La svolta green rischia di snaturare la Formula 1 (e non solo).
L’unica emozione il Gran Premio di Abu Dhabi l’ha regalata di venerdì mattina, quando le vetture dormivano ancora nei garage e il paddock stilava il consuntivo della stagione che volgeva al termine. Un solo box con le luci accese, quello della Renault. Nè Ricciardo né Ocon ma Fernando Alonso. In attesa del ritorno in griglia, lo spagnolo si rimetteva al volante della vettura con cui conquistò il mondiale nel 2005. Il rombo della vecchia R25 ha evocato antiche suggestioni.
«Penso che non solo ai tifosi, ma a tutti nel paddock, manchi questo suono. Ci manca la Formula 1 di cui ci siamo innamorati quando eravamo bambini e guardavamo la televisione», ha commentato Alonso dopo l’esibizione.
Negli ultimi anni l’evoluzione del motorsport ha seguito un percorso ad ostacoli. Due i punti cruciali attorno ai quali ruota il futuro dei motori: ambiente e sostenibilità. Tra questi ne è spuntato un altro, ovvero il silenzio. Una F1 poco rumorosa è un po’ come abbassare il volume della chitarra di Jimi Hendrix. Privare un qualcosa della sua stessa essenza.
La Formula 1 odierna ha obiettivi ambiziosi. Innanzitutto offrire un prodotto altamente spettacolare, quindi ridurre le emissioni di CO2 e abbattere i costi per facilitare l’ingresso di nuovi costruttori. Anticipare e guidare il cambiamento piuttosto che seguirlo. Una strategia messa a punto per schiodare le corse dall’impasse e alimentare un business che si è fatto di colpo meno allettante rispetto al passato.
Il nodo è rappresentato dai motori odierni. La svolta turbo-ibrida del 2014 è arrivata ad un punto di non ritorno: sette campionati mondiali, tutti conquistati da Mercedes (sei con Hamilton e uno con Rosberg) e un parco di motoristi ridotto all’osso. Con l’addio annunciato di Honda a fine 2021, resteranno soltanto tre case, vale a dire Mercedes, Ferrari e Renault. I motivi dell’esodo dei costruttori sono da cercarsi negli alti costi dei motori ibridi, oltre che nella loro complessità. L’automobilismo, e la F1 in particolare, ha raccolto la sfida lanciata dal mercato dell’auto. La rivoluzione dell’ibrido ha costretto le case ad investimenti enormi e complesse riorganizzazioni.
Nonostante le criticità emerse negli anni, la FIA ha deciso di proseguire nel percorso green confermando gli attuali propulsori anche dopo il 2025 (scadenza fissata dagli attuali regolamenti). Entro il 2023 la Federazione ha inoltre fissato l’obiettivo di utilizzare carburanti sostenibili per alimentare i motori endotermici (i sei cilindri turbo), combinati con la tecnologia ibrida.
Quello minato delle power unit moderne è l’unico terreno percorribile da FIA e Liberty Media, e la Formula 1 ha deciso di assumersi la guida del cambiamento globale del settore automotive.
«Crediamo – si legge in una nota della FIA – che, dal momento che degli 1,1 miliardi di veicoli al mondo, circa un miliardo è spinto da un motore endotermico, abbiamo il potenziale per fare da pionieri introducendo tecnologie che riducano le emissioni di carbonio a livello globale».
La FIA punta quindi a trasformare il propulsore ibrido alimentato da carburante sostenibile in una «pietra miliare sia per la categoria che per il settore automotive». Nessun ripensamento, e lo stesso addio di Honda alla Formula 1 non sembra aver scalfito le certezze consolidate nei palazzi dell’automobilismo: troppi costi da sostenere (sviluppa i motori per Red Bull e AlphaTauri) e poche possibilità di crescita, dato lo stradominio Mercedes. Uno scenario che scoraggia anche nuovi attori ad affacciarsi in quel complesso mondo che è diventata la F1. Per questo ad esempio la casa nipponica, ultima tra quelle attuali a sbarcare in F1 nel 2015, ha deciso di concentrarsi sugli investimenti sulle auto ad idrogeno, in una partita già avviata contro la connazionale Toyota.
I motori turbo-ibridi hanno scavato un solco tra le forze del circus, e la cosiddetta rivoluzione green ha dotato Mercedes di un vantaggio competitivo irraggiungibile per la concorrenza. Vuoi per know how, vuoi per investimenti pregressi, la casa di Stoccarda è stata l’unica a farsi trovare pronta nel momento del cambiamento: un concentrato di tecnologia che ha permesso a Mercedes di sollevarsi dal pantano dei nuovi regolamenti e al suo asso, Lewis Hamilton, di inanellare successi su successi fino ad eguagliare sua maestà Schumacher.
Eppure il turbo-ibrido pare una soluzione obbligata per la Formula 1 del futuro. Un ritorno ai motori aspirati sarebbe affascinante ma poco in linea con la vision del circus, sempre più orientato a seguire le orme e i diktat dei mercati. Scartata (almeno per il momento) anche l’ipotesi del “full electric”, per cui esiste già una declinazione sportiva nella Formula E. Chi ha sventolato il vessillo del romanticismo è il caro Bernie Ecclestone che, dall’alto dei suoi 90 anni, si è fatto portavoce dell’ampio partito dei nostalgici:
«Rispolveriamo i vecchi motori aspirati», ha detto in un’intervista a Motorsport Magazine, «Tutti li hanno pronti, i costi andrebbero giù, il rombo tornerebbe, e potremmo usarli per cinque anni mentre prepariamo il propulsore del futuro. La F1 non deve avere un ruolo guida per l’industria dell’auto. Le persone lo dimenticano, ma la Formula 1 è intrattenimento, un businness, e quando smetti di divertirti finisci anche col business».
Un endorsement che ribadito la centralità del fattore sportivo della Formula 1, avviata ormai ad una deriva espansionistica verso lidi differenti dai convenzionali. La Formula 1 è infatti snaturata e rischia di snaturarsi ancora di più. La rincorsa ai trend del mercato non ha avvicinato i colossi dell’automobile, e nell’ultimo decennio hanno salutato BMW, Toyota, Cosworth e Honda. Dei grandi gruppi è presente nel paddock il solo FCA con Ferrari e Alfa Romeo, con il Biscione soltanto come brand ma non come costruttore. Una trovata, partorita dal compianto Sergio Marchionne, che ha agevolato anche il ritorno Aston Martin, che da quest’anno dipingerà di verde la livrea della Racing Point.
Non se la passa meglio nemmeno la giovane Formula E: qui infatti, al termine della stagione 2021, saluteranno Audi e BMW. La pandemia si è abbattuta anche sul giovane mondo del full electric, alimentando le preoccupazioni per il futuro a medio-lungo termine (il dietrofront di Audi e BMW potrebbe infatti spingere altri marchi all’addio). La casa dei quattro cerchi punta alla Dakar e alla 24h di Le Mans, mentre da Monaco di Baviera hanno spiegato come siano esaurite le possibilità di trasferimento tecnologico tra le conoscenze apprese in pista e la produzione di serie.
Come a dire, e qui sta un altro fattore critico, che l’elettrico è ormai una tecnologia satura per la crescita del settore.Lo stesso dicasi per Honda che, con l’addio alla F1, ha deciso di puntare sull’idrogeno considerando ormai superata la fase di sviluppo della tecnologia ibrida: materiale di riflessione per i vertici dell’automobilismo.
Iventi dell’ecologia, però, soffiano anche in altre categorie simbolo del motorismo. L’IndyCar ha fissato al 2023 l’anno della svolta, la DTM inizierà quest’anno e ha in cantiere un progetto ambizioso per il futuro. Già ad ottobre 2019 il presidente dell’Irt (società che gestisce il campionato DTM), Gerhard Berger, ha svelato un concept di supercar del futuro: motori completamente elettrici da 1000 cavalli in grado di spingere a oltre 300 km/h, alimentati a idrogeno. L’elemento che più colpisce è il cambio di batterie con pit-stop effettuati da robot.
Molte sono le domande da porsi. La Formula 1, e il motorsport in generale, sono davvero pronti a sobbarcarsi i destini dell’intero settore automobile? In uno scenario complesso e variegato come quello odierno è così indispensabile seguire la strada dei mercati sacrificando quella maestra, ovvero lo sport e la competizione?
Il fallimento dell’attuale Formula 1 è costituito dal tentativo andato a vuoto di trovare una sintesi ad un modello di business eterogeneo.
Racchiudere sport e progresso, con la variante ecologica che assume sempre più i contorni di una spada di Damocle, si sta rivelando un processo dannoso per il fascino di uno sport che ha sempre vissuto di sana competizione. Quella che oggi, neanche a dirlo, manca terribilmente.