La globalizzazione pallonara ha messo a dura prova l'autarchico modello bavarese, costretto a snaturarsi per competere in un mercato da cifre folli.
Dalla telenovela fra Tottenham e Real Madrid per “mister 100 milioni”, Gareth Bale, fino al record registrato da Paul Pogba sulla tratta Torino-Manchester, per una cifra superiore ai 115M, il mercato degli ultimi anni ha normalizzato cifre fino a poco prima inassociabili al cartellino di un giocatore. Ma il mercato non si è fatto attendere, è andato oltre molto presto: l’estate del 2017 verrà ricordata per molti anni, dopo una sessione “drogata” con il trasferimento più caro di sempre, quello di Neymar per la somma di 220M. A stretto giro sono seguiti i trasferimenti di Mbappé per 180M, a cui hanno fatto eco Dembelé con 125M e Coutinho con 145M, qualche mese più tardi – senza scomodare gli affari inferiori ai 100M.
Numeri più comuni agli investimenti sulle grandi opere che alle prestazioni di un essere umano. Abituati oggi a leggerle queste cifre, stupisce pensare come fino a questa estate una squadra del tenore del Bayern Monaco abbia sempre rifiutato di essere una reginetta al ballo di fine anno: il mercato estivo. Pur vestita con i favori del pronostico per almeno un decennio, prima di questa campagna acquisti aveva speso al massimo 41 milioni per un solo giocatore. Parliamo del francese, ex Lione, Tolisso (investimento non così fortunato tra l’altro), e prima di lui c’era stato il solo caso Javi Martinez, prelevato da Bilbao per pochi spiccioli in meno. Poi, qualche milione ancora più sotto, si trovano i nomi di Mario Gotze, Arturo Vidal, Renato Sanches o Matt Hummels.
Karl-Heinz Rummenigge, il CEO del Bayern Monaco, presenta Corentin Tolisso, l’acquisto più costoso – fino a questa estate – della storia bavarese (Foto di Sebastian Widmann/Bongarts/Getty Images)
Della squadra tedesca ha impressionato soprattutto la filosofia mostrata negli anni. Qualcosa che la dirigenza del Bayern, ha sempre promosso con una politica fatta di pochi acquisti mirati, meglio se giovani, cifre sostenibili, conti in ordine e spese sempre sotto controllo.
“Non spenderemo 100 milioni di euro per Marco Verratti. Né 25 all’anno per Alexis Sanchez. Se vogliamo vincere la Champions League dobbiamo rafforzarci e certamente spendere parecchio, ma non fare sciocchezze”.
Così parlava Uli Hoeness, presidente dei bavaresi, già due estati fa. E non si può certo dargli dell’incoerente: perché se è vero che non ha più vinto in Europa dopo il 2013, nelle ultime dieci stagioni il Bayern Monaco è stata solo la 17° squadra per soldi investiti sul mercato. Meno di Inter, Milan, Roma e Napoli per intenderci. Un dato in controtendenza rispetto allo spirito de tempo e ad un mercato fatto di grandi nomi, cifre folli, ingaggi monstre e un pugno di società, le solite big, a tesserne le fila.
Perché se una parola più delle altre incarna lo spirito immutabile della Baviera, quella parola èidentità. Un’appartenenza che si configura prima di tutto dal punto di vista territoriale, e quindi politico, con la CSU (Christlich-Soziale Union in Bayern) che nel “Land” più ricco di Germania governaindisturbata da 60 anni. Essa è la sorella della CDU, formazione di Angela Merkel, ma rispetto al partito “centrale” ha un’impronta più austera e conservatrice, come vuole la regione, e soprattutto è un partito orgogliosamente territoriale.
Ma guardando all’assetto societario del Bayern, emerge in maniera evidente un forte legame con la tradizione e con l’identità. Basta spulciare tra i personaggi della dirigenza per trovare i nomi di Karl-Heinz Rummenigge (amministratore delegato), Franz Beckenbauer (presidente onorario), o lo stesso Uli Hoeness (una carriera da giocatore nel Bayern, trent’anni da direttore generale e poi presidente del club): uomini che hanno scritto pagine di storia con lo scudo del Bayern cucito al petto, prima, e appeso dietro la scrivania, poi, rendendo il loro club una vera istituzione e non una semplice squadra di pallone.
Il Bayern Monaco non è solo una società ma l’espressione di una cultura e di un territorio: qui nel 2017 Karl-Heinz Rummenigge, Uli Hoeness e Carlo Ancelotti all’Oktoberfest (Foto di Alexandra Beier/Bongarts/Getty Images)
Ancora lo stesso Hoeness, poco dopo le folli spese del PSG e a rinsaldare una austerità che diventa etica e filosofia, si esprimeva così:
“Chi spende così tanto non potrà permettersi nemmeno un tozzo di pane. Perché il successo, in campo sportivo, non si può programmare come viene immaginato dai grandi investitori. Solo una squadra vince la Champions League. Quando gli investitori arriveranno a dire: «abbiamo sborsato così tanti soldi ma non abbiamo vinto nulla», allora arriverà il momento del Bayern”.
Quel momento comunque, a Monaco, si aspettava già da qualche anno, con giocatori simbolo come Muller, Neuer, Robben e Ribery sulla via del declino e la squadra rimasta orfana di un simbolo come Philipp Lahm. E se è certo che nel club di Beckenbauer la volontà di rifondare è nota già dal 2017, è pur vero che la rifondazione si esprime su livelli diversi rispetto alle cugine europee. In perfetto stile Bayern Monaco, con innesti dal vivaio, occasioni di mercato e giovani di prospettiva da far crescere, lo stesso Hoeness presentava così l’esigenza di un cambio di passo:
“Potremmo fare qualcosa che non abbiamo mai fatto prima. Se si vuole rafforzare la squadra dobbiamo comprare giocatori al top. Il Bayern del futuro sarà certamente un mix tra calciatori esperti e giovani dal futuro promettente” (Uli Hoeness).
Questo mix ha permesso anche a giocatori come Coman o Kimmich di avere il tempo per fiorire sotto la chioccia di compagni esperti, ha creato lo spazio per pezzi pregiati come Gnabry e con ogni probabilità da quest’anno riporterà al centro del progetto il talento di Euro 2016 Renato Sanches. Non solo, ha favorito anche le condizioni migliori per portare in Baviera allenatori di primissimo livello, del calibro di Pep Guardiola o Carlo Ancelotti, che hanno necessariamente dovuto adeguare il proprio modo di pensare il proprio club alla filosofia del “Mia San Mia”, quel “noi siamo noi” che rimpiazza la narrazione dei singoli protagonisti, sostituendola con uno scudo e due colori: quelli del Bayern.
Per insegnarlo anche ai più piccoli, malgrado la modernità esiga sempre più compromessi
Un paio di stagioni difficili, seppur vincenti tra i confini domestici, dove non sono mancate tensioni con il corpo tecnico, tra i soci e con i giocatori stessi. Da quest’anno i bavaresi hanno dato la resa, sottomettendosi alla legge del mercato. Già nel mese di marzo la dirigenza era corsa ai ripari placando gli animi caldi dell’ambiente per una stagione fino a quel momento fallimentare, annunciando la svolta:
“Siamo nel bel mezzo di un processo di ringiovanimento della squadra. Si tratta del programma di investimento più importante che il Bayern abbia mai realizzato”.
Difficile trovare un momento più calzante per annunciare la rivoluzione: campagna europea senza arte né parte, con un doppio confronto con il Liverpool senza mai storia, e Bundesliga che ha visto il Borussia Dortmund, al comando per 20 giornate consecutive e in testa fino alla 27esima di campionato, salvo poi concedere i due punti di vantaggio che hanno consegnato il titolo ai ragazzi di Kovac.
L’annunciato cambio generazionale si è iniziato a concretizzare a stagione in corso, con accordi per più di 100 milioni prima che il mercato aprisse i battenti e due nuovi terzini campioni del mondo già arrivati in baviera: Benjamin Pavard, grazie ai 35M versati allo Stoccarda, e soprattutto Lucas Hernandez per la cifra record di 80 milioni nelle casse dell’Atletico.
Nelle ultime ore si parla di un assalto a Leroy Sané del City, ma di fronte alle richieste degli sceicchi sembra difficile che Rummenigge e soci possano averlo in squadra, e piace molto anche Ousmane Démbelé. Non saranno i soli ipotetici acquisti per il mercato estivo, ma lo stesso presidente ha voluto chiarire fin da subito:
“Il Bayern non ha la possibilità di fare come i grandi club inglesi, spagnoli o come il Paris Saint-Germain. Non siamo nelle condizioni di pagare più di 100 milioni di euro per un singolo calciatore”.
Joshua Kimmich e Thomas Muller, due giocatori da Bayern, dopo la sconfitta in Coppa di Germania del 2018: già allora si potevano avvertire degli scricchiolii (Foto di Maja Hitij/Bongarts/Getty Images)
Nell’Italia degli scarsi risultati internazionali, della ripresa post apocalittica da mancato mondiale, il Bayern ha rappresentato un faro di luce nella notte, un modello da emulare capace di essere competitivo, identitario e sostenibile allo stesso tempo: senza gli introiti derivanti dal petrolio o dai grandi capitali stranieri, un qualcosa da cui prendere spunto.
Questo modello, tuttavia, oggi si deve adeguare a cifre molto elevate, molto più di quanto i bavaresi siano mai stati disposti a spendere, mantenendo sempre un certo distacco rispetto ai cicli economici del mercato. Perché poi nonostante i grandi allenatori, le ottime squadre proposte e la grande società alle spalle, dal 2013 in poi i risultati sperati non sono arrivati e nel frattempo la squadra è invecchiata, fino ad innescare a un cambio di ciclo fisiologico.
Ecco allora che il Bayern Monaco si è semplicemente dovuto adeguare, in modo inevitabile, alle attuali regole del gioco. Ha dovuto rinunciare a una parte della propria filosofia pur di non perdere il suo status, quello di superpotenza del calcio. Nell’instancabile ricerca dell’equilibrio del calcio moderno, che oscilla fra tradizione e innovazione, identità e avanguardismo, sarà solo il campo a dire se i tedeschi continueranno ad offrirci un modello vincente: conoscendoli, il nostro euro lo punteremmo sul sì.