Ratzinger diceva che la crisi della religione in occidente era iniziata con l’esplosione del ’68. Von Balthasar, suo collega e amico, ne vedeva invece i prodromi già in epoca tardo-medievale: quando, cioè, la teologia aveva sacrificato il bello a favore del buono. Ma non può esserci religione senza l’armonia di entrambi. E se è vero che «il tifo è l’unica religione che non ha atei», l’analogia col calcio viene qui piuttosto facile.
Anche il calcio è entrato in crisi, così almeno dicono Agnelli, Florentino Perez & co. I giovani, dati alla mano, non solo non guardano più il calcio (non come fino a vent’anni fa perlomeno) ma associano il calcio alla figura del calciatore superstar: di volta in volta si “tifa” Mbappe, Haaland, eventualmente Neymar, Messi, Cristiano Ronaldo. Poniamo per un attimo che i dati Nielsen vadano presi alla lettera: sarebbe difficile biasimare i mocciosi nerd di Ultimate Team. Il calcio ha infatti rischiato (soprattutto in epoca pandemica) di morire di noia, perché ha sacrificato il bello delle giocate individuali al buono dei tatticismi esasperati – dove per buono intendiamo “morale”, quindi l’elezione del bene collettivo per la squadra sull’estro dei singoli.
Il Brasile però – e il Mondiale in generale – sembrano ribaltare questa legge valida da qualche anno in ambito di club, almeno cioè da quando Guardiola e il guardiolismo hanno totalizzato e inghiottito il dibattito calcistico. Questo Brasile, estetica allo stato puro, ci ricorda perché il calcio non può perdere il bello della giocata individuale senza smarrire la propria essenza più profonda. Perché quando eravamo piccoli giocavamo con la casacca verdeoro, imitavamo l’elastico di Ronaldinho e sognavamo, sotto la pioggia e sotto il sole, di scambiare un pallone con Robinho, Kakà, Ronaldo il Fenomeno. Ammiravamo gli spot Joga Bonito con lo sguardo ebete dei bimbi in preda ad una gioia inspiegabile, provando poi a replicarne i dettagli nel salotto di casa.
Come ci ha rivelato Eilenberger “giocare a pallone è l’archetipo delle esperienze piacevoli. L’esperienza di giocare a calcio, alla quale sono personalmente molto grato, è infatti piena di gioia”.
Il Brasile in una parola è il calcio, con buona pace delle altre squadre. E lo è proprio in virtù di questa esasperazione bambinesca del gesto tecnico, della giocata anche inutile (ne parlavamo qui celebrando la giravolta insensata di Antony in quel di Old Trafford) e fine a se stessa – inutile si fa per dire, per capirci: l’inutilità del calcio è la cosa più utile che ci sia, specie in tempi mesti come i nostri. Carmelo Bene lo ha detto benissimo in un vecchio video da noi recentemente ripreso: «il Brasile è un’orchestra di solisti».
«Straordinario è il Brasile, ma non in quanto Nazionale. Lo chiamerei Brasile, e basta. Una squadra di grandissimi solisti. Nell’orchestra i grandi solisti, dicono i direttori, non sanno suonare insieme. Invece questi grandi solisti brasiliani sono capaci di costituire organico, di giocare insieme».
Ecco perché poi, tragicamente, potrebbe sciogliersi senza motivo da qui alla fine del mondiale. Il Brasile è troppo forte, ma è anche troppo bello per mantenere l’attenzione propria dei popoli grigi (dove l’assenza di bellezza costringe alla disciplina). Certo, ieri c’era la Corea del Sud – onore alle armi, tra parentesi – e certo non l’Uruguay (maledetto Portogallo!): ma rimane nei nostri occhi una partita estatica, entusiasmante nel senso etimologico del termine, quindi del divino che è presente in noi. E in loro, oggi come ieri, da sempre: il Brasile è il calcio, e il calcio ha bisogno del Brasile. La nostra è una dichiarazione d’amore e i sentimenti non si spiegano. Chi è che non vorrebbe essere felice per sempre?