Nella morte una promessa eterna di vita.
Sull’asfalto del circuito di Imola ci sono ancora i segni di quel 1° Maggio del 1994. Una curva a sinistra velocissima, la curva del Tamburello, e la Williams FW16-Renault livrea Rothmans lanciata a 310km/h che, al settimo giro di gara, esce dal tracciato per un cedimento strutturale di quello che è lo strumento di precisione di un pilota, lo sterzo, modificato durante la notte per una maggiore ergonomia nell’abitacolo. A seguito dell’impatto con il muro, il puntone della sospensione destra anteriore trafigge come una spada la visiera del casco e il destino gioca la sua parte. Dentro a quella monoposto, dentro a quel casco giallo, c’era Ayrton Senna, non si sveglierà mai più.
Fu una morte tragica e potente, in diretta mondiale, che cambiò le sorti della Formula 1. I funerali in Brasile furono una cerimonia di Stato: in patria Ayrton era considerato un eroe sportivo, un benefattore, quasi una personalità politica tanto era il suo peso nell’immaginario collettivo. Un uomo che non solo rese grande il suo Paese e illustre la sua bandiera nel primo mondo, ma anche un uomo che non dimenticò mai le sue origini e si impegnò in opere di beneficenza per aiutare chi, a differenza sua, non aveva la fortuna di nascere nelle classe benestante.
Il suo carisma emerse così non solo dal suo essere pilota di Formula 1, ma dal come interpretò quel ruolo.
Senna fu genio automobilistico straordinario: il talento per eccellenza, secondo la gran parte dei piloti tutt’ora in attività. Il pilota dei tifosi ma anche il pilota dei piloti, appunto; una peculiarità unica se non altro per l’estremo individualismo caratteristico di questo mestiere, “driver’s ultimate driver” come lo definisce Jeremy Clarkson. A questa genialità nella guida dell’automobile, “Magic” abbinava una feroce aggressività in gara e un agonismo alle volte spregiudicato, tale era la fame di vittoria, ma anche una placidità estetica unica, un senso della misura e una emozionalità coinvolgente ogni volta che comunicava, nelle interviste, in pubblico e in privato.
Ayrton Senna esprimeva al meglio la bellezza etica ed estetica di essere pilota: un’esistenza piena di colori forti, passionali, violenti e insieme gentili, equilibrati, quintessenza di quello che tutto è fuorché uno sport da “matti”. Passionale e intransigente, severo con sé stesso, un eterno contrasto tra caos e ordine, furia e calma. Andava oltre lo sport per toccare le corde più umane, con lo sguardo feroce e malinconico di chi desiderava riscattarsi da qualcosa, rivoluzionare un’esistenza. Conservava in sè e trasmetteva un mistero profondo.
Riusciva ancora, con il suo carisma, a ispirare quell’epica cavalleresca degli eroi ancestrali della velocità: quelli immaginati dal futurismo italiano, l’uomo nuovo che dominava la macchina con il cuore e la ragione, un uomo degno di gloria e, forse proprio per questo, degno di una morte precoce. Una morte che lo liberasse dall’eccesso di vita e dal senso di tormento che lo distingueva dagli altri, come se stesse mirando a qualcosa, come fosse nato per inseguire quel qualcosa mai chiarito.
«La sua morte, per quanto tragica, è una compiuta vittoria. La bellezza dovrebbe morire giovane, tutto il resto che viva il più a lungo possibile».
Forse è proprio come scrisse Yukio Mishima in ‘Star’ (racconto pubblicato da Gunzo, rivista letteraria edita da Kodansha, nel 1960) a proposito di James Dean. All’epoca Mishima si era innamorato della incredibile e tragica storia del “ribelle senza causa”, morto a soli 21 anni al volante di una Porsche 550 Spyder. Mishima e Senna non si incontrarono mai: il primo morì quando Ayrton aveva 10 anni, ma il brasiliano attraversò un’esistenza e una morte che avrebbero sicuramente ispirato Mishima, così tormentato se non ossessionato dal tema della morte eroica sia a livello personale che artistico.
«Le condizioni necessarie a una morte precoce sono crudeli. Intanto, devi essere perfetto per il ruolo; il caso, poi, deve fare la sua parte, deve glorificarti». E come James Dean, Ayrton Senna ha realizzato in modo impeccabile entrambe le condizioni. Aveva una sensibilità eccezionale e un’espressione che incarnava il suo modo di vivere: un modo mistico, la statura di una bestia giovane, contratta nell’angoscia, che si scrolla, come se le braccia fossero ferite, con un sorriso oscuro e infantile.
«Una vita a cui basti trovarsi faccia a faccia con la morte per esserne sfregiata e spezzata, forse non è altro che un fragile vetro».
Gli anni a venire avrebbero portato Senna a smettere di correre, a ritirarsi a vita privata, forse a scrivere romanzi, chissà, o nel più malaugurato dei casi a diventare opinionista di un motorsport involuto a tal punto da perdere il senso del suo scopo diventando poco più di uno show, in cui l’adrenalina viene iniettata con una siringa e non prodotta dal cuore dei piloti. Chissà come la vivrebbe oggi, passati i 60 anni. Non c’avrebbe azzeccato niente, oggi, Ayrton.
Un uomo che non ebbe paura della morte perchè il faccia a faccia con essa era ciò che lo faceva vivere e vincere. Ayrton non solo produsse arte attraverso la guida, ma fu un’opera d’arte in persona, consegnandoci il sapore amaro dell’emozione ma anche la forza dell’ispirazione, trasmettendoci i suoi contrasti più profondi e malinconici: quella sospensione che ci tiene in vita, una sensazione perfettamente rappresentata da “A Morte”, la colonna sonora finale del film di Asif Kapadia. Così morì Senna da Silva, prediletto degli dèi, risparmiato dal declino della vita e della Formula 1.