Semifinale senza storia. Brasile superiore, Argentina in crisi d'identità.
In questi giorni di torrido caldo africano, il regalo più bello del mondo arriva dall’America Latina. Un lustro dopo il Minerazo, il Brasile torna sul campo stregato di Belo Horizonte per la semifinale di Copa America contro l’Argentina rivale di sempre: ‘Superclasico de las Americas’, lo ha definito la FIFA qualche tempo fa, per estensione essenza stessa del calcio. Il Brasile di Tite, padrone di casa, ampiamente favorito per la vittoria finale, non sembra davvero subire i demoni che aleggiano nel passato della capitale dello stato di Minas Gerais e il ritmo forsennato che impone nel primo quarto d’ora mette subito alle corde l’Albiceleste.
Così, dopo 20 minuti di dominio territoriale la torcida può già liberarsi della tensione emotiva che si percepisce chiaramente nell’arena compassata del Minerâo. Dani Alves, 36 anni all’anagrafe (probabilmente sul pianeta da cui proviene è ancora un’età florida per giocare a pallone) semina il panico nella trequarti argentina: il sombrero delizioso sul disorientato Acuña e il dribbling secco su Paredes, mette in imbarazzo tutta la mediana di Scaloni. Non pago, il giocatore più titolato della storia del calcio serve un perfetto no-look pass a Firmino, che ricorda gli insegnamenti di Jurgen da Stoccarda, scompare e riappare esattamente dove deve essere, svuotando l’area e lasciando il tappeto rosso all’inserimento dell’indemoniato Gabriel Jesus; così, mentre Otamendi e Pezzella cercano ancora la stella polare, Bobby serve al giocatore di Guardiola la palla perfetta per la più semplice delle definizioni.
Dani Alves interroga Eupalla a modo suo (Photo by Bruna Prado/Getty Images)
Chi si aspetta la reazione argentina rimane deluso: Messi, più che dai soliti fantasmi e dalla retorica sui suoi insuccessi con la Nazionale, viene fermato dall’agente in borghese Casemiro, che per una sera dimentica di essere un giocatore di calcio e segue come un segugio le tracce della Pulga senza lasciargli spazio di manovra. La partita scivola decisamente verso una direzione e la traversa di Aguero, abbastanza casuale nel primo tempo, e il palo di Messi all’inizio della seconda frazione, sono sporadici tentativi di riaprire una partita che non può essere archiviata così semplicemente. Per i più romantici sono segnali di una reazione veemente, cui aggrapparsi nel sogno di vedere Leo alzare la Copa, ma la cruda realtà dei fatti è differente.
L’Argentina non è dissimile dalla squadra mediocre che ha faticato in tutta la competizione, priva di un’idea di gioco, ricca di talenti acerbi che non riescono nemmeno lontanamente a limitare la personalità dirompente del Brasile di Tite. Le confuse trame offensive sono affidate all’estro di Leo, alle sbuffate del Toro (nota più lieta di questa competizione per la Selección) e poco altro. Non sarebbero argomenti sufficienti per imporsi contro qualunque avversario, fanno persino arrossire di fronte alla difesa del PSG (o Brasile che dir si voglia), affiatata e collaudata, che ha reso finora immacolata la porta di Allison nell’arco di tutta la competizione; d’altronde l’ex Roma non subisce gol con la Selecâo da marzo (!).
La solitudine di Leo Messi (Photo by Bruna Prado/Getty Images)
Con la porta blindata chiusa a doppia mandata, è solo questione di tempo prima di mettere nel caveau il risultato. Questa volta è un inarrestabile Gabriel Jesus (migliore dei suoi insieme al capitano Dani Alves) a restituire il favore a Firmino: sgasa anche da stremato sulla trequarti, supera l’intervento maldestro di Pezzella e brucia in area Otamendi, poi l’assist per Firmino è da accademia e il gol del giocatore campione d’Europa aggiorna semplicemente le statistiche. Così a Leo non resta che salutarci con un’immagine ormai tristemente nota, quella del suo capo chino e impotente in mezzo al campo, cosparso della delusione di un ennesimo fallimento. Perché così sarà sempre identificata la prestazione della Pulga senza il raggiungimento dell’unico risultato all’altezza della sua leggenda. Se il giocatore non si discute, va però detto che il 10 di Rosario ha deluso in questa Copa America, mostrando una condizione mediocre in cui i fantasmi della sua ossessione legano le gambe e i piedi più talentuosi del mondo.
L’imprevedibilità della CONMEBOL regalerà a Messi una nuova occasione già l’anno prossimo, sempre in Copa America, per coronare una carriera già di per sé unica. Ma non è necessariamente una buona notizia, perché il Gringo Scaloni, o presumibilmente chi lo sostituirà, dovrà dare delle certezze a un gruppo spaesato e purtroppo per il tecnico 12 mesi, date le premesse, sembrano davvero pochi. Quel che è certo è che non basta il più forte, non è mai bastato nel calcio; perciò la sfida più grande sarà imbastire una squadra che creda in se stessa e non riversi su Messi tutte le responsabilità tecniche, così come Leo dovrà fidarsi della propria Selección, limitando le invasioni a centrocampo in fase di costruzione, ma riservando le energie mentali e fisiche per accendersi in zona letale, ad oggi la differenza più evidente tra il 10 blaugrana e quello albiceleste.
Il gol che ha chiuso definitivamente i giochi (Photo by Buda Mendes/Getty Images)
Il vero vincitore in questa nottata di tradizione e fascino è necessariamente Adenor Leonardo Bacchi, detto più semplicemente Tite, demiurgo di un Brasile eccezionale. Una squadra talentuosa che vive sulle certezze difensive per lasciare spazio davanti all’estro dei suoi interpreti che, anche orfani del leader tecnico Neymar, impressionano per quantità e qualità. L’allenatore del Rio Grande do Sul ha avuto il merito di raccogliere la carcassa di una nazionale uscita a pezzi dai Mondiali casalinghi del 2014 e nel giro di pochi anni ha riportato la Selecâo nell’Olimpo, dove merita di stare.
Finora sotto la sua gestione solo due delle 41 partite giocate sono terminate con una sconfitta e l’unica ufficiale è la più dolorosa, contro il Belgio in Francia l’anno passato. Ecco perché ora il Brasile merita e ha bisogno di alzare questo trofeo, e dopo la vittoria di questa finale anticipata sembra davvero molto vicino a farlo. C’è ancora una partita da giocare, a Rio, in un altro stadio grande e maledetto, e per certi versi una sconfitta del Brasile questa volta sarebbe più inaspettata di quella del ’50, senza dubbio scriverebbe un nuovo inquietante capitolo del famigerato Maracanazo.