Tra una passione autentica e la Juventus “comunista”.
Avevo cinque anni. Estate torrida, attenuata dagli ulivi. Quell’enorme quadro era lì, da sempre. Ma solo allora trovai il coraggio di chiedere a mio nonno chi fosse il protagonista della foto in primo piano. Nella casa di campagna in cui sono cresciuto rappresentava il complemento d’arredo determinante. Un’immagine evocativa come quella di Giacomo Matteotti nel panaro delle zie di Leonardo Sciascia. Si trattava di Enrico Berlinguer, un politico per il quale mio nonno ha passato decine di notti in bianco partendo dal Salento con una 126 direzione Roma, il centro delle manifestazioni che contano.
Più passavano gli anni, più ricercavo i segreti negli occhi dell’uomo alla sommità del soggiorno. Cosa avrà vissuto? Cosa avrà amato? Enrico Berlinguer amava il calcio. Quello di polvere, stracci e ginocchia sbucciate, vissuto negli anni della giovinezza in cui sognava di fare il regista della Torres Sassari.
L’odore di terra di tutti l’ha catturato il parco di Villa Ada della capitale, dove improvvisava delle partitelle il sabato mattina coi suoi collaboratori e gli uomini della scorta alla vigilia del cielo di piombo. Desiderava imitare – di destro e non di sinistro, clamorosamente – un Ercole varesota in grado di spodestare la Vecchia Signora degli Agnelli dal trono tricolore nel 1970: Gigi Riva, un rombo di tuono che lo ha fatto sentire ancor più orgoglioso di essere sardo.
Le squadre forgiate sull’effige dei quattro mori hanno sempre avuto la precedenza per lui. Ma quando l’ultimo vero segretario del PCI voleva godere dell’alacre lotta sul tappeto verde, guardava la Juventus del Trap. Vezio Bagazzini, barista del bar frequentato dai compagni della rivista Botteghe Oscure, confessò dodici anni fa al Riformista i riferimenti calcistici del leader:
“Berlinguer il sabato mattina giocava a Villa Ada. Calciava molto bene di destro, ironia della sorte. Era tifoso della Juventus. Quella di Zoff, Furino, Capello e Cuccureddu. Ma la sua scorta, me lo ricordo bene, era tutta di fede laziale, così era costretto ad andare a vedere, allo stadio, le partite della Lazio”.
Un aneddoto che chiarisce tre aspetti di Berlinguer e il football: la necessità della sfida da divorare su umile erba; l’ammirazione per calciatori provenienti dalla periferia, dotati di valori senza tempo, in grado di conquistare lo scanno più alto col sudore; la democrazia viscerale che lo ha portato a vedere l’aquila biancoceleste per fare contenta la scorta.
Agnelli gongolava quando veniva a conoscenza che il segretario aveva abbandonato la cena coi compagni di Cuneo per andare a vedere un decisivo Juventus-Romainsieme al figlio Marco. A rivelare il legame dello statista col mondo bianconero spesso è la fisiognomica, che rivela le inequivocabili espressioni facciali durante le sue presenze al Comunale. L’avvocato Agnelli ha confermato, in una lettera pubblicata il 6 marzo 1991 su La Stampa, l’apparentemente contraddittorio trinomio tra zebra-falce-martello:
“Ho mandato al giornale una foto di una partita della Juventus del 1948, dove mi trovavo accanto a Togliatti. Lui, come tutti i leader comunisti di una certa generazione e di una certa classe, era juventino. Non ho mai avuto modo di verificare se Berlinguer amasse la Juventus; ma da alcune sue reazioni, che ho avuto occasione di vedere allo stadio, mi pare che anche il suo cuore fosse bianconero”.
Nel 1980 la FIAT doveva licenziare oltre quattordicimila operai. Il 24 settembre dello stesso anno si proclamava uno sciopero generale, parzialmente contenuto da Berlinguer al cancello cinque dello stabilimento di Mirafiori. Il segretario non era d’accordo sul totale blocco delle fabbriche e cercava d’imboccare la via diplomatica con gli operai: «Se si arriverà all’occupazione della FIAT, dovremo organizzare un grande movimento di solidarietà in tutta Italia. Esistono esperienze di un passato non più vicino, ma che il PCI non ha dimenticato. Noi metteremo al servizio della classe operaia il nostro impegno politico, organizzativo e di idee».
Il modus operandi di Berlinguer è stato oggetto di scivolosi fraintendimenti, ma è da contestualizzare nel periodo di profonde tensioni portate dall’Affaire Moro. L’equilibrio, per tratteggiare con lucidità lo sviluppo del Paese, è il comandamento che guida le sue parole. Non c’entra niente la simpatia per la Juve, che in una concatenazione di affari si collega alla storia della FIAT, degli Agnelli e dello Stivale. Chi ha pensato il contrario ha preso una cantonata epocale. Il rapporto tra padrone e statista non cambia di una virgola: il demiurgo della politica resta tale, avendo solo un vizio, Madama.
Ritorna l’interessante coincidenza: la fede calcistica, autentica o presunta, che unisce i più influenti uomini del comunismo italiano. Le partite della zebra nel girone piemontese occidentale godute dall’universitario Antonio Gramsci poco prima della guerra del quindici-diciotto. Palmiro Togliatti che a margine di un comizio chiedeva a Pietro Longo il risultato dei bianconeri nell’ultima giornata di Prima Divisione e alla risposta con spallucce del compagno pronunciava una sorniona battuta:
«E tu pretendi di fare la rivoluzione senza sapere i risultati della Juventus?».
Luciano Lama, onnipresente segretario della CGIL, che ha diffuso via stampa consigli tecnico-tattico agli Agnelli, chiedendo la testa di Maifredi a inizio degli anni Novanta.E poi Berlinguer, l’ultimo della schiera. Gianni Mura in Non gioco più invita a riflettere sull’irripetibile coincidenza, lanciando una provocatoria domanda finale:
“È rosso il filo che lega ai bianconeri Gramsci, Togliatti, Berlinguer e Lama? La Juve è di sinistra?”.
Delle grandi la Juventus è la società che ha annoverato nei suoi faldoni un gioco provinciale, ma comunque vincente. L’epopea di Trapattoni è costruita grazie alle testuggini e non a spregiudicati attacchi barbarici. Rappresenta, inoltre, il sogno di emancipazione della middle class e del sottoproletariato migrante del boom economico. Le domeniche di relax dell’umile lavoratore, sovente, si legavano a doppio nodo all’ascolto del secondo tempo della Vecchia Signora su Tutto il calcio minuto per minuto, o allo stadio per i più facoltosi, o ancora su 90° Minuto per i ritardatari. Madama era uno di quei simboli di un sogno di benessere e progresso riversato essenzialmente nelle piccole cose.
A questo immaginario abbiniamo la corporea esigenza di Berlinguer: rotolarsi sulla terra di tutti per tentare un’acrobazia simile al Compromesso Storico. Una sera di fiero ponentino, mentre tornava a casa dopo la giornata fiume d’analisi economiche sul futuro degli italiani, fu attirato da un gruppo di ragazzi che giocavano a calcetto nei pressi del Ministero degli Esteri, vicino al Piazzale della Farnesina. Si tolse la giacca. S’arrotolò i pantaloni. S’allacciò per bene le scarpe.
Cominciò a sgambare con loro, facendo un salto di oltre quarant’anni nel candore bucolico della sua Sassari. Tra un tackle e uno scatto senza fuorigioco, passò una macchina ministeriale. Si fermò. Alzò i fari, scrutando con attenzione. Era il segretario della DC, Aldo Moro, che rimase incredulo nel vedere il rivale politico rischiare le caviglie con un manipolo di figli della plebe. Proprio Berlinguer, tra l’altro, che soffriva di fastidiosi problemi respiratori. Ma alla passione non si comanda, parola di sardo.
Moro chiese all’autista di ripartire, sgommando sulla strada vuota. Il rivale s’accorse di lui, palesando il suo proverbiale sorriso. Prezioso aneddoto donato ai posteri dai presenti, immerso in un impolverato ritratto di La Repubblica sul Berlinguer a riflettori spenti. La più fedele metafora dello scenario sociopolitico degli anni Settanta.
Lo statista rossoblu-bianconero non è un fuoriclasse di Eupalla, ma ha vissuto egualmente le folle tonanti, quelle d’arena epica. In vita, in morte. Il 7 giugno 1984 in Piazza della Frutta, a Padova. Il 13 giugno 1984 in Piazza del Popolo, nella città eterna, con oltre un milione di cuori sanguinanti. L’ultimo pallone da colpire in acrobazia glielo lancia Antonello Venditti, con Dolce Enrico:
Enrico, se tu ci fossi ancora
ci basterebbe un sorriso
per un abbraccio di un’ora
il mondo cambia, ha scelto la bandiera
l’unica cosa che resta è un’ingiustizia più vera
quanti segreti in fondo al mare
pensi davvero che un giorno noi li vedremo affiorare?