Le corti dei baristi come crocevia del nostro vivere sportivo.
Ci siamo quasi. Domani arriverà il momento che tutta Italia, da Bolzano fino a Lampedusa, aspetta da oltre due mesi (ndr, articolo scritto in data 17/05/2020): la completa riapertura dei bar. Se durante questa benedettissima fase 2 ci siamo accontentati di consumare il caffè, il cornetto o la pizzetta lontano dal bancone – in solitudine d’asporto, salutando fugacemente il nostro barista di fiducia al momento del pagamento, manco fosse uno sconosciuto – l’inizio di settimana alle porte ci consentirà di riappropriarci delle nostre postazioni. Sì, finalmente torneremo a popolare i bar. Mascherati, ma comunque entusiasti.
Perché al bar, un’istituzione tutt’altro che grigia, bensì coloratissima, ci sentiamo liberi come da nessun’altra parte. Crocevia delle nostre esistenze, in città come in provincia, il bar accompagna le frenetiche giornate di milioni di italiani dalla notte dei tempi. Se nel traffico e per le strade attraversiamo il mondo con indifferenza alienata, è al bar che ritroviamo noi stessi rapportandoci con l’altro. Un presidio di spensieratezza, sul quale poter fare sempre affidamento, che scandisce non solo i ritmi della quotidianità ma anche quelli del vivere sportivo (momentaneamente perduto). Già, il bar sport. Tappa fissa prima e dopo ogni partita di campionato, è questo il luogo perfetto, assieme allo stadio, per celebrare la liturgia del tifoso.
«È qui che c’è il gusto della battuta, dell’invenzione, è qui che c’è il sapore delle comunità di una volta. Quei convivi pre-televisivi, volgari o nobili, ma comunque autoprodotti, dove ognuno era attore e spettatore.» (S. Benni)
Il bar sport ha permesso ad intere generazioni di estraniarsi dai rumori e dalle responsabilità delle proprie vite, riconducendole a una dimensione fanciullesca e scanzonata. Porti di mare che raccolgono vari tipi di umanità, i bar sport di tutta Italia sono sinonimo di cori e risate ma anche di quel silenzio necessario per ascoltare e raccontare, come sottolinea efficacemente il maestro Stefano Benni.
Stare insieme e divertirsi: un vero e proprioinno libertario che annulla ogni genere di differenza anagrafica e sociale, capace di rallentare l’implacabile scorrere del tempo. Parole d’ordine universali, queste, per tutti coloro i quali frequentano abitualmente le corti dei baristi. La vocazione comunitaria d’altronde è un tratto distintivo del nostro popolo. E guai a dimenticarsene!
Il bar sport ci ricorda qual è il sapore della felicità e dell’euforia, che risiede nelle piccole, grandi cose. Ma, a pensarci bene, ci ricorda anche il significato della tristezza e della depressione. Stati d’animo trasversali fanno da cornice a esperienze ugualmente considerevoli. Che vinca o che perda la nostra squadra, noi andremo al bar sport. Che ci faccia vivere la notte più bella della nostra vita o che ci lasci miseramente (la morosa, non la squadra, che è una sicurezza granitica), noi andremo al bar sport. Che ci aumentino lo stipendio o che ci caccino dall’ufficio, noi andremo al bar sport. Fiumi di caffè, birra e fernet, misti a fumo di sigaretta e risate, scorrono lieti nella buona e nella cattiva sorte.
Eravamo quattro amici al bar
Che volevano cambiare il mondo
Destinati a qualche cosa in più
Che a una donna ed un impiego in banca
Si parlava con profondità di anarchia e di libertà
Tra un bicchier di coca ed un caffè
Tiravi fuori i tuoi perché e proponevi i tuoi farò.
(Gino Paoli, “Quattro amici al bar”, 1991)
Ah, il barista: è lui il primo ad alimentare il clima di ruvida familiarità nel locale. Padre del bar sport, tratta tutti i fedelissimi clienti come se fossero suoi figli. Perché, in fondo, è così: le sue mura sono una seconda casa. Cerimoniere d’eccezione, all’occorrenza tenero confessore, mai giudice: il barista di fiducia è una figura imprescindibile nella vita degli italiani. Le sue battute sono tendenzialmente esilaranti, ma quando non lo sono affatto la prassi impone lo stesso una risata.
Al bar sport si gioca a tutto e ci si gioca di tutto: dadi, schedine, carte e biliardo non possono mancare. Come immancabile è anche una copia de “La Gazzetta” o del “Corriere”, dipende da dove vi troviate: giornali sportivi denigrati dagli appassionati avventori che, una volta giunti al bar, incredibilmente, finiscono per contenderseli. Sarà che son gratis.
Il giorno della partita, ad ascoltarlo, le squadre non dovrebbero scendere neppure in campo: è già tutto scritto. Eccolo, il mitomane del bar sport. Quello spernacchiato dalla maggioranza, quello che, con le sue profezie puntualmente disattese, fa colore. Non è un caso che sia il cliente più coccolato dal barista: ogni bar sport ha bisogno di personaggi da romanzo.
A muoversi sulla sua scia c’è il rivoluzionario del bar sport: scalmanato tutto fumo e niente arrosto che ogni domenica predica cambiamenti drastici di governo, di formazione della squadra del cuore, di vita tout court. Adorabile, ma anche patetico. Come adorabile e patetico risulta il tecnico o “tennico”, Benni dixit:
«È l’asse portante di ogni discussione da bar. Ne è l’anima, il sangue, l’ossigeno. Si presenta al bar dieci minuti prima dell’orario di apertura: è lui che aiuta il barista ad alzare la saracinesca. Il suo posto è in fondo al bancone, appoggiato con un gomito. Lo riconoscerete perché non si siede mai e porta impermeabile e cappello anche d’estate.
Dal suo angolo il tecnico osserva e aspetta che due persone del bar vengano a contatto. Non appena una delle due apre bocca, lui accende una sigaretta e piomba come un rapace sulla discussione. Nell’avvicinarsi, emette il verso del tecnico: “Guardi, sa cosa le dico”, e scuote la testa.»
E poi ancora il timido, l’innamorato con la testa tra le nuvole, il tifoso completamente accecato dalla propria passione, quello della comitiva dei “soliti noti”, il “forestiero” e chi più ne ha, più ne metta: stereotipi quantomai reali nel grande presepe nazionalpopolare del bar sport.
Dalla realtà al romanzo e, quindi, al cinema: è un attimo. Mario Carotenuto a Roma gestisce il bar testaccino “Forza Lupi”, ridicolizzando assieme al figlio Pippo Franco gli sventurati laziali di passaggio. A qualche isolato a nord da loro, nel frattempo, l’aquilotto Christian De Sica, dopo il calcetto domenicale, si ferma a bere una coca con la figlia al bar del circolo, per poi esplodere di rabbia davanti alle provocazioni calcistiche di un “collega”.
A Milano, invece, per il barista interista Massimo Boldi e i suoi amici Diego Abatantuono, Teo Teocoli e Ugo Conti è tempo di derby. Prima di dirigersi verso San Siro c’è modo però di mettere goliardicamente nei guai Guido Nicheli, malavventurato cliente in dolce compagnia. A Firenze non si gioca nessuna partita, ma il bar del “Necchi” accoglie lo stesso gli “zingari”. Mentre Lino Banfi, all’ombra della Mole, fa una fatica tremenda a mantenere il suo segreto. E non potrebbe essere altrimenti. Avere segreti al bar sport è pressoché impossibile: figurarsi quando si è fatto 13 al totocalcio.
Finzione e realtà s’intrecciano, alimentando l’immaginario collettivo, confondendosi nella storia delle storie di tutti i giorni. Ecco, è proprio la realtà che ci attende a turbare i nostri sogni nostalgici: cosa ne sarà del bar sport in tempo di pandemia? Avrà senso frequentarlo se neppure potremo darci una pacca sulle spalle? Figurarsi abbracciarci dopo un gol…
Che poi festeggiare un gol messo a segno in uno stadio vuoto sarebbe davvero di una tristezza infinita, diciamocelo. Ad ogni modo, con la speranza di poter cullare nuovamente il solito entusiasmo da bancone, quando riapriranno anche i campetti, Deo gratias, e il vostro avversario vi manderà al bar con una finta, voi lo ringraziarete. Perché meglio del calcio giocato c’è solo e sempre il bar sport: rifugio privilegiato per ogni Italiano che si rispetti.
Vice-direttore de "Il Giornale", direttore della rivista "Undici", si firma su "Il Foglio" con il nome Beppe Di Corrado. Abbiamo incontrato Giuseppe De Bellis, giornalista barese trapiantato a Milano, che ha ideato un prodotto editoriale raffinato che mescola scienza ed epica al servizio del calcio.