Per sfatare qualche falso mito.
Matteo Berrettini non è stato baciato dalla divinità del tennis. Non è un fenomeno, né un predestinato come Jannik Sinner. Fino a 4-5 anni fa nessuno nell’ambiente, a partire da chi lo aveva visto e conosciuto nei circoli romani, avrebbe scommesso un euro su di lui a certi livelli: primo italiano a raggiungere la finale a Wimbledon e la semifinale in Australia, ma ancor prima unico azzurro nella storia ad aver centrato almeno i quarti di finale in tutte le prove dello Slam (finale a Londra, semifinale a New York e Melbourne, quarti a Parigi); stabilmente tra i primi 10 del mondo (ora numero 7 a salire), vincitore di tornei che mai avevano conquistato i nostri (come il Queen’s) e fiero rappresentante del tennis – e non solo quello azzurro – nel mondo.
Berrettini però, oltre a non essere un fenomeno, non è neanche un “talento” in senso stretto. Questo dobbiamo premetterlo, accantonando per un attimo le opposte fazioni dialettiche: da un lato la retorica patriottarda, fatta di apologie un po’ mitomani e di facili (seppur comprensibili) entusiasmi; dall’altro la critica “specializzata”, snob e altezzosa, composta da quegli addetti ai lavori che hanno spesso bistrattato Matteo, liquidandolo con troppa fretta e, perché no, con una punta di sarcasmo salottiero. Per questo, dopo l’ennesimo exploit che sa ormai di conferma, è giunta l’ora di andare oltre le semplificazioni.
Prima fra tutte, quella per cui Berrettini sarebbe un giocatore “solo servizio e dritto”. È vero, Matteo può contare su due fondamentali che lo avvicinano ai primi al mondo (seppure nel servizio, soprattutto contro i migliori risponditori del circuito, possa ancora guadagnare qualcosa a livello di variazioni). Ma il suo vero punto forte è un altro, ed è la testa. La stessa che negli ultimi anni lo ha portato a lavorare duramente su se stesso insieme al coach Santopadre, senza mai fermarsi e con la consapevolezza di avere molto lavoro da fare. Da qui è partito il tennista romano: da una esigenza di migliorarsi che ha assunto il carattere di un’insoddisfazione perenne, da una costante autocritica spinta ai limiti del masochismo. Il doppio volto, generoso ma feroce, di quella che superficialmente si chiama “umiltà”.
«Sono impietoso con me stesso. Ma tanto, tanto, tanto (…) Tenersi sotto pressione aiuta a migliorarsi però sono capace di non perdonarmi il minimo errore».
Matteo Berrettini nell’intervista rilasciata a Sette
E ancora, per spiegarla meglio: «Qui a Montecarlo, lo scorso aprile, rientravo da un lungo stop per uno strappo agli addominali. Ho giocato e perso, senza lottare come mi ero ripromesso. Per quattro giorni mi sono insultato a morte per non essere stato quello che avrei voluto. Vincenzo, il coach, mi diceva: tranquillo, Matteo, è normale. E io a darmi del coglione senza pietà. Però da questo atteggiamento è nata una stagione super: le vittorie, i quarti di finale a Parigi e New York, la finale a Wimbledon, le Atp Finals. La cosa bella è che, quando prendo una batosta, per quanto sia forte, reagisco positivamente. Rimbalzo quasi sempre all’insù».
Ma Berrettini, oltre a non lasciarsene passare una, deve i suoi risultati ad una intelligenza in campo stra-ordinaria: ad una comprensione del gioco che lo porta sempre a individuare la giusta strategia, e ad una disciplina che gli consente costantemente di attuarla. In realtà, sembra un po’ un paradosso. A vederlo Matteo, giocatore potente e a tratti ingiocabile, dovrebbe essere la classica rappresentazione del bombardiere che spariglia le carte: quello che nella giornata di grazia può battere chiunque, ma che nella giornata storta può perdere da chiunque. Invece è l’esatto contrario: Berrettini ha la dote impressionante di vincere sempre le partite che deve vincere. Una dote unica, questa sì da grande campione, che condivide probabilmente con due-tre tennisti al mondo.
Spesso il tennista romano chiude partite assai insidiose in due o tre set, interpretando alla perfezione i punti importanti e non dando respiro ai suoi avversari; altre volte, come contro Monfils e Alcaraz, si appella al grande cuore e alla gestione dei momenti e delle energie. Anche qui, che Berrettini abbia qualcosa in più dal punto di vista mentale lo si è visto ieri in due occasioni: nell’inizio sprint del quinto set che, malgrado l’inerzia fisica e tecnica a sfavore, ha deciso la partita (qualche ora prima, non a caso, un certo Nadal aveva fatto la stessa cosa con Shapovalov); e poi nel modo in cui ha gestito l’inizio del secondo set e la reazione del francese, lottando in ogni scambio e sudandosi ogni punto, annullando palle break su palle break e infine conquistando – chirurgicamente – il parziale.
Matteo è sempre centrato, sa quello che deve fare, non sbaglia le scelte. È un grande lavoratore ed un tennista operaio, ma soprattutto è uno che perde solo quando non può far altro che perdere; quando gli altri, tanto per essere chiari, sono troppo più forti di lui.
Non è un caso che con Djokovic sia uscito sconfitto 4 volte su 4, con Federer 2 su 2, con Nadal nell’unico confronto (aspettando dopodomani); e ancora che con Medvedev abbia perso 3 incontri su 3, con Tsitsipas 2 su 2 e con Zverev 4 su 5. Insomma, a Berrettini manca ancora qualcosa quando si alza il livello ed è chiamato a competere con i migliori, in compenso vince praticamente sempre con chi è sotto di lui. Capirete che è una formidabile base su cui costruire perché sia chiaro, Matteo ha tanto da costruire, come sempre capita a chi non ha avuto il dono dell’elezione e ha dovuto invece farsi largo a forza di sgomitate – e di bordate.
Ciò che manca riguarda esclusivamente il campo e il piano tecnico. Matteo va in difficoltà quando deve giocare in recupero, quando il ritmo dello scambio si alza, quando è costretto a cercare (e spesso a non trovare) nuove soluzioni, quando si va sul tocco, sulla sensibilità e sul fioretto. La risposta è molto migliorabile ma soprattutto lo è il rovescio, il vero tallone d’achille del venticinquenne romano. Probabilmente, e non ce ne voglia nessuno, nel tennis di dieci anni fa l’attuale Berrettini non sarebbe mai stato in top ten: quando oltre ai tre mostri sacri (quattro con Murray), c’erano i vari Del Potro, Wawrinka, Berdych, Ferrer, Nishikori, Tsonga e via discorrendo. Giocatori che riuscivano a mettere in difficoltà, e talvolta a battere, le migliori versioni di Nole, Rafa e Roger.
Berrettini non è a quel livello, e se dobbiamo essere onesti non è (ad oggi) nemmeno al livello di Medvedev e Zverev.
Eppure nessuno si sognerebbe di chiederglielo, anzi. Il fatto stesso che Matteo abbia raggiunto certi livelli è un miracolo sportivo, una di quelle storie che trasmettono una morale per la vita di tutti i giorni ma anche per le giovani generazioni: se ci si crede, fino in fondo e più di qualsiasi altra cosa, se si è disposti ad annullare il proprio ego e ad identificarsi con il proprio obiettivo, nulla è impossibile; se si allena il proprio sogno fino a trascinarlo in terra, questo può realizzarsi. Poi serve la testa, certo, ma è un altro discorso.
Ciò che più importa oggi è che la storia di Berrettini, nella sua lontananza, la possiamo sentire vicina. Il tennis come metafora della vita. Matteo è uno di noi perché era uno come noi: non un fenomeno, non un predestinato e probabilmente neanche un talento, ma è proprio per questo che lo tifiamo con tutti noi stessi.