Nel ritiro della spedizione azzurra ai mondiali di Francia ’98 c’è un ragazzo di quasi 35 anni che ha appena terminato l’ennesima stagione, forse la più bella, in maglia nerazzurra. Il ct Cesare Maldini gli ha chiesto la disponibilità anche con la prospettiva di stare sempre in panchina e Beppe Bergomi non ci ha pensato due volte. La convocazione vale così la quarta partecipazione a una Coppa del Mondo e la fine di un digiuno iniziato sette anni prima, quando l’allora ct Arrigo Sacchi riteneva Bergomi ormai superato, rappresentante di un calcio antiquato, quello della marcatura a uomo, pronto a finire definitivamente in soffitta negli anni Novanta.
Beppe ha attraversato due decenni di storia del fútbol riuscendo a sopravvivere all’evoluzione della specie, facendo sempre di necessità virtù ed entrando in punta di piedi negli spogliatoi dei grandi, con l’umiltà di chi ha come primo scopo quello di imparare. Il soprannome Zio, suo autentico marchio distintivo, se lo porta dietro fin dal suo ingresso nello spogliatoio interista, quasi vent’anni prima, affibbiatogli dal compagno di squadra Giampiero Marini per quei baffi assolutamente inusuali per un sedicenne. Il mediano Marini e l’ala sinistra Muraro avrebbero poi preso il ragazzo di Settala sotto la loro ala protettrice, svezzandolo per farlo diventare uno dei più grandi esempi di attaccamento alla maglia nerazzurra.
Bergomi a colloquio con Maradona in qualità di capitano degli Azzurri
La condizione indispensabile per un futuro da capitano, e bandiera, dell’Inter per il giovane Bergomi è l’essere cresciuto nel vivaio, entrando nella casa nerazzurra a tredici anni, già troppo sviluppato, fisicamente e tecnicamente, rispetto ai coetanei, ma senza alcuna pressione da parte della famiglia, proveniente da un contesto come quello della provincia lombarda degli anni Sessanta e Settanta, in cui le giornate dell’infanzia si alternavano tra il pallone e il dare una mano alla pompa di benzina di proprietà dei genitori.
Lo scherzo del destino è che Beppe il primo provino lo fa con il Milan, a soli undici anni, per essere preso e poi lasciato a casa per colpa dei reumatismi nel sangue. Due anni dopo, quando lo vogliono tutte le grandi, lui non ha dubbi nello scegliere il Biscione in quello che si rivela un vero e proprio colpo di fulmine, che segnerà il corso della sua vita sportiva. Solo pochi anni ancora per vederlo fare il suo esordio in prima squadra, fortemente caldeggiato da mister Eugenio Bersellini, il Sergente di ferro, con tanto di battesimo del già citato Marini.
Nils Liedholm ed Eugenio Bersellini, a proposito di gentiluomini. Anche duri, ma sempre di cuore.
Nello stesso periodo, il precoce Zio viene già convocato nella nazionale under 21 e poco prima del debutto in nerazzurro cerca di spiegare a Bersellini che vorrebbe restare ancora un po’ in Primavera, per imparare il mestiere, ma il mister, con fatica, riesce a convincerlo e a buttarlo in acqua in un match di Coppa Italia contro la Juventus, nel gennaio 1980. Una volta rotto il ghiaccio, nelle successive stagioni Bergomi diventa un punto inamovibile dell’Inter, tanto da guadagnarsi la convocazione per il Mundial di Spagna ’82.
La svolta della carriera si consuma in un pomeriggio di luglio, allo stadio Sarriá di Barcellona. Enzo Bearzot decide di rimpiazzare l’infortunato Collovati con il più giovane giocatore azzurro della storia in un mondiale. Con un “Ragazzo scaldati” il diciottenne viene lanciato nella mischia con il compito di marcare a uomo la punta Serginho e provare il brivido di presenziare alla partita risolta dalla tripletta di Paolo Rossi, che proietta l’Italia in semifinale contro la Polonia, per poi portare a casa la Coppa contro la Germania, con Bergomi sempre in campo.
L’Italia in trionfo (lo Zio è l’ultimo a destra)
Per lo Zio il difficile arriva dopo quella vittoria, con tutti che si aspettano sempre prestazioni degne di un Campione del Mondo, anche se lui è un ragazzo che non ha ancora compiuto diciannove anni. Nel sentirsi in dovere di dimostrarsi all’altezza di tale onore e onere, Beppe non si monterà mai la testa e cercherà di imparare da ogni allenatore che transiterà nella Milano nerazzurra, e non saranno pochi. Tra i mister che passeranno ci sarà anche Gigi Radice, nell’annata 1983-84, con il quale Bergomi avrà un rapporto speciale, tanto che sarà l’unico per cui verserà delle lacrime dopo un esonero.
Intorno alla metà degli anni Ottanta l’Inter ha buone squadre, ma non riesce a competere con la Juventus di Trapattoni e Platini. Allora capita che in quel periodo il Trap, prima di un derby d’Italia, chieda a Beppe se sia disposto a trasferirsi a Torino, ma lo Zio è irremovibile, da lì non lo schioda nessuno. Non è ancora capitano del Biscione perché ci sono davanti altri giocatori che hanno maturato centinaia di presenze come il libero Graziano Bini e il bomber Spillo Altobelli, ma con l’arrivo di Trapattoni alla Pinetina, nel 1986, il passaggio di consegne è sempre più vicino.
In Coppa UEFA nel 96/97 contro un giovanissimo Henry, in forza al Monaco
I gradi sono ormai acquisiti nella stagione 1988-89 quando Bergomi diventa capitano de facto, indossando la fascia al posto di Beppe Baresi che parte spesso dalla panchina. Per lo Zio è il momento di portare definitivamente a maturazione gli insegnamenti ricevuti da quando ha vestito quella maglia a tredici anni:
“fare il capitano non è soltanto scambiare il gagliardetto con l’avversario, ma devi essere un esempio positivo, devi far capire cosa voglia dire indossare questa maglia, quali siano i valori di questa squadra”.
Silenzioso fuori e tempestoso dentro al campo, Beppe conquista finalmente il suo primo, e unico, Scudetto in quell’Inter dei record disegnata dal Trap e dal presidente Pellegrini, con i preziosi innesti di Matthaüs, Brehme, Diaz e Berti. Nel frattempo c’è anche la nomina a capitano della nazionale sotto la guida del ct Azeglio Vicini, nel nuovo ciclo dell’Italia che si appresta all’appuntamento dei mondiali casalinghi del 1990, dove altri due bauscia doc come Walter Zenga e Riccardo Ferri faranno compagnia a Bergomi nella difesa azzurra.
L’Inter dei Tedeschi, più Berti, Bianchi e Diaz
La strada interrotta contro l’Argentina, in semifinale, sarà uno dei più grandi rimpianti nella carriera dello Zio, che si vede negata l’occasione di alzare la Coppa da capitano, un‘immagine mancata che forse gli avrebbe consentito di essere maggiormente valorizzato agli occhi della critica e di alcuni tecnici che avrebbe incontrato nella restante vita agonistica. Infatti con l’addio del Trap, che lascia con la vittoria della Coppa Uefa nel ’91, Beppe e l’Inter entrano in una zona d’ombra da cui sarà difficile uscire.
Con Corrado Orrico in panchina, lo Zio vive uno dei momenti più bui, il rapporto tra i due non sboccia e dall’esterno viene additato insieme a Zenga e Ferri come maggior responsabile degli scarsi risultati del Biscione, ritenuto inadeguato al nuovo calcio, ed è dello stesso periodo l’esclusione dalla Nazionale con l’avvento del profeta Sacchi. Da capitano a bollito, insomma. Zero polemiche da parte di Bergomi però, ancora una volta.
L’idea di lasciare l’Inter non lo sfiora neanche, non ci sono incursioni in sede imponendo diktat alla dirigenza dall’alto del suo status, ma c’è solo il lavoro sul campo e l’esempio da trasmettere ai giovani e ai nuovi arrivati. Un po’ di luce si rivede grazie a mister Osvaldo Bagnoli, che sa come prendere Beppe, come quando gli dice in dialetto milanese: “Ma tu dove vuoi andare? Per me sei il migliore”. Poi, durante la stagione 1993-94, nonostante l’esonero di Bagnoli e la salvezza ottenuta alla penultima giornata, la vittoria della seconda Coppa Uefa è l’ultima gioia da condividere con Zenga e Ferri, gli amici di una vita e con in panchina proprio quel Giampiero Marini autentico mentore dello Zio.
Beppe Bergomi mentre alza al cielo la Coppa UEFA del 1994
Passata la soglia dei trent’anni, Beppe ha ancora voglia di spremersi per quei colori e per la sua gente, ma non vuole pesare su nessuno, d’ora in poi decide di fare solo contratti annuali, la società sarà libera di scegliere cosa fare al termine di ogni stagione. Intanto, anche con squadre e compagni mediocri rispetto alla caratura di Bergomi, il ruolo di Capitano gli impone di essere il primo ad aprire i cancelli di Appiano Gentile e l’ultimo ad uscire la sera.
Abnegazione al lavoro e amore per la maglia che vengono ripagate nell’estate 1997, la più entusiasmante della storia nerazzurra, quella dell’arrivo del Fenomeno. Un uomo di buonsenso come Gigi Simoni in panchina considera tutti uguali, dai 18 ai 35 anni, e ripone una grande fiducia sullo Zio che vive una seconda giovinezza, risultando uno dei giocatori con più presenze. Stagione che culminerà con la vittoria della terza Coppa Uefa, che solo in parte placherà la delusione per il mancato Scudetto in seguito al celeberrimo episodio Ronaldo-Iuliano, che costituirà il secondo grande rimpianto per Beppe dopo i mondiali del ’90.
L’annata giocata ad alti livelli vale comunque la chiamata, inaspettata, per il mondiale di Francia, nel quale Bergomi gioca le sue ultime tre partite in azzurro dopo l’infortunio di Nesta, vivendo un déjà vu che lo riporta a sedici anni prima in Spagna, solo che stavolta il sogno si interrompe ai rigori contro i padroni di casa. Solo un anno più tardi, l’Inter decide di accantonare definitivamente lo Zio, al termine di una stagione in cui il capitano si è fatto trovare ancora pronto a ogni evenienza, calcando il campo in ben nove partite su dieci della Champions League, chiusa ai quarti contro i futuri campioni d’Europa del Manchester United.
La grinta di Beppe Bergomi, ancora, nella stagione 1998-99, la sua ultima in nerazzurro (Foto Getty Images/Mandatory Credit: Allsport UK /Allsport)
Dopo la sua ultima apparizione contro il Bologna, nel maggio 1999, Beppe pensa che ancora una volta riuscirà ad avere un altro anno di contratto, che la sua esperienza non sarà gettata al vento. Lui non chiede altro che poter dare il suo contributo all’Inter, mai chiesto il posto fisso da titolare. Non c’è nulla da fare però, perché nel nuovo corso di Marcello Lippi, a cui è stata lasciata carta bianca, non c’è più spazio per la sapienza calcistica e umana di Bergomi e la società compie così un autogol che rimanderà il ritorno del club alla vittoria di qualche anno.
Lasciato il calcio giocato, lo Zio inizia la carriera da commentatore, rendendo la sua voce celebre durante le telecronache. Non mancherà comunque il tempo da dedicare al silenzio e alla riflessione, visto che scarterà più volte progetti riguardanti una sua biografia e si concederà solo molti anni dopo allo scrittore Andrea Vitali, per narrare la sua vita dalla nascita fino ai diciotto anni, la fase che ha condizionato tutto il resto.
Consapevole della delicatezza tipica dell’età adolescenziale, tornerà sul campo solo per allenare i ragazzini, mettendo a disposizione il suo bagaglio umano ancor prima di quello tecnico. Inoltre, rimarrà vanamente in attesa di una chiamata dall’Inter, per il desiderio di dare una mano alla sua società. L’unico che si dimostrerà realmente intenzionato a riportarlo a casa sarà la leggenda nerazzurra Giacinto Facchetti, a cui Beppe sarà per sempre grato. Si parla di capitani e gentiluomini di un altro calcio, appunto.
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