi potete tutti commentare quanto avete visto in campo».

Sì perché, viva Dio, il City è stato obbligato a difendersi nel secondo tempo. Di più, a trincerarsi ai limiti della propria area, calato fisicamente e dominato dalla forza di volontà – ma anche dalla qualità – degli avversari. Negli studi di Sky Paolo Condò l’ha riassunta così: «l’Atletico all’andata ha scelto di difendersi, il City al ritorno è stato costretto a difendersi», seppure trovando il disaccordo di chi, come Capello e Cambiasso, è convinto che anche l’Atletico sia stato costretto a difendersi all’andata per via della sproporzione tecnica in campo.

Ma sulla considerazione finale dello stesso Condò, per cui non si possono individuare dottrine valide per tutte le stagioni, il consenso era unanime: «non voglio più dare spiegazioni generali, spiegare scientificamente tutto quello che accade perché non è possibile farlo… insomma, non chiediamoci troppo, non parliamo di modelli». Detto altrimenti il calcio non è una scienza esatta, ammissione pesante da chi confessa candidamente – nello scontro di stili, che deve rimanere estetico e soggettivo –, di preferire di gran lunga Guardiola a Simeone.



Alla fine a molti ha fatto comodo alimentare la guerra di mondi di Simeone contro Guardiola, ma la verità è che come in un cerchio perfetto la doppia sfida si è chiusa su una direttrice comune: prima della partita d’andata, con Guardiola che dichiarava come vincere fosse l’unica cosa importante (alla faccia di Bielsa), e dopo la partita di ritorno, con lo stesso catalano che ha dovuto ammettere: «Non abbiamo avuto altra scelta che difenderci», concludendo abbastanza innervosito: «io sono il primo a dire che il tema dello stile e delle filosofie non mi piace». Nel mezzo qualche scaramuccia – il 5-5-0, la preistoria (su cui hanno ricamato molto i giornalisti) ma anche il malcelato snobbismo di Guardiola e guardioliani – che ha portato Simeone, dopo i complimenti agli avversari che “sono stati migliori perché hanno segnato”, a togliersi giusto un sassolino dalla scarpa:

«coloro che hanno un grande lessico sono molto intelligenti, e riescono a lodarti con disprezzo. Quelli come noi, con meno lessico, non sono però così stupidi».

L’ennesima rivendicazione della prassi contro la teoria, della legge della strada (e del campo) contro quella delle università. Reazione comprensibile di chi da anni viene accusato di essere brutto, sporco, cattivo, a volte anche impreparato e ottuso – pensiamo a Sacchi, che ha rimproverato Simeone di non studiare abbastanza solo perché non propone un calcio offensivo. Il Cholo si rinfranca parlando da capopolo e rivendicando che il suo, come fatto più volte, è effettivamente l’equipo del pueblo: il basso contro l’altro, il parvenu che non sarà mai completamente abbondato dalla sua condizione precedente, quella di materassaio, e dal suo peccato originale, quello di essere un catenacciaro; una squadra di scamiciati che nei salotti in smoking del calcio mondiale verrà sempre vista con sospetto, tra brusii di disapprovazione e silenzi imbarazzati.

Oltre alle parole però, alle rivendicazioni di parte, alle (non) dottrine, il punto è che ognuno dei due allenatori aveva un piano nei 180 minuti per passare: in questo piano il gioco era un mezzo, non un fine; l’effetto estetico, non la causa etica; una scelta “obbligata” anzi la scelta obbligata (secondo gli allenatori) per arrivare al risultato. E allora non può che farci piacere che il City ieri abbia fatto un po’ l’Atletico, riscendendo dall’iperuranio sulla terra con tutti i compromessi e gli adattamenti del caso. Serve anche questo, per vincere: anche sia chiaro, non solo, parola ormai in disuso nel dibattito chiassoso tra opposte tifoserie. Perché il calcio non è scienza ma pure se lo fosse, come diceva il grande fisico Oppenheimer, «nella scienza non può esserci spazio per i dogmi. Mai».

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