Due città opposte, due popoli inconciliabili.
Se la leggenda vuole che gli opposti si attraggano e la letteratura (scientifica) può confermare, spesso un campo da gioco si offre come eccezione alla regola. Nel pallone gli opposti si respingono, si odiano con piacere, vanno in disamore e in disaccordo sin dalla notte dei tempi: nascono così storie colorate, mai noiose, sempre pepate. Così sono Bari e Lecce, due città e due squadre che cugine non sono mai state, o semmai quei cugini che si odiano, che si fanno sgambetti e a casa della nonna stanno sempre per conto loro. Perché Bari e Lecce non hanno nulla in comune se non una regione che, secondo chi è nato sotto Taranto, nemmeno dovrebbe esistere.
Sono unite (e scusate se è poco) solo dalla parabola di un pallone che, di tanto in tanto, le mette nella stessa categoria, obbligandole a contendersi il primato su una Puglia che, da matrona giunonica e temuta come ce ne sono solo al Sud, mai potrebbe fare a meno di loro, e dopo uno scappellotto le perdona e gli prepara la cena.
Oggi che la Bari di Michele Mignani, dei De Laurentiis e soprattutto di Walid Cheddira (che dalle parti di via Sparano tutti ormai chiamano Walino: adozione completa) morde le chiappe al campionato cadetto; e che i giallorossi fanno a sportellate per un posto al sole in massima serie agli ordini di Marco Baroni, il rischio di riaccendere a stretto giro la guerra santa pugliese è quanto mai reale. Quanto basta per rinfocolare gli animi dei tifosi, che non si incontrano (Questura permettendo) dal lontano 2011: stagione in cui le squadre si aggiudicarono una gara a testa, in entrambi i casi a domicilio della nemica amatissima. Una soluzione che, a discapito delle apparenze, fu assai poco salomonica:
la sconfitta subita al San Nicola, poi messa sotto inchiesta, condannò infatti la Bari, fanalino di coda della Serie A, ad una retrocessione e ad un purgatorio che dura tuttora.
Ma in principio era Bari-Taranto. Questo, fino agli anni ’90, è stato il derby per eccellenza di tutte le Puglie, svanito in una nuvola di diossina dopo che il Taranto, nel 1993, ha abbandonato la Serie B senza mai farci ritorno, condannato anch’esso ad una sorte meschina, malato come la sua città, nonostante le promesse di millanta presidenti e il vigore dei tifosi indomabili (che, per fortuna, resiste ancora oggi, fatta eccezione per qualche pausa di protesta).
Tuttavia, leggendo tra le righe della storia e della geografia, era destino che non avrebbe funzionato: sebbene abbarbicate su coste opposte, le due città hanno i loro simboli nel mare, si assomigliano e si influenzano più di quanto l’una pensi dell’altra, con le loro processioni al mare e i loro borghi umbertini. Per concludere con l’accusa, che gli osservatori muovono negli ultimi anni, che Taranto si stia trasformando, progressivamente, in una colonia barese. Un dettaglio che non spetta a noi sancire, ma che serve a ribadire come questa sfida abbia ceduto il passo e il trono al “derby dei trulli”, così come lo soprannominò Gianni Brera.
Tuttavia, il grande giornalista e principe della zolla era probabilmente piuttosto a digiuno della Puglia e delle sue cose: sebbene avesse prestato servizio militare come sottotenente a Barletta, ignorava che un trullo in Salento è come il proverbiale ago nel pagliaio. O forse il soprannome era solo un omaggio ad un curioso episodio, da lui raccontato, che ebbe luogo nel 1948, quando in occasione del giro ciclistico “dei tre mari”, l’inviato del giornale organizzatore così salutò l’ingresso in Puglia: “Ed eccoci nel paese dei grulli”. «Fu un infortunio che non gli costò caro – commentò il Grangiuàn – solo perché i pugliesi sono molto intelligenti, parola mia d’onor».
Questa premessa è necessaria perché, nonostante Umberto Eco, che ammoniva ad essere avari di citazioni, non ha tutti i torti il partito di Giorgio Gaber secondo cui si soffre e si piange “con le parole che ognuno sa a memoria”: per cui, come omaggio letterario, anche per noi sarà derby dei trulli, con buona pace degli stessi trulli. Ma al di là delle definizioni Bari contro Lecce, prima di ogni cosa, sebbene qualche sciovinista reclami di diritto una regione chiamata Salento, è uno scontro tra psicologie opposte ma ugualmente pugliesi, che si riflettono nella società come nel calcio.
Uno scontro che si riassume semplicemente osservando i muri delle case e delle chiese: il Salento, con la sua mollezza spagnoleggiante, i suoi salotti barocchi, il turismo sfrenato e un dialetto che sembra essere siciliano più che pugliese; Bari, invece, operosa e operaia, con grandi cattedrali lattiginose e basole bianche senza orpelli. Un capoluogo astuto, disteso attorno alla costa, che non ammette sia discutibile il suo primato sulla regione. E se i cittadini baresi sono pazienti e laboriosi, simili a un popolo di formiche, secondo la definizione di Tommaso Fiore, quelli salentini sono un popolo di cicale, che hanno fatto il callo agli acuti di Schipa, al tamburello della taranta e alle calde serate sulla costa.
Insomma, secondo la definizione di Luigi Corvaglia: Lecce è arte, Bari è artigianato.
Non è un caso come sulle tribune dello stadio Ettore Giardiniero di via del Mare a chiunque luccicano gli occhi se si chiacchiera di un boemo che, agli inizi del nuovo millennio, scelse di insegnare eretismo podistico a folle esigenti. Si chiamava, ovviamente, Zdeněk Zeman. Tra gli sberleffi della critica, il movimento continuo orchestrato dal tecnico, combinato con una difesa a quattro piuttosto malleabile (la peggiore del campionato con 73 gol subiti) e un tridente sorretto dal giovane Mirko Vučinić, pescato ancora in fasce dal genio di Pantaleo Corvino, sorrise al barocco di Santa Croce come mai (a) nessuno è riuscito finora.
A sole due ore di macchina, stesso discorso vale per Enrico Catuzzi, un emiliano che negli anni ’80 una dirigenza squattrinata quasi obbligò a veicolare tutta la Primavera in Serie B, con il risultato di una promozione sfiorata giocando il miglior calcio che i tifosi biancorossi ricordino. Fu la stagione della Bari dei baresi, dei Frappampina e dei Terracenere come cavie da laboratorio per la cosiddetta zona totale, non troppo lontana dagli schemi che Rinus Michels opponeva laddove germogliano i tulipani. Una filosofia autarchica che non era in programma e di sicuro non era neanche filosofia ma semplice necessità, che sembrava, tuttavia, vestire a pennello i baresi, gente genuina ma fantasiosa, alla quale San Nicola confermò per una volta di non amare granché i forestieri, come recita un antico proverbio, ma di avere occhi solo per loro.
Poi la storia ha voluto che negli stessi anni si abbeverassero entrambe al rubinetto della massima serie. Ed eccoci a Bari e Lecce intese come squadre, biancogiallorossi che per circa 20 anni si sono respinti con gran fragore drammaturgico, ma il verdetto è senza padroni, piuttosto con padroncini che vanno perdendo via via dimestichezza con l’aria rarefatta della massima serie: i baresi, infatti, sono in vantaggio di un derby, ma i leccesi, nelle ultime 10 stagioni, hanno assaporato per ben due volte a zero il campionato dei grandi. E a proposito di abbeverarsi, sebbene lontana dai campi la contesa continua ancora sui banconi dei caffè pugliesi: a quei tempi, infatti, Bari e Lecce inaugurarono un connubio sotto forma di main sponsor con due marchi di birra, rispettivamente Peroni e Dreher.
Oggi le scritte sul petto sono cambiate (Bari, per contrappasso, ha firmato con una azienda di acqua minerale), ma restano identiche le preferenze alcoliche delle rispettive genti: a Bari si beve solo Peroni, a Lecce solo Dreher e a Taranto, se vogliamo, solo Raffo.
Nelle pagine che raccontano la genesi di un piccolo classico regionale, scorrono ovviamente le immagini seppiate di tabellini leggendari e memorabili. Come quando Alessandro Conticchio, un medianaccio totem della curva leccese, la mise sotto al sette di gran carriera, firmando una gara sporchissima per il fango e la pioggia battente, in uno stadio reso un pantano dal temporale, che gli valse in città il soprannome di “sindaco”. Perché se un gol alla domenica serve a guadagnarsi quantomeno la pagnotta e la stima, se segni alla Bari con annessa vittoria non sei un semplice cittadino, e quindi uno di noi, ma puoi essere il primus inter pares, e dunque il sindaco.
Un ragionamento simile occupò la sponda opposta qualche anno dopo, quando un giovane Stefano Okaka, una meteora come tante ne sono passate dal San Nicola, aggregato alla squadra da appena un giorno bruciò le tappe con un gol a domicilio del Lecce. I compagni di squadra, con una certa ridondanza, lo nominarono sindaco. Un soprannome che non ha attecchito: vuoi perché il sindaco di allora, Michele Emiliano, futuro governatore della regione, era così amato per essere dissacrato; vuoi perché la stagione di Okaka, fatta eccezione per quel ricordo ancora oggi profondo, si perse nei meandri della panchina e fu meno che incolore.
Nonostante il digiuno, che sulle nostre tavole è un vocabolo pressoché sconosciuto, la contesa è continuata con striscioni e cori al vetriolo, che raccontano, a seconda della curva di provenienza, di sorelle in vacanza in Salento o studentesse nel capoluogo, confermando come non si tratti di puro campanilismo estemporaneo quanto di un’eterna lotta ideologica che ha riconosciuto nel rettangolo di gioco la sua naturale trasposizione, incarognita da quel maledetto 2011 di cui abbiamo già detto, quando l’ombra del calcioscommesse ha macchiato per sempre la Pasqua del calcio pugliese.
Il calendario segnava 15 maggio. Al San Nicola si giocava la penultima di campionato in una dolce domenica di primavera. Dopo il vantaggio di Jeda, al rientro dagli spogliatoi, un gaglioffo autogol di Andrea Masiello a una manciata minuti dalla fine congelava la gara in favore dei leccesi. Da allora, nonostante le scuse, quello del difensore nato a Viareggio è un nome che è meglio tacere alla presenza di qualsiasi barese: lo sa bene anche Bisoli, che oggi allena Masiello al Südtirol e ha deciso di risparmiargli quella che sarebbe la sua prima riapparizione a Bari come avversario dei fantasmi del suo passato e di una città che non lo ha mai perdonato.
E poi indagini, condanne, squalifiche, peste e corna sui galletti che durano sino ad oggi.
Da quel giorno, infatti, come in una maledizione, la Bari, passando anche per un fallimento, non è più riuscita a riemergere da acque limacciose, sfiorando solo una volta una rocambolesca promozione. In fondo al tacco, una sorte benevola è sembrata sorridere al Lecce che, nonostante abbia riallacciato il filo interrotto ricominciando per squalifica dalla Lega Pro, oggi lotta per una salvezza che sembra quantomai possibile. E chissà se a mamma Puglia, per la quale i figli sono figli e sono tutti uguali, non toccherà assistere nottetempo a quella acerrima sfida che ammette solo una regina. Solo un galletto nel pollaio, insomma. Ma un pollaio sul quale vegliano i lupi.