29 marzo 1984, il grande trionfo europeo prima del declino.
Scrivere di una squadra che non esiste più mette quasi i brividi. Specie se quella squadra è stata la prima a portare benemerenze sportive di livello internazionale alla città di Roma. Non solo Roma campione d’Italia, d’Europa e del mondo nel basket ma una convergenza di fatti e di uomini difficilmente riproponibile. In particolare in una fase sociopolitica come quella attuale. E in una città poco e mal rappresentata dallo sport.
29 marzo 1984. Fa un freddo polare quella sera a Ginevra, ma c’è un motivo per essere presenti al Patinoire des Vernets. Il Barcellona e il Banco Roma campione d’Italia in carica stanno per giocarsi la Coppa dei Campioni. Il Banco, che un anno prima neanche sapeva cosa fossero i play-off, è cresciuto in fretta. Mentre in campionato vivacchia a centro classifica, forse troppo appagata dal titolo 1983, la squadra punta tutto sull’Europa. Passa i turni eliminatori contro i lussemburghesi del Dudelange e gli albanesi del Partizani Tirana. Senza patemi.
Nel girone finale ci sono Limoges, Maccabi Tel Aviv, Bosna Sarajevo, Barcellona e Jollycolombani Cantù. Le prime due classificate si ritroveranno in finale. Il quintetto romano comincia con una vittoria a Limoges (76-74). Segue una sconfitta a Barcellona. Quando Cantù vince al PalaEUR 85-86, le cose si complicano e diventano ancor più difficili dopo la sconfitta a Sarajevo contro il Bosna. La classifica di quel momento dice: Barcellona e Jollycolombani 8, Bosna 6, Bancoroma 4, Maccabi e Limoges 2.
I calcoli sono semplici: per andare in finale il Banco deve vincerle tutte.
Battuto il Limoges a Roma, la squadra resta in vita. A tre giornate dalla fine la classifica è cambiata: Jollycolombani 10 Barcellona, Bancoroma, Bosna 8, Maccabi 6, Limoges 2. Il Banco deve affrontare la trasferta di Cantù. Nelle coppe europee la Jolly non perde in casa da otto anni. Eppure i romani disputano la migliore partita della stagione. Poi vincono anche a Tel Aviv con il Maccabi e nell’ultima giornata piegano il Bosna Sarajevo in casa.
La classifica è stata ribaltata. Il Banco è in finale ed è la prima squadra nella storia della Coppa dei Campioni ad arrivarci da esordiente. Vincendo, potrebbe fare da apripista alla A.S. Roma, che poco alla volta sta conquistandosi il diritto di disputare la finale di Coppa dei Campioni calcistica. È un buon momento storico per la Capitale, l’Italia stessa si sta rialzando rispetto agli “anni di piombo” e mostra le sue migliori energie proprio grazie allo sport.
Se la Roma ha trovato il proprio leader in Paulo Roberto Falcao, il Banco ha come punto di riferimento tecnico ed emotivo un play-maker di straordinario carisma: l’americano Larry Wright. Se gira lui, come per incanto gira la squadra. Dopo l’impresa di Cantù i “bancari” sono felici ma negli spogliatoi la festa finisce quasi subito:
«Sto male, ho una frattura, devo andare in America a curarmi. Non so mica se giocherò la finale».
20 giorni prima della finale, Wright parte per gli USA. Secondo i medici americani ha una frattura al collo del piede sinistro, secondo quelli italiani non ha nulla che possa impedirgli di giocare. Il tira e molla a mezzo stampa che si viene a creare ha momenti poco gradevoli. Alla fine, il 28 marzo Larry Wright si unisce al gruppo.
Il Barcellona è un’avversaria fortissima e di grande esperienza. Il playmaker Solozabal e la guardia San Epifanio sono colonne della Nazionale spagnola. L’ala Sibilio, dominicano naturalizzato, fa spavento anche solo a guardarlo. Sotto i tabelloni ci sono due americani molto forti: Marcellous Starks, ex Fortitudo Bologna, e Mike Davis, che per tre anni aveva giocato proprio a Roma. Un calciatore del Barcellona, un certo Diego Armando Maradona, vuole dire la sua:
«Non me la perderò per niente al mondo. Ammiro il Banco di Roma, è una squadra che difende bene, come le italiane nel calcio. Mi incanta la fantasia di Larry Wright. So che sta male, ma sono sicuro che giocherà. Non si rinuncia a una finale così. Ma sono certo che vincerà il mio Barcellona».
Dalla Catalogna partono quattromila tifosi e da Roma, anzi da tutta Italia, pochi di meno. Più di tremila connazionali giunti in Svizzera con ogni mezzo costituiscono la più grande trasferta internazionale mai affrontata per una squadra romana non di calcio. Il Banco Roma è una squadra costruita nel corso degli anni con economia e molto occhio lungo. Quando nel 1982 il presidente Eliseo Timò sceglie come coach Valerio Bianchini ha già preso una decisione chiara: basta vivacchiare a metà classifica, è tempo di vincere.
Una rosa di quasi tutti romani (Gilardi, Polesello, Sbarra, Castellano) fa il salto di qualità con un allenatore vincente, un’ala come Marco Solfrini (1958-2018) e due americani talentuosi e funzionali come Larry Wright e Kim Hughes (poi sostituito dal connazionale Clarence Kea). L’anno dopo arrivano Tombolato e Bertolotti ad ampliare un gruppo più che valido.
Mediocri nella regular season 1993-84, eroici in campo europeo. Mercoledì 29 marzo il Patinoire di Ginevra cambia pelle: non più palaghiaccio ma per una sera rettangolo di pallacanestro ai massimi livelli continentali. Diretta tv su Raitre e su Telemontecarlo. Radio Uno trasmetterà la più lunga radiocronaca di basket della storia. L’inizio è tremendo. Il Barcellona vola a +13 trascinato da San Epifanio e solo grazie a un sussulto di orgoglio il Banco riesce ad andare negli spogliatoi sotto di 10 punti (32-42). Su cosa accade nell’intervallo, è stato detto, scritto e ipotizzato di tutto. La leggenda vuole che Larry Wright, strappando la lavagnetta dalle mani di Bianchini, abbia detto:
«Coach, tranquillo: vinciamo noi. Ci penso io».
Anni dopo, Bianchini tornerà sull’argomento, fornendo una versione differente: «Noi allenatori, seguiti dai giocatori, ci avviavamo verso lo spogliatoio. Ed ecco che la nostra strada è attraversata da un dirigente del Barcellona, con in mano alcune bottiglie di champagne. Non solo, vedo Larry che si sofferma ad ascoltare le parole che gli sussurra nell’orecchio Mike Davis: “Ehi Larry, mi sa che stavolta il premio non lo becchi”. Larry entrò per ultimo nello spogliatoio, sbattendo la porta con violenza, il viso contraffatto, gli occhi di fiamma e il ghigno bianchissimo sul suo volto nero».
«Esclamò con ardore una serie di frasi nello slang della Louisiana di quelle che noi allenatori non capiamo e siamo contenti di non capire. Poi raccontò l’episodio agli altri e le parole ebbero un potere detonante, molto più delle indicazioni tecniche che avevo in mente per raddrizzare la partita».
A volte nello sport sono i piccoli episodi che fanno la storia. Nel secondo tempo Wright prende il pallone e non lo fa vedere più a nessuno, compagni o avversari che siano. Guida la squadra alla rimonta, al pareggio, al sorpasso. Ma gli ultimi punti arrivano da un tiro sghembo di Gianni Bertolotti e dalla freddezza di Stefano Sbarra, che a 22 anni entra in campo senza paura. Kea e Polesello vincono la lotta ai rimbalzi con Starks e Davis, Gilardi segna poco ma manda fuori giri San Epifanio e lo fa uscire per falli, Solfrini annulla Sibilio e segna due canestri risolutivi. Decisivo Tombolato. Finisce 79-73, con tanto di invasione di campo, ma non è solo la vittoria di un fenomeno, per quanto capace di fare 27 punti.
È la vittoria di una squadra in cui ognuno ha messo tutto ciò che aveva e che serviva per vincere. Ma è finalmente la vittoria di una città abituata da sempre a fare numero legale alle imprese degli altri. A settembre 1984 il Banco vince la Coppa Intercontinentale in Brasile e sale sul tetto del mondo.
Ancora oggi, se a Roma nomini il Banco a chi l’ha vissuto in quegli anni, non ti dice «Ah, lo scudetto… ah, le coppe…». Ti dice: «Ah, che squadra…». Ragazzi romani, altri che lo divennero, un grande campione, un altro americano cui non si poteva che voler bene nonostante il carattere, un allenatore che sapeva parlare al cuore. Tutti fattori che danno alla storia i crismi dell’unicità. E non è vero che ancora oggi se ne parla perché in quasi 40 anni nessuno ha più realizzato un ciclo simile di successi partendo dall’incredulità generale. Se ne parlerebbe allo stesso modo. Sono cose che restano.
Senza un progetto e senza la passione necessaria si possono evitare errori gravi, ma poi le rivoluzioni le fa qualcun altro. E quella del Banco fu rivoluzione.
Il fallimento della società Virtus Roma nel 2020, una ferita ancora aperta per una città costretta a subire l’ennesimo depauperamento in ambito sportivo, rappresenta semmai il Congresso di Vienna. La fine di un sogno che forse un giorno potrà anche tornare ma non essere più lo stesso. Per rivivere dopo la morte bisogna innanzitutto risorgere, e a quanto pare finora un’impresa del genere è riuscita a una sola Persona. O almeno questo ci hanno sempre detto. E adesso la società potrà ripartire dal campionato di Promozione. Sempre che esistano una volontà in tal senso e qualcuno disposto a ripartire da zero.