Il primo dicembre del 1959 il Liverpool FC comunica l’approdo sulla panchina della Prima Squadra di William “Bill” Shankly. Provenienza Huddersfield Town, dove ha allevato tra gli altri Ray Wilson, futuro terzino sinistro dell’Inghilterra mondiale del 1966 e soprattutto Denis Law. È proprio Shankly, scozzese come Law, a scoprire ed innamorarsi calcisticamente di questo macchiaiolo della trequarti. Nel 1964 alzerà il Pallone d’Oro con la maglia del Manchester United. Che anno quel 1964.
I Beatles esplodono con uno dei capolavori meglio riusciti della loro intera discografia: il 10 luglio esce “A Hard Days Night”, quello, tanto per intendersi, con in copertina le facce di John, Paul, George e Ringo in primo piano e in pose più o meno plastiche. Qualche mese prima, il 18 aprile, il Liverpool FC è diventato campione d’Inghilterra asfaltando in casa l’Arsenal con un sonoro 5 a 0. A 17 anni dall’ultima affermazione. Sulla panchina dei Reds c’è Bill Shankly, lo scopritore di Denis Law, ma soprattutto l’eroe sempiterno del Liverpool Football Club.
«Life goes on day after day
Hearts torn in every way
So ferry ‘cross the Mersey
‘cause this land’s the place I love
and here I’ll stay»
(Ferry Cross the Mersey – Gerry and The Peacemakers, 1965)
Negli swinging sixties, tra le imbarcazioni che battono il fiume Mersey, come cantano trasognanti i Gerry and The Peacemakers, tutto è possibile. I cuori vibrano ad ogni angolo della città, non solo nei dintorni di 10 Matthew Street, dove campeggia il Cavern Club. C’è qualcosa di irrequieto ed elettrico, magnetico ed anticipatore in quel cielo grigio cenere simile ai fumi delle ciminiere delle fabbriche o dei battelli a vapore che attraversano l’estuario del Mersey prima che si immerga nel Mare di Irlanda.
Liverpool, molto più di Londra, è l’ombelico culturale di un intero continente, se non addirittura del mondo. Ben prima di Parigi, Praga, Los Angeles, Liverpool inizia ad armonizzare su di sé più voci e un’idea propria di identità che prende spunto anche dalle sue due squadre di calcio. Pazienza se il club più forte del mondo in quegli anni è la “Grande” Inter di Helenio Herrera e capitan Picchi. Difesa e contropiede hanno vita breve perché il Liverpool in Inghilterra anticipa la rivoluzione olandese che prenderà corpo a cavallo del decennio 60-70. Il lavoro di Shankly tra Melwood ed Anfield è un trattato di antropologia calcistico-sociale da tramandare ai posteri e forse l’esperimento meglio riuscito della storia del calcio del ‘900. Quello che impone Shankly al Liverpool è uno sconvolgimento tecnico e culturale di proporzioni mai viste.
Sorprende a dire il vero molto poco perché Shankly è l’uomo giusto al posto giusto. Il secondo dopoguerra è definitivamente alle spalle e la società mondiale si sta avvicinando ad ampie falcate verso il triennio 1966-1969 che sconvolgerà gli equilibri sociali e di consumo di miliardi di persone. Sulle rive del Mersey fin dal 1959, Shankly ha un solo obiettivo: riportare il Liverpool ai fasti del 1946-1947, primo campionato disputato dopo il secondo conflitto mondiale ed anno di grazia dell’ultimo titolo in casa Reds.
La sua carriera da calciatore è agli sgoccioli con il Preston North End, mentre nel 1962-1963 quando l’Everton conquista il suo sesto titolo, Shankly è a Liverpool già da quattro anni. Ha appena riportato in First Division i Reds ed è costretto a guardare i festeggiamenti dei Toffees dalla finestra di casa sua. Un po’ troppo per i suoi gusti. Mentre i Fab Four hanno definitivamente svoltato con “She Loves You” e sono pronti a conquistare gli USA, anche altri gruppi e solisti del calibro di Gerry and The Peacemakers, Billy J. Kramer and The Searchers, Cilla e molti altri, dominano le charts dell’intero pianeta. Il Cavern Club è meta di pellegrinaggio pagano musicale di frotte di giovani, giusto per aggiungere ritmo e furore all’atmosfera della città.
In una dinamica simile, il pensiero fisso di Shankly è uno: riportare il Liverpool FC a guardare tutti dall’alto in basso. L’anno successivo sarà così e il Liverpool consegue il titolo segnando la bellezza di 92 gol in 42 partite, dimostrando come abbinare calcio offensivo – secondo miglior attacco della lega, dietro a quello del Tottehnam dell’ex rossonero Jimmy Greaves – con la migliore difesa. All’epoca la First Division è un torneo a 22 squadre. Un campionato infinito, snervante, con partite ravvicinate e spesso agoniche. 17 anni dopo l’ultimo titolo, Shankly compie la sua seconda grande impresa della sua carriera, dopo la risalita nel calcio che conta di due anni prima. Qualcosa di difficilmente prevedibile in quel freddo pomeriggio di dicembre del 1959 ad Anfield.
«What do you want if you don’t want money
What do you want if you don’t want gold
Say what you want and I’ll give it you darling
Wish you wanted my love baby»
(What do you want – Adam Faith, #001 UK Charts 19 dicembre 1959)
Sei giorni prima del Natale 1959 Bill Shankly debutta al timone del Liverpool. Il risultato? Un disastroso 4 a 0 a favore del Cardiff City. Ad Anfield. La Spion Kop torna a casa frustrata e perplessa sulla scelta di questo scozzese. Shankly, insieme ai suoi fedeli assistenti Bob Paisley, Joe Fagan, Reuben Bennett, Albert Shelley, Arthur Riley, Tom Bush e Eli Wass, è consapevole della mole di lavoro che deve svolgere a tutte le latitudini. Il Liverpool ristagna in Second Division. Anfield è semideserto, a malapena si sfiorano le 20.000 presenze. Melwood, la casa degli allenamenti dei rossi, è una struttura fatiscente. Nei campi, oltre l’erba, ci sono pietre, detriti di vario genere, addirittura pezzi di vetro e il tecnico scozzese ogni giorno disossa con le sue mani il campo di allenamento del centro sportivo.
Shankly in quel momento ha compiuto 46 anni da qualche mese. Sporcarsi le mani per lui non è mai stato un problema. Anzi, nelle (ri)costruzioni si esalta. Le origini lo aiutano: Glenbuck, Scozia, minuscolo villaggio con qualche manciata di abitanti adagiato in cima ad una collina dove transita il fiume Ayr. Siamo nel sud-ovest del paese e rimboccarsi le maniche è consuetudine di ogni abitante di quella zona. La prima e la seconda rivoluzione industriale sono lontane ed hanno lasciato parecchi strascichi, non sempre positivi per la comunità. In quello spicchio di terra, un tempo traino dell’economia scozzese con le sue industrie di carbone e ghisa, il benessere è un vago ricordo. O forse è solo una fiaba raccontata dai nonni ai (pochi) bimbi del luogo.
Quando nasce Bill, il 2 settembre 1913, la crisi che attanaglia il sistema industriale del luogo è oramai in stato avanzato. Il primo conflitto mondiale è pronto ad esplodere in tutto il suo fragore e nulla sarà più come prima. Dal 1918 il baricentro mondiale si sposta dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti. L’aria di recessione spira in maniera ancora più feroce nel I°post guerra. Bill è l’ultimo di cinque fratelli e per il calcio è portato, proprio come Robert, detto Bob, il fratello, altro futuro tecnico di successo nei 60s al Dundee, sempre in Scozia. Nel 1931 viene chiuso l’ultimo stabilimento che produce carbone nel paese, ma il 18enne Shankly ha fatto in tempo ad assaggiare la durezza della miniera e questo sarà utilissimo nella sua identificazione con i supporter Reds.
Anche altri due suoi futuri colleghi, sempre scozzesi e di un certo spessore nella storia del football mondiale, condividono esperienze simili alle sue, seppure a chilometri di distanza: Jock Stein e Matt Busby. Il primo con il Celtic Glasgow, nel 1967, spazzerà via i dogmi del calcio all’italiana abbattendo in finale di Coppa dei Campioni i rimasugli della Grande Inter di Helenio Herrera, altro cattedratico di rilevanza della scuola latina del gioco. Busby, grande amico di Shankly, è l’artefice di due delle più grandi opere di ingegneria calcistica della storia. La prima è un’opera incompiuta e risponde al nome dei Busby Babes, cioé il Manchester United che dal ‘55 e il ‘58 delizia gli occhi di una generazione di appassionati.
Quella banda di diavolacci, governata da Busby e diretta sul campo dagli arpeggi di Bobby Charlton e dagli slalom di Duncan Edwards, è pronta a segnare un’epoca e solo un incidente aereo glielo impedisce. In quel maledetto 6 febbraio 1958 a Monaco di Baviera molti talenti di quella nidiata vedranno la loro fine. Da quel disastro tedesco sopravvivranno in pochi: il condottiero Busby, la mente Charlton, Foulkes e qualche altro. Edwards, forse il talento più brillante di quella covata, morirà all’ospedale di Monaco, dopo 20 giorni di lotta tra vita e morte. Come il Torino, anche il Manchester United si ritrova a vivere il dramma di molte vite spezzate e di un sogno infranto prima che diventasse realtà.
Eppure per Busby, molto prima dei granata che troveranno la loro completa rivincita dopo Superga solo nel 1976 quando sfioriscono le viole di Rino Gaetano, c’è una seconda chiamata del destino. Dieci anni dopo Monaco di Baviera la seconda generazione dei Busby Babes, trascinati da un numero 7 di nazionalità nord-irlandese definito da qualche benpensante il quinto Beatle al secolo George Best, fanno impazzire l’intera Europa. Insieme a Denis Law, Bill Foulkes, Nobby Styles, Brian Kidd e il sopravvissuto Bobby Charlton, lo United e soprattutto il suo mentore scozzese conquistano la tanto agognata Coppa dei Campioni. È il 1968: l’anno delle rivoluzioni e delle rinascite, dei nuovi dogmi e delle nuove speranze, delle primavere e dei nuovi inizi.
La Coppa dei Campioni resta un cruccio nell’epopea Shankly, ma il sentimento degli appassionati Reds nei confronti di questo manager è quello del primo amore: indimenticabile. L’esperienza in miniera, ma anche come soldato della RAF durante il secondo conflitto bellico, lo segnano e lo temprano. Anche per questo motivo la sua simbiosi affettiva e caratteriale con il tifo Reds, la Spion Kop, è fin da subito viscerale e passionale. Uno del popolo: come loro, con loro e per loro.
Già da calciatore Shankly si segnala come un difensore di coscienza e spirito. La sua carriera si sviluppa in due club: Carlisle United e soprattutto Preston North End, con cui vince la FA Cup nel 1938. 296 presenze e 13 gol, con i tifosi tutti alla sua pagina. Adorato è riduttivo, anche e soprattutto perché incarna in sé tutti i valori che un fan vuole vedere in un player: grinta, applicazione, sudore, duro lavoro, determinazione, umiltà. Forse anche per questo, ancora oggi, Shankly è considerato una leggenda del Preston e l’allenatore più amato della storia del Liverpool FC, in attesa di comprendere oggettivamente e con distacco il lascito di Jurgen Klopp.
Più di Paisley, l’uomo in grado di vincere 3 Coppe dei Campioni con i Reds nell’era post Shankly, più di Fagan, l’uomo che fece sprofondare nell’incubo Roma e i romanisti nel 1984, più di Benitez e la soprannaturale rimonta dell’Ataturk di Instanbul, Shankly è colui che riposiziona il Liverpool FC al centro del villaggio calcistico mondiale. Membro onorario ad libitum della Spion Kop, la curva del tifo più caldo dei Reds. Quella che per intenderci canta a squarciagola “She Loves You” dei Beatles o “You’ll never walk alone”, nella versione dei Gerry and Peacemakers, prima di ogni match casalingo ad Anfield.
“There are two great teams on Merseyside. Liverpool and Liverpool reserves” (Bill Shankly)
Per Shankly, dal 1959 sino al 1974, Red or Dead, rosso o morte, non è solo un motto o il titolo del romanzo di David Peace, assolutamente da leggere, bensì un mantra. È il primo comandamento da incidere nella pelle di ogni giocatore che indossa la gloriosa divisa rossa del Liverpool. Compromessi, quando c’è il Liverpool di mezzo, non esistono. Nella sua vita quotidiana con la dolce Ness e con le sue figlie, nella sua maniera di allenare, nella sua visione del calcio. Un esempio sono i 25 giocatori che vengono epurati tra le annate 1959/1960 e 1960/1961 da Melwood. Una rivoluzione in piena regola, necessaria, attuata da un uomo che non guarda in faccia niente e nessuno pur di raggiungere il successo. Meravigliosamente ossessionato dal successo.
Un boss severo, ma necessario, di un’umanità assolutamente ineguagliabile. Un seminatore, un artigiano in grado di immaginare e realizzare realtà innovative prima dei suoi dirigenti e dei suoi tifosi. Forse al giorno d’oggi sarebbe impossibile vedere Shankly sulla panchina del Liverpool dopo due mancate promozioni consecutive, ma al terzo tentativo, nel 1961-1962, Shankly regala la sospirata ascensione al suo popolo, oramai totalmente devoto alla sua persona. Ci è voluto tempo, male fondamenta sono solide e le ambizioni elevate. Dopo il settimo posto della prima stagione ai piani superiori, l’anno successivo ecco il titolo.
Tommy Lawrence, Gery Byrne, Ronnie Moran, Gordon Milne, Ron Yeats, Willie Stevenson, Ian Callaghan, Roger Hunt, Ian St John, Alf Arrowsmith e Peter Thompson, è la poesia imparata a memoria dalla Kop durante l’ascesa al trono d’Inghilterra nel 1964. Tatticamente Shankly, rispetto a Busby, Stein, Don Revie e Brian Clough, attinge a piene mani dalla scuola danubiana del gioco ed integra, proprio come Sir Alf Ramsey ct della Nazionale inglese e prima ancora dell’Ispwich Town, le tipicità fisiche e morali del calciatore britannico fatte di resistenza, eccellente corsa con la palla tra i piedi e generosità.
Alterna due sistemi di gioco come il 4-3-3 e il 4-4-2 (o 4-2-4 per dirla alla brasiliana) spesso in relazione all’avversario. Le innovazioni sono rilevanti per il mondo inglese, spesso ancorato agli antichi testamenti champaniani. Ad esempio, le transizioni offensive sono veloci e i capovolgimenti di gioco e campo vengono svolti con passaggi diretti e rasoterra, anticipando il gegenpress di Klopp. E come non parlare dei primi germogli di pressing iper-offensivo che si intravedono quando Hunt o St.John o Toshack o Keegan sono i primi difensori della squadra e pressano tutti e 90 minuti qualsiasi cosa si muova sul terreno di gioco? Ben prima dei Beatles, che marcheranno un pre e un post nella storia della musica pop e di Liverpool, a Melwood si disegnano e si pongono le fondamenta di una nuova narrativa per il Liverpool FC e Liverpool.
“Il socialismo in cui credo non è propriamente una questione politica. È un modo di intendere la vita. È restare umani. Credo che l’unica soluzione per vivere in modo degno e avere successo sia attraverso la collettività, quando tutti lavorano per gli altri e si aiutano tra loro e a fine giornata si divide quel che si è ottenuto” (Bill Shankly)
I valori sono i capisaldi su cui si fonda una cultura o un metodo di lavoro ogni individuo. Per Shankly la cura della tecnica di ogni giocatore è l’aspetto più importante su cui lavorare. Prima ancora della tattica, il lavoro svolto per migliorare le abilità di tocco del pallone di ogni singolo interprete sono i fondamentali su cui poi viene inculcato l’insegnamento shanklyniano. Le parole chiave sono quattro: controllo, passaggio, movimento, velocità. Anche per questo motivo fin dall’inverno del 1959, Shankly crea a Melwood la leggendaria gabbia, la nonna dell’attuale Footbonaut di casa a Dortmund.
Quattro grosse tavole di legno alte 2 metri e mezzo a recintare un perimetro di 9 metri dove all’interno i giocatori si sfidano in partitelle 3vs3 ad altissima intensità imparando a prendere, controllare e passare il pallonein velocità e con precisione. Secondo Shankly, se il pallone gira velocemente in avanti e con precisione, il giocatore in possesso di palla ha sempre due-tre alternative di giocata e a quel punto il gol può arrivare più facilmente.
La lezione è sempre lo stessa: vince chi fa più gol. Shankly crede nell’armonia del gioco corale, in cui ogni giocatore partecipa a tutte le fasi dell’azione e il singolo si esalta all’interno di un collettivo organizzato e dinamico. In poche parole, il vangelo portato in giro per il Vecchio Continente da Rinus Michels e Stefan Kovacs in panca e Johan Cruijff sul campo con l’Ajax dal 1969 sino al 1973. Prima di questo quadriennio dorato per i lancieri, c’è un gustoso antipasto, cui è protagonista anche il Liverpool.
Il 7 Dicembre 1966, secondo turno di Coppa dei Campioni, “Il Calcio Totale” è una realtà embrionale, ma è protagonista di uno squarcio tecnico di primissima grandezza. Ad Amsterdam quella sera c’è un nebbione leggendario. Dalla panchina non si vedono nemmeno i giocatori muoversi, tanto è bassa la foschia. È un match fantasma, le condizioni per giocare non sussistono, ma sia l’Ajax, sia il Liverpool, vogliono scendere in campo ad ogni costo. Per parte olandese il motivo è molto semplice: al De Meer ci sono 55.000 persone che vibrano e desiderano godersi i campioni d’Inghilterra dal vivo, di lì a tre giorni ospiti all’Old Trafford di Manchester contro lo United di Best e Charlton, in un match fondamentale per la rincorsa al secondo titolo consecutivo.
Gli inglesi sono invece convinti di passeggiare contro Crujiff e compagni, ma il risultato finale li smentisce clamorosamente: 5 a 1 per gli olandesi con Johan in nottata pirotecnica. L’Europa scopre che in Olanda c’è una nuova maniera di giocare e concepire il calcio. Non più battaglia individualista, bensì ricerca di spazi. Shankly con il suo calcio cooperativo, fatto di passaggi nello spazio, attacchi fulminei volti a trovare le difese avversarie impreparate, trova pane per i suoi denti con le idee di Michels. Lo riconosce anche David Winner, saggista e giornalista inglese, autore di un saggio indispensabile per comprendere il calcio olandese e non solo, “Brilliant Orange”:
“Gli olandesi hanno sviluppato maniere ingegnose di affrontare il problema di un territorio pianeggiante esposto alle inondazioni. Una cultura basata sulla cooperazione e volta a trarre il massimo dalla più piccola porzione utilizzabile di spazio.”
Il 1966 è un anno singolare nella storia orange e si chiude come meglio non si potrebbe per l’Ajax. La rivolta giovanile di Amsterdam lascia a tutti i livelli una sensazione di rinascita e riscoperta delle proprie potenzialità. Se Liverpool è l’epicentro musicale di quest’epoca – assieme alla Londra degli Stones – Amsterdam, ben prima di Parigi del 1968, diventa la Terra Promessa di una gioventù con la voglia di sovvertire le regole e di cambiare i paradigmi della società. Michels e i suoi ragazzi cambieranno le leggi del voetbalcome lo intendiamo oggi e sono una delle immagini di copertina di questa rivoluzione.
Solo Shankly sembra non rendersene conto, tanto è vero che due settimane dopo è convinto di ribaltare il pesante passivo. Mera illusione, perché come all’andata trova Crujiff sulla sua strada. Ad Anfield termina 2 a 2 e i Lancieri avanzano in Coppa Campioni. Il 1966 è un anno maledetto a livello europeo per il Liverpool. Il 5 maggio 1966, Callaghan e compagni, perdono la finale di Coppa delle Coppe ad Hampden Park di Glasgow contro il Borussia Dortmund con il risultato di 2 a 1.
Nonostante il secondo titolo inglese conquistato, grazie anche ai 29 gol di Hunt, a Liverpool c’è aria di grande occasione persa. Poco male, perché l’estate del 1966 è quella di Pet Sounds dei Beach Boys e di Revolver dei Beatles, ma soprattutto è quella dei Boys of ’66 di Sir Alf Ramsey capaci, in un pomeriggio di fine luglio, di alzare al cielo di Wembley la Coppa Jules Rimet. Di quella spedizione vincente fanno parte Hunt, protagonista con tre gol durante il cammino, Callaghan e Byrne.
La targa ai piedi della statua di Shankly ad Anfield recita “He made people happy”, riassumendo in meno di 140 caratteri l’amore di Shankly per Liverpool e la sua gente. Sentimento contraccambiato, ma coltivato sempre con la parola giusta al momento giusto, il sacrosanto diritto di difendere i meno privilegiati, la necessità di polemizzare verbalmente contro i manager delle “grandi” di Londra, spendersi in difesa dei ragazzi della Kop.
Come nell’Aprile 1973. In testa alle classifiche inglesi, nelle prime settimane del mese c’è “Get Down” di Gilbert O’Sullivan, stralunato e malinconico cantante irlandese assurto a gloria imperitura l’anno precedente con la super hit Alone Again (Naturally).Il Liverpool è nuovamente campione d’Inghilterra, la terza volta con Shankly al comando. È dalla Charity Shield del 1966 che il Liverpool non rimpingua la sua bacheca, ma poco importa. Il manager scozzese sta camminando sul prato di Anfield per raccogliere, durante il giro d’onore, il solito grande abbraccio made in Reds. Applausi e commozione, ringraziamenti e idolatria si mescolano ad Anfield.
Durante i festeggiamenti il pubblico – come da tradizione – lancia di tutto sul campo, tra cui moltissime sciarpe. Un poliziotto, per non intralciare la passeggiata del tecnico neocampione d’Inghilterra, getta a bordo campo una sciarpa lanciata dalle tribune. Shankly osserva la scena e appena si rende conto di quello che succede va su tutte le furie, rimproverando l’agente: “Non farlo, per te è solo una sciarpa, per un ragazzo rappresenta la vita” e cingendosi al collo la sciarpa del fortunato supporter. Il tutto a pochi metri da un microfono.
Il 1973, come il 1966, è un anno chiave nella storia del Liverpool. Dopo il campionato vinto, Shankly è chiamato a conquistare l’Europa. Più precisamente la Coppa Uefa. L’avversario è un’altra tedesca come nel 1966. In quel caso il Borussia Dortmund, stavolta il Borussia Mönchengladbach dello stratega Weisweiler, culture di calcio iperoffensivo, verticale e fluido, nonché personaggio che meriterebbe un pezzo a parte molto più lungo e dettagliato. Si comincia ad Anfield.
Shankly conscio che quel Borussia attaccherà fin dal fischio iniziale opta per una tattica più prudente rispetto agli standard anfieldiani schierando solo due punte. A farne le spese nell’11 titolare è il gallese John Toshack, centravanti dal curriculum tutt’altro che trascurabile in jersey Reds: 96 gol in 247 presenze e posizione numero 41 nella top 100 dei preferiti all time della Kop. Mercoledì 9 maggio è previsto il primo round, ma quella sera a Liverpool si abbatte un diluvio di proporzioni bibliche. Non sarà l’ultimo. Dopo mezz’ora di gioco, in cui si gioca a pallanuoto piuttosto che a calcio, l’arbitro austriaco Erich Linemayr sospende la gara e rinvia tutto al giorno dopo.
Giovedì 10 maggio, più di 40.000 persone sono pronte a spingere i Reds verso la coppa. Shankly dal giorno prima si porta a casa due appunti preziosi: i tedeschi sono meno spavaldi del previsto e i loro difensori sono fisicamente inferiori alle punte del Liverpool. Altro episodio di rilievo in quelle ore di avvicinamento al match. John Toshack, il grande escluso della sera precedente, si presenta nell’ufficio di Shankly nella mattinata della finale. Il nativo di Cardiff è una furia per essere stato escluso nella scelta dell’11 titolare e muove tre capi di imputazione al boss.
Primo punto: il Liverpool si gioca la sua seconda finale europea della storia difendendosi? È una cosa inconcepibile. Secondo punto: giocando così, al ritorno al Bökelbergstadion i tedeschi massacreranno il Liverpool. Terzo punto: le scelte sono tutte farina del sacco di Shankly o c’è la forte influenza di Paisley e Fagan in certe valutazioni? Il confronto tra i due è aspro, ma utile. Poche ore dopo Toshack compare tra i titolari e porge due assist per la doppietta di Keegan nel primo tempo. Nella ripresa è Keegan in versione assistman da calcio d’angolo a regalare il pallone per Lloyd che di testa batte Kleff. Sembra l’antipasto calcistico del ben più celebre The Rumble in the Jungle, lo storico match per la cintura dei pesi massimi del 30 ottobre 1974 a Kinsasha – all’epoca capitale dello Zaire – tra Foreman e Alì.
Anche ad Anfield non manca nulla, tra rigori parati, Kleff su Keegan al 25’ e Clemence su Heynckes al 65’, una miriade di occasioni da ambo i lati e continui ribaltamenti di fronte. È una nottata da leggenda, ma è solo il primo round, bisogna ancora andare in Germania Ovest. 23 maggio 1973 è un’altra nottata di tragedia climatica. Piove ancora una volta in maniera torrenziale. Al Bökelbergstadion Netzer e compagni sono dei diavoli che spuntano da ogni dove. È un’aggressione continua e costantealla porta difesa da Clemence. Heynckes – capocannoniere di quella edizione dell’Uefa con 12 gol – nel primo tempo buca due volte la linea difensiva composta da Lawler, Smith, Lloyd, Lindsay e Hughes.
Il Liverpool sembra capitolare, ma nella ripresa trincea, fango e sudore si fondono e regalano al Liverpool il primo trionfo europeo. Il ritorno in città è accompagnato da centinaia di migliaia di tifosi che celebrano quella coppa tanto attesa e desiderata. SHANKLEEEE-SHANKLEEEE è il coro che la fa da padrona e che raggiunge il picco di decibel tra le colonne corinzie della Picton Library in William Brown Street. “Questo è il giorno più bello della mia carriera, questo è il giorno più bello della mia vita” declama Shankly trattenendo a stento le lacrime davanti ad un mare di maglie e sciarpe rosse in totale adorazione sua.
“Some people believe football is a matter of life and death, I am very disappointed with that attitude. I can assure you it is much, much more important than that” (Bill Shankly)
Shankly dopo il double, nell’anno in cui l’Inghilterra non si qualificherà al mondiale di Germania Ovest, vuole provare a ripetersi in campo nazionale, ma soprattutto vuole l’affermazione in Coppa dei Campioni. Ok, c’è l’Ajax, orfano di Crujiff, il Bayern Monaco di Müller e Beckenbauer, la Juventus di Causio, Bettega e Anastasi, l’Atletico Madrid del non ancora savio de Hortaleza, Luis Aragones, alle ultime cartucce da calciatore, ma il Liverpool si sente all’altezza di questi squadroni.
La voglia di arrivare sul tetto d’Europa è tanta, forse anche troppa, tanto è vero che, come nel 1966, i Reds andranno fuori al secondo turno. Questa volta a chiudere le porte del sogno continentale sono gli slavi della Stella Rossa con un doppio 2 a 1 tra Marakana e Anfield. Protagonista assoluto dei due incontri Vojvin Lazarevic, montenegrino e falso 9 ante litteram ben prima di Messi e figliocci vari comparsi in quest’ultimo decennio guardioliano, che manda alla neuro i nerboruti difensori inglesi.
Quell’eliminazione apre uno squarcio nel cuore di Shankly. La rincorsa in campionato sul maledetto Leeds United di Don Revie e il Derby di Brian Clough non porta i risultati sperati. Fatale la sconfitta casalinga a tre giornate dalla fine contro l’Arsenal, mentre va meglio in FA Cup. La finale di Wembley di quell’anno è contro il Newcastle United e non c’è realmente storia grazie alle marcature di Keegan, due come un anno prima in Uefa, e Heighway nella ripresa. Un 3 a 0 netto e perentorio, la sua seconda Coppa d’Inghilterra, la sua ultima Coppa d’Inghilterra come manager del Liverpool FC.
La decisione dell’addio matura tra le mura della sua bifamigliare di Bellefeld Avenue a West Derby Road, la tipica strada inglese incastonata in uno dei tanti quartieri residenziali di Liverpool. La moglie Ness ascolta, annuisce e non proferisce parola. Intuisce che quell’addio non è quello che vuole veramente il marito, ma lo vede svuotato. Comprende che deve ricaricarsi e riposare, ma è consapevole che si pentirà di quella decisione. La caduta contro lo Stella Rossa è stata l’ultima goccia, la fine di un sogno. Dopo 43 anni nel mondo del calcio, di cui gli ultimi 15 con la maglia Reds tatuata addosso, per Shankly è arrivato il momento di levare il disturbo.
Il 12 luglio 1974 è la fine ufficiale del regno Shankly su Liverpool, ma non della sua impronta su questo club. La sua eredità viene presa da Bob Paisley, suo storico assistente, ma non sua indicazione di successione. L’uomo giusto per Shankly è Ian St John, “The Saint” per i tifosi della Spion Kop, uno degli eroi del titolo del 1964. Poco male visto i successi di Paisley, ma quel sentimento di purezza e complicità tra manager e tifo si disperde. Il suo ritiro, come prevedibile, per il club e Paisley è fin da subito difficile da gestire.
Bill continua a frequentare Melwood ed Anfield, la sua ombra è ingombrante. Si capta, si respira, si tocca con mano proprio come nel caso più recente di Sir Alex Ferguson, anche lui scozzese, con il Manchester United. Il ritiro, come prevedibile, non fa per l’uomo di Glenbuck. Da sempre abituato a rimboccarsi le maniche, da sempre pronto ad essere in prima linea per quello in cui crede, il ruolo da comparsa gli sta stretto. Dal 12 luglio 1974 fino a quel maledetto 29 settembre 1981 per Shankly si apre il baratro della speranza, del dubbio, del rimpianto. L’ossessione totalizzante per il calcio è sempre viva. Non cenere, ma fuoco ancora ardente e vivo. Un re senza corona, riverito dai tifosi, osteggiato dallo stesso club a cui ha ridato dignità e forse molto di più di quanto abbia ricevuto in cambio. Proprio come in tante storie d’amore che finiscono senza comprendere veramente il motivo.
Tre campionati, quattro Charity Shield, due Fa Cup, una Coppa Uefa e una promozione in First Division, un palmares di pregio, ma soprattutto la certezza di aver compiuto la missione nel migliore dei modi, come ha sempre sostenuto Ronnie Moran, uno dei suoi principali luogotenenti di tanti trionfi: rimettere il Liverpool al centro della cartina geografica calcistica mondiale. Shankly ha preparato il terreno per le vittorie europee di Paisley e Fagan, ma soprattutto ha tramandato un testamento di leggi scritte e non scritte su come si deve concepire e vivere il calcio con la maglia Reds addosso, ad Anfield e sulle rive del Mersey.
“I’ve always said he put Liverpool where it is today. He revolutionised the club. Bill got the ball rolling” (Ronnie Moran)
Ecco perché storia e mito, quando si parla di Liverpool, si fondono in un solo nome e cognome: Bill Shankly. La leggenda, il genio, l’uomo, l’immortale.