Altri Sport
30 Novembre 2022

La boxe cubana dopo Fidel

Una nuova rivoluzione, stavolta sportiva.

Il 2022 è un anno rivoluzionario per la boxe cubana. Dopo sessant’anni, infatti, l’isola ha aperto al professionismo attraverso le dichiarazioni del Presidente della Federazione Alberto Puig, che ha annunciato il nullaosta da parte del governo per l’ingresso dei suoi pugili tra i pro. La svolta ha un sapore storico, intriso sì di sana eccitazione ma anche di quel gusto agrodolce del tramonto di un’era. Un’era che ha cambiato per sempre il pugilato cubano, creando un ecosistema sui generisidiosincratico e profondamente permeato dall’ideologia socialista. Un’era di ori olimpici, di prestigio ed atleti raffinati, ma anche di propaganda ed ostracismi. Un’era che ha segnato la nobile arte nella isla del caiman dormido e la nostra idea di essa.

Lo stile pugilistico cubano è da sempre rispettato da tutti ed amato da alcuni, malgrado – o soprattutto per – la connotazione che assunse durante il periodo castrista.

Certo, anche prima della Rivoluzione il legame tra il pugilato e l’isola era profondo, ma è con essa che avverrà una vera e propria simbiosi tra lo sport stesso e la politica. Un binomio integralista, dall’attitudine intransigente, suggellato dalla decisione di Fidel, nel 1962, di vietare il professionismo sull’isola. Per sei decadi, la campana di vetro data dalla separazione dai pro porterà a riconoscimenti internazionali e successi olimpici, ma anche ad un certo grado di discrasia di giudizio sulla reale tenuta degli atleti cubani. Ora che siamo al suo tramonto, come la dobbiamo giudicare?


Lo sport come Derecho del pueblo


Lo sport ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella società, secondo la visione di Fidel. Non solo per la sua funzione propagandistica, ma anche e soprattutto per quella educativa. Infatti lo sport – e in particolare il pugilato – racchiude valori di importanza critica per lo sviluppo di una società in salute, ed è considerato dallo stesso Castro “diritto del popolo”. Anche per questo motivo il professionismo viene concepito dal Lider Maximo uno sporco tentativo di infangarne la purezza, di inquinarlo con i mefistofelici principi del modello di mercato capitalista. Nel 1961, da segretario del Partito, Fidel aveva allora creato l’INDER (Instituto Nacional de Deportes, Educación Física y Recreación), nato proprio con l’intento di massificare lo sport, di renderlo un mezzo di espressione accessibile a tutti.



Poi, la già citata esclusione del professionismo dall’isola, considerato uno strumento per “arricchire solo pochi a spese dei molti”. Infine, una serie di riforme strutturali atte a garantire ai giovani cubani un approccio integrato con l’educazione fisica, a partire dalla scuola, con centri specializzati per ogni livello (la cosiddetta “piramide ad alto rendimento”). L’idea è quella di proteggere e incoraggiare il talento, inserendo lo sviluppo degli atleti in un sistema che li conduca ad una completa integrità, fisica e morale. Integrità che, ça va sans dire, non può prevedere l’accumulo di denaro. Il pugilato, già fiore all’occhiello dell’isola antillana, si incastona perfettamente nel modello nazionale: dalle palestre di quartiere fino ai grandi palcoscenici. 

Fino al 1958, Cuba non era mai salita sul gradino più alto del podio olimpico: dopo la Rivoluzione, saranno 78 le medaglie arrivate dal ring, di cui 41 d’oro.

Diventa così il Paese con il maggior numero di podi pro capite, nonostante gli atleti cubani abbiano boicottato ben due Olimpiadi (Los Angeles ’84 e Seul ‘88). Anche prima dell’avvento di Fidel, numerosi pugili – su tutti Kid Chocolate – avevano tenuto alta la reputazione dell’isola caraibica. Ma con l’avvento del castrismo lo stile cubano, fondato sul controllo della distanza e sul movimento di piedi, quasi a sublimare il combattimento in un balletto, si fonde con la raffinata tecnica sovietica, importata grazie alla consolidata amicizia con l’URSS.

In particolare, per alzare l’asticella del livello pugilistico arrivano sull’isola allenatori esperti come Evgueni Ogurenkov, Vasili Romanov ed Andrej Chervonenko. Il connubio tra questi due mondi porterà alla fioritura di numerosi talenti: alcuni di essi sfrutteranno le sporadiche trasferte in Paesi esteri per disertare il rientro e scappare da Cuba; altri invece resteranno, mantenendo il loro status di dilettanti e garantendosi il pieno supporto del partito. Tra questi, i più celebri e titolati saranno due hijos de la Revolución, entrambi per tre volte ori olimpici: Felix Savón e soprattutto Teófilo Stevenson.


La pelea del siglo que nunca fue


Teófilo Stevenson è senza dubbio il miglior esponente della scuola cubana. 196 cm per 100 kg di peso, Teófilo comincia a combattere a 14 anni, inserito nella già citata “piramide di alto rendimento”. Inizialmente è poco più di un diamante grezzo e sarà proprio Andrej Chervonenko a farlo emergere, allenando la sua tecnica fino ad un livello mai visto tra i dilettanti. Il suo destro è semplicemente inarrestabile, il suo gioco di gambe rende omaggio ai migliori interpreti del ring. Al suo debutto olimpico, da ventenne a Monaco ’72, passeggia letteralmente sugli avversari (sfruttando anche un infortunio del rumeno Alexe in finale): si ripeterà nel ’76 a Montreal e nell’’80 a Mosca. Teofilo è talmente forte che per lui fin dal ’72 iniziano a cantare le sirene tentatrici del professionismo: le offerte economiche, anche solo per un incontro, superano il milione di dollari.

Alcuni dei migliori KO di Stevenson.

Tanti sono stati i pugili cubani che se ne sono andati per molto meno. Don King è disposto a tutto pur di farlo combattere contro i vari Joe Frazier, George Foreman e soprattutto Muhammad Ali, di cui Teofilo era considerato l’erede. Nonostante gli sforzi di King e la mediazione dello stesso Alì, l’incontro non si farà mai, per quella che viene definita “La pelea del siglo que nunca fue” (“il combattimento del secolo che mai si fece”). Teofilo mostrò lealtà assoluta a Fidel, il quale aveva posto condizioni dure alla realizzazione dell’incontro – in primis che Stevenson non perdesse il suo status di amateur. La decisione si perpetuerà per tutta la carriera, trascinandosi dietro un grande rimpianto sportivo ma anche un’aura immortale di romanticismo.

 «Cosa sono cinque milioni di dollari in confronto all’amore di otto milioni di cubani?»,

dirà in seguito Teófilo. Finirà poi nell’apparato del partito, sia come parlamentare che come vice-presidente della Federazione Pugilistica. Il suo modello, sportivo e non, sarà ossigeno puro per la propaganda castrista, e racchiude in sé tutto l’orgoglio dell’ideologia sportiva di Fidel.


Nuovi orizzonti


Al contrario dei tanti altri atleti ostracizzati per aver abbracciato il professionismo – molti di essi non in grado di gestire il cambio di stile di vita, perdendosi e deludendo le aspettative – Teófilo scelse di rimanere fedele a Castro e all’ideologia socialista. Come lui, negli ultimi anni Julio Cesar La Cruz sta proseguendo la sua legacy, con già due ori olimpici nei massimi, uno dei quali griffato da un’inequivocabile Patria o muerte venceremosCon il via libera tra i pro ha già vinto i primi due incontri, ma la strada sembra ancora tutta da battere. Infatti, ad oggi l’apertura al professionismo ha significato per i pugili cubani solo qualche trasferta in paesi come Messico o Argentina (dove già peraltro andavano) lontano dai grossi palcoscenici.

Inoltre, seppur l’80% del premio totale spetti agli atleti, è ancora la Federazione a decidere gli incontri, obbligando poi i pugili a tornare sull’isola.

Così, esattamente come avveniva in passato, molti di essi – tra cui un altro oro olimpico, Andy Cruz – hanno provato a disertare il rientro, con più o meno successo. Insomma, per ora sembra cambiato poco, ma il passaggio deve essere giocoforza graduale. Al momento i risultati a livello sportivo sono incoraggianti, ma solo il tempo potrà dire quale può essere il reale impatto dei cubani tra i pro. Di certo, la recente decadenza del pugilato olimpico – falcidiato dalla corruzione, verrà escluso da Los Angeles 2028 – inasprisce le difficoltà di una valutazione realistica. I nuovi orizzonti sono ancora annebbiati: quello che resta, voltandosi indietro, è una storia di sessant’anni. Una storia destinata a rimanere unica, la cui fisiologica dissoluzione è l’ennesima, cruda constatazione della fine del Secolo delle ideologie. 

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