Non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. C’è una targa, in porfido, una targa fissata in un angolo, giù in fondo a un muro di cinta. E’ una piccola targa e come tutte le cose qui nessuno sa quanto resisterà, neanche quanto la lettura della stessa possa imprimere la fermezza del monito. Perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. Per osservarla bene occorre salire un paio di gradoni di cemento sgranato e a quel punto tra le maglie di una grata di ferro si legge:
“In questo luogo, il 12 aprile 1993, 74 bosniaci di Srebrenica e della Drina sono stati uccisi da una granata”.
Erano tutti bambini. La maggior parte arrivati con le famiglie dai paesi limitrofi perché Srebrenica doveva essere un luogo sicuro. E invece no, perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. La riva destra del fiume, zeppa di milizie serbo-bosniache, lo stava per confermare. Erano tutti in questo campo da basket i bambini, perché questo luogo con la targa era una campo da basket. Un posto dove i bambini giocavano ma non fu sufficiente a tenerli al riparo, così come le risoluzioni ONU non hanno salvato nessuno, perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. Un eccidio durato cinque giorni che costerà la vita a oltre 7.000 persone e ancora oggi Srebrenica resta recesso buio della memoria d’Europa. La Bosnia e il Basket, dunque.
Restò l’intelaiatura e lo spirito del gioco, restarono tabelloni anneriti, sverniciati. I canestri scomparvero tranciati dalla follia e chi il giorno dopo avesse voluto fare un tiro non avrebbe colpito nulla, avrebbe sentito solo uno strano rumore sordo, il rumore del nulla, perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. Eppure accanto a quel campo da gioco sono cresciuti altri ragazzi, si sono mosse altre automobili, si sono alzati altri palazzi adornati di altri graffiti. Quel giorno, quel giorno maledetto, c’era chi scriveva e chi scappava, chi sparava e chi moriva, perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo, e tutto ciò che sentite dire su questa guerra non è sicuro, come le cose qui. Chi è sopravvissuto vi dirà che nessuno ha fatto niente, nessuno sapeva niente, niente di niente, solo proclami e rivendicazioni perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo, ma hanno visto i caduti e hanno seppellito i propri morti, prima che i morti seppellissero altri morti.
Qualcuno in questo rettangolino ameno di città dedicato alla pallacanestro ci ha giocato, ha segnato dei punti, vinto partite, abbracciato compagni, si è salvato per un po’, perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. Eppure fra le selve di croci in attesa della risurrezione della carne almeno il gioco è rinato, è bastato agganciare nuovi cerchi con nuove retine, riverniciare, risistemare e gettare il resto. Pensateci, quando fate una penetrazione o un arresto e tiro, in qualunque posto del mondo voi siate, pensate che un giorno forse non esisteranno nemmeno da voi cose sicure, e ogni cosa sarà appesa a un filo, quello invisibile della libertà.
Un pugno di giocatori e un allenatore, teneteli a mente, così, sfocati come su uno sfondo nebbioso, perché ci ritorneremo. La Bosnia è silenzio, la Bosnia è preghiera. Il richiamo dei Muezzin dai minareti, proiezioni di fede che pungono il cielo, le abluzioni, i calzari, le ginocchia, il pavimento, Allah il grande e misericordioso. Le Moschee furono danneggiate ma restarono fruibili. Nessuno ci faceva caso, non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. E tutti si radunano ad abbracciare una fede mai abiurata. Fuori il cielo e il fluire della Miljacka solcata dai ponti da cui, alla sera, si vedono i chiarori delle case sulle montagne, punti luce sospesi ad annunciare la volta celeste.
Non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo, anche le stelle. Nel 1914 un tale, Gavrilo Princip, rivoluzionario secessionista, a un incrocio di strade, sparò con una pistola uccidendo l’Arciduca d’Austria erede al trono, Francesco Ferdinando, innescando la scintilla che avrebbe fatto precipitare il continente nei miasmi delle trincee. Sarajevo è un’idea, un equilibrio instabile come il sonno dei cani, non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. Nel basket un cecchino è un tiratore infallibile. A Sarajevo un cecchino è un’altra cosa, un tiratore anch’egli ma con fucili ad alta precisione, letale, nascosto, con il diritto di decidere della vita di un uomo.
E per quattro anni da qualsiasi parte ti voltassi, sparavano, perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. Dovunque cartelli forati da proiettili arrivati da chissà dove e chissà quando: “Pazi snajper”, attenzione: cecchino. Per terra i cadaveri. Però a scuola si poteva andare e anche al lavoro. Solo che a volte non si tornava perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo. Eppure Sarajevo ha saputo guardare la tragedia con strafottenza sincera l’ha guardata e non ha avuto mai paura. I teatri restavano aperti, qualcuno organizzava eventi. Bisognava vivere.
Ma può un luogo trasformarsi nell’inferno e sembrare casa? Scrive Nedžad Maksumić:
“Nei giorni dei grandi temporali il cielo era rosso. La pioggia portava con sé la polvere dei deserti d’oltre mare. I vecchi dissero: “Ci sarà la guerra!”. Nessuno prestò credito alle loro parole. E nessuno fece nulla. Giacché, cosa si poteva fare contro la profezia?!? Solo cantammo per intere giornate, fino a restare senza voce per poter consumare tutte le vecchie canzoni, perché non ne restasse nessuna che venisse sporcata dal tempo”.
Ed è proprio cosi, non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo, Dio o il destino, intercambiabili, a piacere.
Nella primavera del 1979 Sarajevo era in festa, vi ricordate quei giocatori citati poco fa, ci siamo. La gente usciva allegra, affollava i bar di Baščaršija, mentre le radio trasmettevano le canzoni dei Bjelo Dugme. Capannelli di persone festanti sul ponte Vrbanja nel quartiere di Grbavica, e sul ponte Latino. Ma il viadotto maggiormente intasato di felicità era il ponte Skenderija quello che portava al palasport del Bosna Sarajevo, si perché il Bosna Sarajevo aveva appena battuto nella finale di Grenoble, per 96 a 93, l’Emerson Varese e per la prima volta una formazione Yugoslava vinceva la Coppa dei Campioni.
Tutti gli abitanti della città celebravano lo storico momento sportivo ma ognuno sapeva che non esistono cose sicure, qui, ogni cosa è appesa a un filo, soprattutto quella litania: “Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti, un solo Tito”, e allora nel cono d’ombra di vent’anni dopo, tutto andò sbriciolandosi. Quel gruppo di giocatori era allenato da Bogdan Tanjević, giovane baffuto satanasso, estroverso e visionario tecnico di pallacanestro. Tanjević aveva assemblato una squadra a sua immagine e somiglianza con giocatori forti e duttili, perfetti per il suo sistema.
Un buon playmaker, Svetislav Pešić, poi Žarko Varajić un’ala vigorosa, un paio di combattenti, Anto Djogić e Zdravko Čečur, e due fenomeni assoluti: Ratko Raša Radovanović e Mirza Delibašić. Per avere Mirza nel suo quintetto si racconta che Tanjević nottetempo si presentò alla porta dei genitori del ragazzo sfoggiando tutte le sue doti, del tutto balcaniche, di imbonitore e dopo avergli storditi con i suoi ridondanti discorsi sulla necessità che un giocatore bosniaco facesse la fortuna di una squadra bosniaca infilò Mirza in macchina portandolo a Sarajevo poche ore prima che arrivassero gli emissari della Stella Rossa, perché non esistono cose sicure, qui ogni cosa è appesa a un filo, come lo stendardo che ricorda che Sarajevo il 5 aprile del 1979 si sedette sul trono del basket europeo.