Bob Marley non è stato solo un grande artista. L'amore per il calcio ha guidato le sue note musicali.
Il 27 giugno del 1980 l’Italia intera si ferma: arriva Uprising Tour, l’evento musicale dell’anno. Allo stadio San Siro si esibisce uno degli artisti più influenti dell’epoca, capace di entrare, attraverso i versi delle sue canzoni, nel cuore di intere popolazioni: a prescindere dalla nazionalità, a prescindere dalle diverse culture, dal colore della pelle, dalle convinzioni politiche. Un uomo capace di far convivere in serenità un’enorme Torre di Babele grazie all’unico mezzo che consente l’unione fra genti diverse: la musica. A San Siro arriva Robert Nesta Marley, meglio conosciuto comeBob Marley.
Per l’evento si registra il tutto esaurito, gli spettatori sono all’incirca centomila e, prima di lui, si esibiscono due giovani cantanti italiani in cerca di successo: Roberto Ciotti e Pino Daniele. Il fatto che abbia scelto proprio San Siro come sede dell’evento potrebbe non essere una casualità. Bob Marley sceglie un luogo in cui si gioca a pallone. Perché? Forse perché – per chi non lo sapesse – Bob è stato un grande appassionato di calcio e dove, se non nella scala del calcio, poteva tenere il suo concerto? Due sono le cose che Bob ha amato nella sua (purtroppo) breve vita: la musica e, appunto, il football.
Nelle strade di Rhoden Hall, il villaggio giamaicano ai piedi della collina Nine Miles dove è nato nel 1945, il piccolo Bob inizia a giocare a pallone insieme ai suoi amici. La sua è stata un’infanzia difficile, come quella della maggior parte dei bambini giamaicani. Le difficoltà economiche, l’essere rimasto orfano di padre in adolescenza e lo stesso rapporto con il padre (praticamente nullo) segnarono in modo netto la vita di Bob.
«Non ho avuto padre. Mai conosciuto…Mio padre era come quelle storie che si leggono, storie di schiavi: l’uomo bianco che prende la donna nera e la mette incinta»
Alla già complicata situazione legata al luogo di nascita, si aggiunse un’ulteriore difficoltà: le stesse origini di Marley. Era mulatto, nato da padre inglese bianco, Norval Sinclair Marley, e madre giamaicana nera, Cedella Booker. Ciò portòBob ad essere vittima di violenze – sia verbali che fisiche – da parte dei suoi coetanei (e non solo) che lo portarono a chiudersi in se stesso. Agli inizi degli anni sessanta la madre decise di trasferirsi in città, stanca della monotonia e della disperata situazione del villaggio. La metropoli che accolse Cedella e l’adolescente Bob non fu una qualsiasi, ma Kingston, uno dei centri abitati col più alto tasso di povertà e criminalità del mondo.
Il quartiere che li ospitò fu il peggiore possibile: Trench Town. Un posto che ricorda – idealmente, ma non troppo – una sorta di giungla dalla quale è difficile (se non impossibile) venire fuori. Le strade strette, gli occhi della gente che seguono i tuoi passi, i colpi di pistola: tutto ciò è rimasto scolpito nella mente di Bob. Trench Town è ricorrente nei suoi testi, è un ricordo pesante come il masso di Sisifo: proprio come il macigno sembra vicino alla vetta e poi rotola giù travolgendo Sisifo, così Trench Town svanisce per pochi istanti per poi tornare e martoriare la mente di tristi ricordi.
Trench Town è l’Eterno Ritorno nietzschiano. Non è possibile liberarsene. «Trench Town non è in Giamaica, Trench Town è ovunque, perché è il luogo da cui vengono tutti i diseredati, tutti i disperati, perché Trench Town è il ghetto, è qualsiasi ghetto di qualsiasi città…E se sei nato a Trench Town, non avrai la benché minima possibilità di farcela». Su questo, come sappiamo, per fortuna si sbagliava.
Intorno ai diciassette anni in Bob avviene un profondo cambiamento spirituale: si allontana dalla religione alla quale era stato educato, il Cristianesimo, perché incuriosito dal Rastafarianesimo, dottrina che ha in Jah il suo Dio. Bob Marley dedica anima e corpo al nuovo credo e inizia a seguirne le tradizioni: per prima cosa fa crescere i dreadlocks, i caratteristici capelli dei rastafariani, simbolo di purezza; fuma marijuana perché libera la mente, elimina i cattivi pensieri e – soprattutto per lui, che sta per intraprendere la carriera d’artista – è fonte di ispirazione.
Proprio in questo periodo si apre alla musica. Quella di Bob Marley va nella profondità dell’animo. È il Reggae, la colonna sonora dell’esistenza umana. Negli anni sessanta, insieme ai suoi amici Peter Tosh e O’Riley Livingston, Bob fonda i The Wailers, il gruppo reggae più famoso della storia. Nel frattempo l’altra sua passione non è svanita. Anzi, è più presente che mai. Marley non perde mai occasione per giocare a calcio. Prende a calci qualsiasi cosa gli capiti davanti, gioca in qualsiasi luogo, anche se il suo preferito è il campetto vicino casa dove è spesso immortalato in fotografie e video con un pallone fra i piedi.
La sua passione per il calcio contagia anche gli altri membri della band: nascono vere e proprie sfide durante le pause dei tour, oppure negli stessi studi di registrazione. Insomma, un amore incondizionato verso questo sport. Non tifava una squadra in particolare, gli piaceva il calcio in quanto sport da praticare in prima persona, forse per non pensare ai problemi che la vita gli aveva riservato in passato, quando ancora non era famoso, oppure per staccare dallo stress accumulato nei lunghi viaggi intorno al mondo. D’altronde, come disse egli stesso, “Football is freedom“; come dargli torto.
“Se non fossi diventato un cantante sarei stato un calciatore…o un rivoluzionario. Il calcio significa libertà, creatività. Significa dare libero corso alla propria ispirazione”
In verità, una squadra che lo faceva emozionare c’era: era il Santos di un certo Edson Antares do Nascimiento, altrimenti noto come Pelé. E chi se non lui poteva essere l’idolo “fútbolistico” di Bob Marley? Apprezzava la fantasia del fuoriclasse brasiliano perché, in qualche modo, si rivedeva in lui. Dare libero sfogo alle proprie emozioni, lo facevano entrambi: uno col pallone, l’altro con la musica. Il calcio ebbe un ruolo centrale anche nella diagnosi della sua malattia. Nel 1977, dopo una partita, Bob sentì un dolore all’alluce del piede destro e, sfilata la scarpa, si accorse che c’era qualcosa che non andava: l’unghia era nera e dolorante. Un pestone, che sarà mai.
Ma in un’altra partita il male fu ancora più intenso e l’unghia finì per staccarsi. Si sbagliava: non era un semplice pestone, ma un melanoma, un tumore maligno della pelle. Insieme alla famiglia consultò molti medici che diedero pareri diversi: chi consigliò di amputare solo il letto dell’unghia, chi l’alluce, chi – addirittura – l’intera gamba. Nel film documentario Marley diretto da Kevin MacDonald – pellicola che ripercorre l’intera vita del cantante giamaicano attraverso le parole di chi l’ha conosciuto -, alcuni parenti di Bob dicono che rifiutò di amputare l’alluce perché altrimenti non avrebbe più potuto giocare a calcio. E questo era impensabile. Bob decise di amputare solo il letto dell’unghia e, a dire il vero, sembrò riprendersi. Ricominciò con i tour che segnarono un’epoca: Babylonia by bus e Uprising Tour. Arrivarono concerti a cui assistettero migliaia di persone. Tutto il mondo era impazzito per Bob Marley.
Nel giugno 1980, a tre anni di distanza dalla diagnosi del cancro, Bob Marley si esibì in due concerti a New York. Una mattina, mentre faceva jogging a Central Park, fu sorpreso da un collasso e cadde a terra privo di sensi. Effettuati gli accertamenti del caso, arrivò la notizia che nessuno avrebbe voluto sentire: il cancro era tornato. Come il masso di Sisifo. Come Trentch Town. Ed era ad uno stadio avanzato: metastasi a polmoni e cervello. Ricominciò a curarsi ed ebbe la forza di reagire anche questa volta tanto che, nel settembre dello stesso anno, si esibì allo Stanley Theater di Pittsburgh: fu il suo ultimo concerto.
La malattia, col passare del tempo, lo rese più debole. I suoi dreadlocks si indebolirono ed iniziarono a cadere. Bob prese la dolorosa decisione di tagliarli. Lo fece in una sorta di rituale sacro: li tagliava e, contemporaneamente, leggeva le pagine della Bibbia bagnate dalle sue lacrime: la fine era vicina. L’11 maggio 1981, al Cedar of Lebanon Hospital di Miami, dove era stato ricoverato d’urgenza per l’aggravarsi delle sue condizioni durante l’ultimo viaggio verso la Giamaica, Bob Marley morì. Aveva solo trentasei anni. Poco prima di morire desiderò parlare con i suoi figli e, con le poche forze rimastegli in corpo, pronunciò le sue ultime parole a Ziggy
“I soldi non possono comprare la vita”.
Bob ricevette i funerali di Stato e la cerimonia di sepoltura si svolse seguendo un rito misto fra ortodossia etiopica e Rastafari. Venne sepolto nel suo luogo natale, Nine Mile, insieme ad alcuni oggetti a lui cari che ne hanno segnato l’intera esistenza: una chitarra, una pianta di marijuana, un anello, una Bibbia e, immancabile, il suo pallone da calcio.