Almeno per ora, ed è naturale che sia così.
Quando su queste colonne abbiamo scritto, qualche giorno fa, che Berrettini non è un fenomeno, un eletto del tennis e nemmeno un “talento in senso stretto” ci siamo presi insulti e reprimende. Succede spesso quando si prova a valutare lucidamente i limiti di un simbolo sportivo nazionale, un italiano che unisce il Paese nel tifo e nel sostegno collettivo. Il punto è che quella non era una critica, bensì un elogio: Berrettini arriva in finali e semifinali slam, al numero 7 al mondo (ora 6) nonostante delle lacune tecniche tanto gravi quanto innegabili per un top ten.
Non è un caso che vada in enorme difficoltà appena si alza il livello, che abbia perso 17 incontri su 18 con i migliori sei giocatori al mondo.
Contro Nadal, che ne ha evidenziato tutti i punti deboli a partire dal tallone d’achille del rovescio, Matteo Berrettini è stato letteralmente annichilito per due set. Per chi mastica un minimo di tennis e aveva visto il Rafa degli ultimi giorni, era chiaro che lo spagnolo partisse così: aggressivo, vicino al campo, con l’intenzione di travolgere “l’inesperto” avversario e portare in campo il peso del proprio carattere e della propria presenza. Il tutto accompagnato dalla classe dello spagnolo nel saper gestire i momenti di una partita 3 su 5, costretto ad accorciare i tempi e ben consapevole dell’unico piano di battaglia possibile: un inizio arrembante causa precaria condizione fisica e l’accumulazione di un imprescindibile vantaggio (ricordiamo che, fino a settembre, il maiorchino doveva ancora appoggiarsi a delle stampelle per camminare).
Poi come preventivabile, dopo un’ora e mezza di lezione di tennis, Nadal cala mentre Berrettini rimane lì con la testa. Un paio di game fanno la differenza, Matteo si aggiudica il terzo set e prolunga il match il quarto, con un copione che sembrava ricalcare quello vissuto da Rafa già con Shapovalov (da due set a zero sopra alla rimonta). Lo spagnolo crolla fisicamente e già dalla metà del terzo set inizia a sbagliare: soffre sui suoi turni di servizio ma soprattutto non risponde più in quelli dell’avversario, perdendo 22 punti consecutivi nei game di risposta a cavallo tra terzo e quarto parziale.
A questo punto, di nuovo, è chiara la strategia dello spagnolo: lasciar andare i giochi di servizio avversario, ridurre al minimo la fatica e giocarsi tutto sui punti decisivi. La tecnica della zampata insomma, la strategia dei grandi campioni, come quando Cristiano Ronaldo sa di non poter più correre e pressare ma aspetta quel singolo cross per buttarla dentro. Così fa Nadal che sul 4-3, dopo aver perso cinque game di risposta a zero e complice la tensione dell’italiano, piazza il break chirurgico che lo porta a servire per il match sul 5-3 e a chiudere la partita.
Berrettini, dicevamo, esce a testa altissima da questi Australian Open, ma se ci permettete lo fa un po’ meno la “critica” tennistica italiana: da chi pronosticava una sua vittoria a chi lo presentava “finalmente pronto”, da coloro che lo incoronavano già al livello dei migliori ai telecronisti di Sky Sport, che a fine partita ne hanno evidenziato «i progressi rispetto alla prima sfida con Nadal allo US Open del 2019» – quali, aver vinto un set (e poi perso la partita) con un Rafa al 50% dopo essere stato brutalizzato per 90 minuti? – diciamo che il racconto dei fatti è stato molto di parte, ai limiti del fazioso.
Anche perché Matteo Berrettini, lo ripetiamo ancora una volta, è un atleta e un ragazzo eccezionale. Uno che sta già scrivendo la storia del suo sport con risultati impressionanti e oltre ogni aspettativa. Eppure è un tennista con delle carenze innegabili per i più importanti palcoscenici mondiali, carenze tecniche che contro i più forti diventano anche psicologiche: non è un caso che Matteo in queste occasioni sia spesso contratto, non riesca a sentire la palla e a giocare a braccio sciolto. È invece una precisa conseguenza della tattica dei suoi avversari che lo mettono spalle al muro, nudo di fronte ai propri limiti, e ne minano in testa le certezze accumulate, in campo la fluidità di gioco.
Funziona così nel tennis: c’è l’avversario, non è mai solo una questione del singolo.
Quello stesso avversario che se si chiama Federer o Nadal ti investe, come successo a Berrettini, e che contribuisce a farti giocare male, o almeno non come vorresti. Su questo si può lavorare anche caratterialmente (al di là del piano tecnico, Matteo avrebbe potuto vincere il quarto set anche solo avendo più coraggio e fiducia): il romano classe ’96 è giovane, ha una grande carriera davanti e soprattutto ha i mezzi, l’intelligenza e l’ambizione per crescere sempre di più.
Tuttavia, tornando al campo, purtroppo Berrettini deve ancora mangiare ancora tanta pastasciutta – per utilizzare un’orrida espressione divenuta ormai patrimonio nazionale – prima di potersi confrontare ad armi simil-pari con i primi tennisti del mondo. Lo sa lui, persona umile e consapevole, lo sa il suo coach, lo sanno i suoi avversari ma facciamo finta di non saperlo noi; o almeno non lo diciamo, quasi che fosse lesa maestà o, ripetiamo, una critica ai suoi danni. È invece l’esatto contrario. Perciò Berrettini merita ancora di più i nostri elogi, perché ci sta dando una lezione di sport e insieme di vita. L’unica cosa, non abbandoniamoci ad una retorica faziosa e partigiana: questa non aiuta né Matteo né, più in generale, lo stato del nostro giornalismo. Pardon, opinionismo.
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