Intervista al campione del mondo tedesco, ex nerazzurro scudettato.
“Ad essere sinceri, di Brehme si sapeva poco ed il suo acquisto non accendeva la fantasia dei tifosi. Se Matthaus era la bistecca, Brehme era l’osso che andava appresso alla ciccia. Buon giocatore, certo, serio professionista, sicuro, ma c’era proprio bisogno di andare fino in Germania per trovare un terzino, o mediano che fosse?”.
Così scriveva, con la sua inconfondibile prosa, Gianni Mura il 12 marzo del 1988. Come spesso accade, è stato l’inesorabile scorrere del tempo a dare agli impazienti e mai appagati tifosi nerazzurri la risposta che cercavano: ne era valsa la pena di «andare fino in Germania». Andreas Brehme, infatti, è stato senza ombra di dubbio uno dei migliori terzini sinistri a cavallo fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del secolo scorso, riuscendo a scrivere pagine importanti nella storia dell’Inter.
Nato ad Amburgo, nel Nord dell’allora Germania Ovest il 9 novembre 1960, Brehme ha segnato un’epoca per il calcio tedesco (con la celebre Die Mannschaft è stato campione del mondo nel 1990, nonché vicecampione del mondo nel 1986), collezionando titoli e trofei. Lo abbiamo raggiunto per una lunga intervista nella quale abbiamo ripercorso trionfi e successi, senza però ignorare i momenti bui degli ultimi anni, perché il destino, si sa, non guarda in faccia nessuno. Nemmeno ai campioni del mondo.
La carriera del calciatore ha una durata relativamente breve se confrontata con qualsiasi altra. Una volta usciti definitivamente dal campo, inizia una vera e propria seconda vita. Per molti, abbandonare quella bolla e vivere lontano dai riflettori non è affatto facile. Com’è e com’è stata la vita per Andreas Brehme lontano dal calcio?
Nonostante i 61 anni, non riesco a stare troppo lontano dal rettangolo di gioco. Lavoro ancora attivamente in quel mondo. Attualmente sono impegnato in progetti umanitari che si occupano della costruzione di campi ed accademie. Nel frattempo, continuo a lavorare come testimonial e brand ambassador per i marchi che mi rappresentano.
Dopo il ritiro, ha vissuto periodi non facili. C’è chi ha scritto di bancarotta, chi di debiti non facili da gestire, chi di cause legali ancora in corso… Qualcuno ha perfidamente speculato su qualche suo momento di difficoltà. Può dirci qual è la verità?
There is not only sunshine in life e tutti dobbiamo, chi più chi meno, affrontare dei momenti di difficoltà. Quella dei calciatori è una categoria di privilegiati, sarei un bugiardo nel negarlo ma, per quanto non sia facile, è fondamentale mantenere un contatto con la realtà per non venire travolti dalla quotidianità dopo il ritiro. Ora sto bene, ho ritrovato una stabilità. Il calcio è stato, ancora una volta, fondamentale nella mia vita.
Nella stagione 1988/1989 è stato uno dei protagonisti dell’Inter dei record allenata da Giovanni Trapattoni. 13° titolo nazionale della Beneamata, giunto a 9 anni dal precedente di Bersellini, terminando il campionato con 58 punti in classifica sui 68 disponibili. Che ricordi ha di quella mitica stagione?
All’Inter ho passato 4 anni fantastici: i migliori della mia carriera. La Serie A, all’epoca, era l’equivalente della Premier League di oggi: il campionato più bello e ricco del mondo. Non potrò mai scordare il calore di San Siro, il 28 maggio del 1989, dopo la vittoria contro il Napoli che ci ha consegnato lo scudetto. I nostri tifosi aspettavano, ormai da troppo tempo, un trionfo di quella portata. All’interno dello spogliatoio si respirava un’atmosfera unica, l’alchimia creatasi tra i giocatori è stato uno dei segreti di quell’Inter, un gruppo eccezionale.
Della guida tecnica del Trap invece che può raccontarci?
È stato uno dei migliori tecnici incontrati nel corso della mia carriera, fantastico! Mi ha insegnato tantissimo dentro e fuori dal campo. Una persona unica, fondamentale all’interno del mio vissuto sportivo e non.
Segui ancora con un certo interesse le sorti dell’Inter o dopo l’addio ti sei allontanato dall’ambiente nerazzurro?
Non mi perdo una gara per nulla al mondo. Cerco di andare a San Siro almeno 2 volte l’anno. Sembra una frase fatta ma non lo è: quando vesti, anche solo una volta, la maglia nerazzurra sei per sempre parte della storia del club e non puoi restarne indifferente. Sto seguendo con particolare interesse il lavoro di Inzaghi alla guida del club, mi sembra un personaggio perfetto per l’ambiente.
Non posso non chiederle allora un giudizio sul trasferimento di Robin Gosens. Che idea si è fatto del ragazzo classe ’94?
Credo sia un acquisto azzeccato. Robin mi ha impressionato fin dai tempi della sua esperienza in Eredivise con la maglia dell’Heracles Almelo. All’epoca era uno sconosciuto, o poco più, anche in Germania. A Bergamo, anche grazie alla guida di Gasperini, è cresciuto tantissimo. Conosce la Serie A, sa che cosa significa giocare a San Siro, non ho dubbi farà benissimo.
Il celebre trio Lothar Matthäus – Andreas Brehme – Jurgen Klinsmann ha caratterizzato indissolubilmente il calcio italiano tra la fine degli anni 80’ e l’inizio degli anni 90’. Siete ancora in contatto?
Siamo ottimi amici, mi sento regolarmente con entrambi. Ci conosciamo da anni ormai. Abbiamo condiviso lo stesso spogliatoio dai tempi delle Selezioni giovanili della nazionale tedesca, fino ad arrivare a conquistare insieme la Coppa del Mondo del 1990. Un’epoca indimenticabile. Con Lothar, tra l’altro, ho avuto modo di giocare non solo all’Inter, ma anche per due anni con la maglia del Bayern Monaco.
Ecco, colgo il suo assist per farle una domanda scontata, ma quanto mai necessaria: che cosa si prova a tirare un rigore in una finale mondiale?
L’Argentina ci aveva battuto nella finale di 4 anni prima, Sergio Goycochea – estremo difensore dell’Albiceleste – era stato decisivo contro l’Italia nella Semifinale. Ammetto che non è stato facile mantenere la concentrazione: i calciatori argentini, tra proteste e polemiche, sono riusciti a ritardare di ben 7 minuti il tiro dal dischetto. Se inizi a pensare alle conseguenze di un potenziale errore, sei spacciato. In situazioni del genere non c’è tempo per le emozioni. Ti sembrerà banale, ma, in fin dei conti, devi limitarti a fare il tuo dovere. Chiaramente, anche visto il risultato finale, rigiocherei mille volte quella partita: vincere il Mondiale è il sogno di ogni bambino.
Il calcio negli ultimi anni si è evoluto in maniera radicale. Da un punto di vista tecnico/tattico si rivede in qualche calciatore di oggi?
Difficile dirlo. Attualmente dominano principi basilari quanto rivoluzionari, totalmente assenti tra gli anni 80’ e 90’. La simultaneità delle varie fasi di gioco, un dinamismo continuo, la volontà di imporre la propria strategia in campo erano concetti alquanto astratti. Tornando alla tua domanda ti faccio due nomi: Marcelo e Jordi Alba.
Il 25 novembre del 2020 è tragicamente scomparso Diego Armando Maradona. Forse il più grande calciatore di tutti i tempi. Lo ha incontrato da rivale in due differenti finali mondiali ed in due campionati diversi.
Lasciando da parte il suo genio sportivo, per me Diego era diventato un collega di lavoro unico nel suo genere. Sempre con il sorriso stampato sulle labbra, nonostante le difficoltà affrontate. In campo, oltre al suo talento, lo ricordo come estremamente corretto e leale. Mancherà tantissimo a tutto il mondo del calcio e non solo.
Quali sono le sue ambizioni personali ed i suoi progetti professionali per il prossimo futuro?
Posso dirti che, in questo momento, sono quanto mai orgoglioso ed appagato dalla mia vita. Viaggio ancora moltissimo per lavoro e passo buona parte del mio tempo libero a Bardolino, un piccolo comune Veneto in provincia di Verona. Se devo essere sincero, una cosa mi manca: l’Inter, di nuovo, sul tetto d’Europa.