La famiglia Verde nello sport, un impero decaduto.
La narrazione dell’imprenditoria sportiva virtuosa occupa uno spazio sempre più ingombrante all’interno delle Università di Economia, fino a diventare una vera e propria materia di studio. Il ruolo dello sport marketing, la cementificazione del valore sociale del prodotto, la logica del profitto che si amalgama con la componente emozionale, l’incrollabile fidelity del tifoso che contemporaneamente si tramuta in producer e consumer: tutti concetti noti da qualche decennio, con relativi esempi estrapolati da contesti reali, vincenti sia in termini di successi sportivi che di mera produttività.
Esempi che contribuiscono a dipingere una certa gestione aziendalistica delle società sportive, senza che però ne vengano considerati i chiaroscuri. Esempi che si tramutano in modelli da seguire, e che semplificano e appiattiscono la complessità del ruolo, banalizzando il concetto di successo sportivo. Esempi di singole realtà, o in alcuni casi di una rete di società gestite dallo stesso gruppo. In Italia, la parabola della famiglia Benetton a Treviso descrive egregiamente le luci e le ombre che si nascondono dietro a questa tanto osannata retorica.
La famiglia Benetton ha eretto intorno allo sport uno dei suoi pilastri portanti. Luciano e Gilberto, da appassionati e da imprenditori in piena espansione, ne conoscono bene il valore economico e sociale e decidono, ante litteram, di investirvi per costruire una vera e propria rete di società. Decidono perciò, nel giro di nove anni, di entrare nel mondo di quattro differenti discipline, tutte orbitanti intorno alla città di Treviso.
Le campagne provocatorie dirette da Oliviero Toscani hanno contribuito alla diffusione del marchio Benetton nel mondo. Negli anni ’90 il banner verde era tra i tre loghi più riconoscibili del pianeta. Nella foto la campagna UNHATE, esposta a Tel Aviv, rappresentante un bacio tra Barack Obama e Hugo Chavez. (Uriel Sinai/Getty Images).
Nel 1978 il nome Benetton compare per la prima volta sulle magliette di una squadra di rugby; nel 1980 arrivano i primi investimenti in Formula Uno e nel 1981 è il turno del basket. Nel 1987 completa il quadro l’inserimento nel volley con la Sisley Treviso. Le radici attecchiscono nel tessuto sociale e sportivo della città e germoglieranno qualche anno dopo, fiorendo definitivamente nel decennio successivo.
Per i Benetton, gli anni ’90 sono una belle epoque sotto tutti i punti di vista. La svalutazione della lira porta al rilancio delle imprese manifatturiere, soprattutto in quel Nordest imprenditore affamato e coraggioso dell’epoca. La produzione tessile della famiglia si espande con il boom dell’export, fino ad aprirsi al mercato globale, e anche gli investimenti nelle varie discipline cominciano a dare i loro frutti in termini di produttività e traguardi.
Negli anni viene assemblato un sistema basato su innesti oculati e coscienziosi, una revisione meticolosa della spesa e uno scheletro societario dal know how specifico: cardini che ricalcano quella gestione aziendalistica impiegata anche per la United Colours. E i risultati non tardano ad arrivare, collocando Treviso – città di 80 mila abitanti – sul tetto d’Italia e ai vertici d’Europa in tutte le discipline per più di una decade.
Alessandro Troncon, mediano di mischia trevigiano, bandiera della Benetton Rugby e della Nazionale Italiana. La palla ovale è stato il primo amore e forse il più caro della famiglia Verde. (Richard Heathcote/Getty Images)
L’asset è solido, il modus operandi uniforme, e una cosa è certa: i Benetton competono sempre e solo per vincere, mai per partecipare. Anche per questo il calcio non viene mai preso in considerazione: arrivare in alto, senza il budget delle grandi, appare un percorso che non vale la pena intraprendere.
Il connubio tra trionfo sportivo e gestione aziendalistica dura per così tanto tempo da far sembrare i due concetti visceralmente indissolubili. Nel rugby la simbiosi è vincente fin dagli esordi, con tredici scudetti conquistati dal 1982 al 2010 e l’esclusivo ingresso in Celtic League, il campionato più competitivo d’Europa. Nel 1992 arriva il primo dei cinque scudetti in bacheca nella pallacanestro, ai quali si aggiungeranno quattro Final Four e otto Coppe Italia.
Due anni dopo è la prima volta per il volley, che si ripeterà altre nove volte in Italia e quattro in Europa; nel 1995 arriva anche la storica doppietta costruttori-piloti in Formula Uno, con Flavio Briatore in regia ed un rampante Micheal Schumacher alla guida. Il tedesco è solo uno dei tanti professionisti di alto livello fioriti sotto il marchio Benetton: Alberto Cisolla, Lollo Bernardi (migliore giocatore del XX secolo) nel volley, Alessandro Trocon, Craig Green e Sergio Parisse nel rugby, Tyus Edney, Toni Kukoc e Andrea Bargnani nel basket, senza considerare allenatori del calibro di Gian Paolo Montali, Ettore Messina e Mike D’Antoni.
Toni Kukoč, dopo aver vinto in Europa tutto con lo Jugoplastika di Spalato, si trasferisce in maglia Verde. Sarà il trampolino di lancio definitivo: da lì il trasferimento a Chicago e la conquista della tripletta NBA nella squadra del secolo, alla corte di Sua Maestà MJ.
La Treviso sportiva si ritrova così catapultata con un triplo carpiato ai piani alti d’Europa e del Mondo, al quale è associato un contemporaneo sviluppo del tessuto sportivo locale, sempre firmato dalla famiglia Verde. Viene creata “La Ghirada”, un centro sportivo polifunzionale di oltre 220 mila metri quadrati, tuttora in uso, le squadre giovanili potenziano la loro struttura e il PalaVerde – arena di basket e volley, costruito sempre a spese Benetton – diventa la chiesa al centro del villaggio.
Ma il successo è come un rullo compressore, e spesso ciò che viene schiacciato in suo nome finisce nell’oblio. Così, mentre il nome Benetton compare sempre più spesso tra le pagine dei quotidiani sportivi e sulla bocca degli analisti economici, un sottobosco di operai, piccoli artigiani e laboratori locali viene strangolato dalla strapotenza familiare, schiacciata dal dominio del franchising.
I trionfi sportivi si moltiplicano, frutto degli investimenti derivanti dal profitto, e contribuiscono a far passare sottotraccia le polemiche scaturite, ad esempio, dalla delocalizzazione della produzione. Il marketing sportivo finisce per essere a sua volta una fetta di quella torta necessaria ad ingrassare le casse della famiglia. In particolare la gestione della scuderia Benetton in Formula Uno, che verrà ceduta nel 2000 alla Renault per 120 milioni di dollari, rappresenta al meglio questo approccio commerciale:
«Quello è stato solo un discorso che ci ha permesso di farci conoscere in mercati, come quello sudamericano, dove ancora non eravamo arrivati coi nostri negozi e non avevamo speso niente di pubblicità», dirà Gilberto Benetton qualche anno dopo.
Michael Schumacher al volante della sua Benetton Ford. È il 1994, l’anno del primo titolo mondiale di Schumi, l’inizio di una leggenda. (Pascal Rondeau/Allsport)
Ma il vento non può essere in poppa per sempre, ed è proprio quando smette di soffiare che si capisce quanto è realmente solida la nave. Gli affari nel tessile, già in evidente discesa, si inaridiscono ulteriormente con la crisi del 2012 che conduce, tra le altre cose, al delisting dalla borsa.
Il marchio boccheggia di fronte al mutare del panorama economico, a cui si aggiungono anche controversie di altro tipo, come l’infervorirsi delle manifestazioni Mapuche in Patagonia, dove i Benetton possiedono migliaia di ettari per far pascolare i propri capi. La cinghia va stretta, specie per chi è da sempre allergico agli sprechi.
E uno degli agnelli sacrificali, complice anche lo scarso interesse da parte delle nuove leve della famiglia, diventa proprio lo sport. Quello stesso sport che era stato per anni il fiore all’occhiello, un modello gestionale da cui attingere, ora viene abbandonato in quanto non più sostenibile. E quando il portafoglio langue, anche i risultati sportivi passano inevitabilmente in secondo piano.
La famiglia Benetton ha acquistato centinaia di migliaia di ettari in Patagonia, facendo sfollare la popolazione Mapuche, indigeni di quelle terre da sempre, per fare pascolare i capi di bestiame indispensabili per l’approvvigionamento delle materie prime tessili. La protesta purtroppo è stato solo un vagito sommerso dal potere economico dell’operazione.
Mentre il rugby – il primo vero amore – viene mantenuto in piedi, nel 2012 un annuncio a sorpresa di Gilberto sancisce l’addio al professionismo nella pallacanestro e nella pallavolo, lasciando intatte solo le squadre giovanili. L’onda d’urto della decisione è enorme per la città, che vede sciogliersi davanti agli occhi i due monoliti eretti con gli anni. Lo smantellamento delle squadre è tout court, dai giocatori fino all’addetto stampa. Mentre il volley riuscirà in parte a riciclarsi trasferendosi a Belluno ma mantenendo nome e titoli sportivi, nel basket il cratere lasciato – la squadra era ancora ad ottimi livelli in Italia – verrà abbandonato a se stesso.
La passione dei tifosi, già da qualche anno in netto calo, confluisce in un altro progetto, di impostazione completamente differente, come quello dell’Universo Basket Treviso. Partiti dai dilettanti sulle ceneri del e ora già in Serie A, la squadra sta cercando di rientrare in una dimensione più territoriale, lontana dall’approccio da multinazionale che aveva ormai raggiunto con la famiglia di Ponzano Veneto: un consorzio di imprenditori locali sul modello dell’azionariato popolare, con tanti ex Benetton nei ruoli chiave e un rapporto molto più diretto con i tifosi.
Guardandoli con gli occhi di oggi, quei 69 trofei conquistati in trent’anni somigliano ad un ricordo remoto, nostalgico, per chi ha vissuto l’epopea da vicino. Anni che appaiono lontani, fossilizzati nel tempo che fu, la cui parabola descrive fedelmente le luci e le ombre di un certo tipo di imprenditoria sportiva. Virtuosa e vincente quando il profitto lo permette, ma anche fredda ed implacabile nel lasciare quanto creato alla deriva nel momento in cui lo sforzo economico diventa eccessivo. Di certo, l’impronta lasciata sulla Treviso sportiva è stata enorme. Tanto da farla sembrare una cicatrice.
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