Il campanilismo nel pallone non esiste più.
“Serena puttana, l’hai fatto per la grana”, così tuonava la Curva Maratona al derby d’andata della stagione 1985-86, la prima di Aldo Serena con i bianconeri. Una gara vinta dalla Vecchia Signora, proprio con rete dell’ex golden boy dell’Inter, che da pochi mesi aveva cambiato casacca sotto la Mole. Un goal avvenuto nella stessa rete dove soli pochi mesi prima, con un’incornata allo scadere su angolo di Junior, Serena aveva regalato la stracittadina ai granata. Chi era a Torino in quegli anni ricorderà come Serena, una volta passato alla corte di Agnelli, si facesse vedere poco per le strade della città. Gli incontri fortuiti con i tifosi granata erano tutt’altro che graditi, per non dire temuti, dal calciatore.
A quasi quarant’anni di distanza, a Torino l’italianissima commedia dell’arte del calciomercato non sembra essere cambiata di molto, se non nelle dinamiche tra tifosi e calciatori e negli equilibri di potere tra le due rivali. A pochi giorni dal video amatoriale che ha messo a nudo il re, quel testa di Ca…iro apostrofato dal Vagnati furioso nella lite con il tecnico Juric, l’arrabattatezza del mercato granata è specchio fedele dell’approssimazione che domina nella società, nonché dell’arrendevolezza che serpeggia tra i tifosi. Già il capitano Belotti aveva fatto registrare un’iperbole tragicomica, lasciando il club da svincolato dopo mesi di tira e molla, comprensibilmente amareggiato dalla gestione Cairo, ma non per questo giustificato nel suo vile sgattaiolare verso l’agognato ‘calcio che conta’ senza un saluto ai tifosi.
La questione Bremer ha però messo in luce una più profonda e problematica questione che esula dalla sola Torino granata, diventando un prezioso strumento di lettura del calcio contemporaneo.
La cessione del difensore, anziché infuocare il fantasma di orgoglio granata che i tifosi del Torino tanto amano tirare in causa, ha registrato reazioni di un blando tepore, al limite del sollievo per la cassa battuta. I salvifici 41 + 8 milioni messi sul piatto dai bianconeri (contro i 35 più cartellino di Casadei offerti dall’Inter) accettati a testa bassa, per non dire tacitamente festeggiati, come l’elemosina di un benefattore, come le sigarette e la cioccolata dei soldati americani elargiti all’indomani della Liberazione. Anzi, salutati da molti come la cessione più redditizia della gestione Cairo, addirittura giustificato anche dalle frange più critiche di tifo. L’integrità al soldo degli agognati soldi per il mercato, sul cui successo comunque non si può certo fare affidamento sotto l’egida Cairo.
Come se il calcio degli affabulatori televisivi, dei Di Marzio e dei Pedullà, delle aste del fantacalcio e del gossip a tutti i costi dei quotidiani sportivi avesse sostituito quello del campanile, degli spalti e delle strade. È d’altronde sintomatico se a differenza del resto d’Europa, dove nel dopo Covid nuove leve di tifosi hanno dato vita a fenomeni di revivalismo ultras e hooligan, in Italia persistono l’alienazione da Fifa Ultimate Team e le tavole rotonde da fantamilioni, che atrofizzano ogni militanza da stadio tra la generazione Z e ampie sacche di millennial.
Che i tifosi fossero già da mesi rassegnati sull’addio di Bremer non fa che confermare il pauperismo economico e morale a cui Cairo ha abituato i suoi. Lascia, però, l’amaro in bocca il piglio rinunciatario con cui i tifosi hanno accolto la notizia. A stupire non è infatti l’atteggiamento remissivo dei più miti spettatori della tribuna e dei distinti, ma soprattutto quello della Maratona, che incapace di una contestazione dura alla dirigenza sembra oggi aver declinato ogni rivendicazione di campanilismo e di integrità.
Appaiono lontanissimi i tempi in cui Torino fu sull’orlo di una guerra civile, popolare e trasversale, quando trapelarono voci sulla cessione di Gigi Meroni ai bianconeri. Dimenticati i tempi in cui la piazza aveva il potere di far ritrattare un presidente.
Il tifoso oggi (salvo in alcune società virtuose, come la Roma dei Friedkin), ça va sans dire, conta poco nulla, ma anche perché esso si adopera sempre meno per imporre la propria voce. Spesso nascondendo dietro la maschera delle abusate e trasversali parole ‘rispetto’ e ‘onore’ le rughe di un modo tifare ormai sempre meno adatto alla società contemporanea, e fatto per pochi ultimi e coraggiosi pazzi.
Nel calcio frenetico e globale non c’è certo più necessità di stupirsi per simili trasferimenti, fanno notare in molti sui social. D’altro canto se ne è visti tanti di giocatori passare da una sponda all’altra del Po negli anni. Non fosse che i tifosi granata, nostalgici per natura e privati di prospettive presenti e future, siano alla costante ricerca di una bandiera. Così da identificarla, con la frettolosità di un amante arrapato e da anni ferito in amore, con il primo che per un paio di stagioni regali non dico il trionfo di un titolo, ma anche solo l’ebbrezza di una maglia sudata.
Ecco che Bremer era diventato inconsapevole bandiera del defunto tremendismo granata. Si agitava sotto la Maratona, all’ultima di campionato, sulle note di “chi non salta bianconero è”. Salvo archiviare il gesto con la leggerezza di chi è atleta oggi. O meglio, con la stessa leggerezza propria di chi abita questa nostra società del vivere a caso, del costante LOL, del meme e della risatina post-moderna e disimpegnata, in cui (quasi) tutto può essere editato, cancellato, abiurato a costo di sacrificare tutti quei valori – che oggi appaiono obsoleti ma non per questo meno necessari – che avevano fatto ardere di passione il tifo (organizzato e non) in Italia.
Cornuti e mazziati quelli del Toro che salutavano commossi dal sito ufficiale della società al messaggio di commiato del brasiliano: “Vi terrò tutti nel mio cuore. E una cosa è certa, ovunque io andrò avrete sempre un tifoso in più”.
Verrebbe da pensare a una grande boutade, a un canovaccio della grande commedia di Sportitalia intessuto da quei Cric e Croc discepoli del bar dello sport Banfiano, Pedullà e Criscitiello, se non fosse che nel comportamento di Bremer risiede lo status quo del nuovo calcio. Uno sport fluido, post-campanilistico, sfacciatamente venale e yankeezzato in cui un calciatore non è più portato a provare un minimo di vergogna nel lasciarsi trasferire promiscuamente da un club all’altro, pedine passive di procuratori svergognati e famelici. Anzi, mentori di atleti istruiti a siparietti da Libro Cuore, a baci di stemmi, a premature dichiarazioni d’amore eterno in conferenze stampa d’agosto; mai per altro richiesti dal loro pubblico.
Un eroe romantico ha affisso al citofono della società granata, in Via dell’Arcivescovado, un messaggio di protesta, una strigliata al presidente Cairo. Scritto a mano. Nel farlo, non soltanto ha dato voce agli ultimi idealisti del tifo granata, ma ha anche ricordato del ruolo della città e i suoi muri come superficie di sovversione semantica, come per anni hanno fatto sottoculture e tifosi con il loro telefono senza fili fatto di graffiti, viva, abbasso e sfottò.
Intanto, il docile e sommesso brontolio del tifoso amareggiato ma tutto sommato sollevato dalla cessione di Bremer è lo stesso di chi, in cuor suo disgustato da un mondiale da disputarsi a Natale in Qatar e senza alcool sugli spalti, farà comunque scorpacciata di gare in televisione, alimentando un circo di cui siamo sempre più stanchi. E dire che siamo solo ad agosto.