Gli Internazionali d'Italia si terranno a settembre, e sarà tutto diverso.
Sono quasi le sette di sera e il cielo su Roma è appassionato. Le statue degli atleti, finché possono starci, stanno intorno il Pietrangeli, lo Stadio dei Marmi. Giacciono sotto il Monte Mario e si tingono di rosa come le Dolomiti quando il sole cala. Si leva il primo ponentino, malandrino, e ti carezza dopo una giornata di sole intontente, il profumo del falso gelsomino è ovunque, l’aria ha un sapore.
Agli accrediti sul lungotevere c’è fila, in una città dove tanti possono ma nessuno vuole pagare. I primi cazzabbubboli parcheggiano chiassosi i motorini, sciocchi che barattano drink annacquati e pischelle truccate male con il tennis – convinti che gli Internazionali siano una settimana di serate in discoteca. I pini fanno contrasto al tramonto, le statue diventano grigie, a breve inizia un match di cartello.
Siamo tutti vestiti di bianco per scimmiottare Wimbledon. In Tribuna Autorità c’è il simulacro Malagò, politici, qualche generone, calciatori annoiati. Un decimo del pubblico conosce le regole, gli altri nove faticano a tacere, lo slam rosso è finito e la settimana dopo c’è il Roland Garros: la sensazione è che nessuno faccia sul serio.
Donne, uomini, doppi, juniores, pochi vogliono competere. É per spirito, non per sport. Gli organizzatori fan tutto all’italiana, si vedono come il quinto slam. D’altra parte i giocatori amano venire a Roma, c’è un calore anomalo, ci sono i campi secondari più belli del mondo, una città che li coccola.
Per questo gli Internazionali sono come la città che li ospita: necessari. Sono le otto e il cielo è indaco, le statue riprendono il marmo, i pini sono neri. Stiamo lì per vedere qualche sprazzo di bellezza, per vivere l’esperienza religiosa di Wallace mentre Roger se ne sta candido a patire la terra rossa.
Vengono tutti da Montecarlo, da Madrid, la settimana dopo saran tutti a Parigi: è una miniatura di dolce vita, un affresco impolverato di anni sessanta, tutti in quei giorni vogliono solo star bene o ricordarsi di quando ci stavano. Il ponentino, che è lo zefiro, Ovidio lo chiamava fevonio, perché era favorevole. Il vento che porta la primavera, che scaccia il letargo, che dispone l’animo.
Il tennis c’entra poco o forse c’entra tutto, perché non conosco posto e stagione che non sia Roma a maggio per giocare a questo gioco e non c’è altro posto che non sia il Foro che regali questa scenografia. C’è il tempio laico dell’All England, e lo sappiamo tutti, con liturgie e vezzi che solo gli inglesi potevano codificare. Ma se Londra è lo zenit della stagione, Roma il degno primo atto.
Il tennis a Roma è in pace, climaticamente al suo posto, acquietato da quelle luci. Tutto intorno è teatro, le persone, gli scorci, le contraddizioni di questa babilonia che ama e respinge. Lo sport è laterale, quasi sempre non c’è tensione agonistica neanche in finale. Vedi l’Olimpico che dorme sullo sfondo e lì, che le tragedie si sono consumate, lì che abbiamo pianto, tutto quel lì stride con questa settimana di simulazione.
Il pubblico presenzia ignaro di essere protagonista di tutta questa forza espressiva, di questa cartolina, di questa semiotica di tutto quello che Roma è e sempre sarà. Gli Internazionali d’Italia sono un principio estetico e stanno al tennis come il mese di maggio sta a Roma. É un rapporto indissolubile e nessuno può permettersi di minacciarlo. Quando esausto la sera lasci il Foro, e l’umidità risale dal fiume, e la brezza asciuga, e senti quella primavera, ma la senti dentro, capisci che le giornate migliori dell’anno stanno arrivando. Il tennis è primavera.
Prima che diventasse una partita a scacchi, uno scontro cervellotico tra macchine, il tennis era diletto perché dei dilettanti, era pigro, era giocare con la vita. E così a Roma ritorna in tutta la sua purezza, sotto quell’orgia di odori e colori tutto scorre indolente. Il Foro Italico impunito esplicita il razionalismo fascista che per noi di politico non ha nulla, è soltanto uno dei presepi dove siamo cresciuti.
«che dilizia! senti quer ventarello /
salato, quer freschetto fino fino /
dell’onne, che le move er Ponentino /
che pare stiano a fa’ nisconnarello»
Questo tennis così ingenuo è la primavera a Roma che già vuole essere estate. In una città che detesta le altre tre stagioni, gli Internazionali sono l’ouverture di un momento che i romani vorrebbero perenne. E sono l’apertura dell’unica stagione del tennis.
Incontri Panatta, che è sineddoche di Ventotene, e ti sforzi di immaginarlo vestito invernale. C’è Pietrangeli e pensi che non possa avere un senso fuori dall’estate. Vedi le tribune e capisci che tutti pensano solo e soltanto al mare.
É questione di atmosfera. Quando si ammassano le nuvole nere, e arriva uno sgrullone, si alza il petricore da terra, i pini odorano di estate; marmo bagnato, terra rossa, la collina coperta, i campioni smarriti: tutto è perfetto anche sotto un temporale estivo.
É una gioia cromatica che si può creare solo in quei giorni dell’anno, che non ha possibilità di replica. Il tennis sornione, gli atleti che si ubriacano di Roma, tutto per una settimana è sospeso. A maggio e a Roma, non sarebbe la stessa cosa altrove.
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