Il più formidabile capro (espiatorio) nella storia d'Italia.
Nel 1985 fa la sua comparsa nelle librerie francesi Il paradiso degli orchi, primo e fortunatissimo “giallo” di Daniel Pennac che darà inizio al suo celebre ciclo di Malaussène. Questi è il protagonista di ben sette romanzi, un giovane uomo in apparenza ordinario che le tenta tutte pur di sbarcare il lunario nel multietnico e labirintico quartiere parigino di Belleville, fin quando un giorno trova un lavoro ben remunerato e richiestissimo dal mercato, sebbene ufficialmente non regolamentato: il capro espiatorio. Il Grande Magazzino che lo assume ne ha un disperato bisogno, e a lui viene solo richiesto di addossarsi ogni colpa del Magazzino mostrandosi colpevolmente inadempiente e a un passo dal licenziamento.
Assistendo alla pubblica umiliazione di Malaussène, il cliente inferocito ottiene la sua rivincita; sorprendentemente si dimostra compassionevole nei confronti del povero impiegato, si preoccupa del suo imminente licenziamento e alla fine arriva a concepire che in fondo sì, sbagliare è umano, e sceglie di ritirare il reclamo per salvarlo. Successivamente grazie al suo “talento di capro” Malaussène riceverà numerose altre offerte di lavoro ma ci sorprende che Pennac, appassionato di calcio e autore recentemente di un documentario su quella “sorta di genio della poesia fisica” (cit.) che è stato Maradona, non abbia pensato per il suo personaggio anche ad una parentesi da arbitro.
Scrive Massimo Castellani per Avvenire che l’arbitro di calcio infatti, «fin dalla notte dei secondi tempi (…) è destinato al ruolo di capro espiatorio».
Fa discendere quindi le «ex giacchette nere, che ormai vanno in campo con casacche policrome» dal mitologico Mario Balerdi, il povero arbitro argentino divenuto emblema di tutti i capri espiatori «per aver realizzato, involontariamente, il gol della vittoria beffarda del San Martin contro l’Atletico Porteño» agli inizi del ‘900. Sebbene successivamente di casi del genere ce ne furono molti altri, questo di Balerdi venne tramandato a lungo come una leggenda. E se qui da noi risulta invece ancora poco conosciuto, è solo perché nel giugno del 2002 un altro uomo, un altro arbitro, un altro formidabile capro, era destinato a fare le sue veci nel nostro immaginario collettivo.
– Un’ultima domanda, signor Malaussène. In cosa consiste esattamente la sua mansione, al Grande Magazzino? Non emerge molto chiaramente dalla sua deposizione.
– Faccio il Capro Espiatorio, signor commissario.
(“Il paradiso degli orchi”, Daniel Pennac)
Del resto, ad ogni terra i suoi miti. Se in Argentina la vicenda balerdiana ha sicuramente un che di “sorianesco”, ovvero quel realismo magico di un calcio sempre a cavallo tra il possibile e l’impossibile, qui da noi è invece la mitologia della corruzione a farci andare in sollucchero. Nel Paese di Tangentopoli, Mani Pulite, blitz antimafia e materassi che scoppiano; nel Paese delle tototruffe, del calcioscommesse e soprattutto di Fantozzi, dell’impiegato statale che quelle bustarelle le timbra(va) e le insaliva(va) ogni giorno; nel Paese in cui forse più che altrove l’arbitro conserva dell’ovino pure le corna, ecco, in questo nostro paese, il capro espiatorio per eccellenza non poteva che avere il volto di Byron Moreno.
⚠️ Alt. Fermi tutti. Attenzione. Danger. Il suo nome va usato con cautela, alla Voldemort.
I più fortunati di noi sono riusciti in qualche modo a rimuoverlo dalla parte conscia della mente ma nessuno, sebbene siano passati più di vent’anni, è stato ancora in grado di accettarne il lascito. In quel lontano 2002 i nostri eroi non postano ancora storie Instagram ma sono belli come tronisti e usano labili fascette, gel e fermagli per tenere a bada lunghe chiome da gladiatori. Siamo alla terza edizione del Grande Fratello, Tiziano Ferro è ancora uno sciupafemmine che canta Rosso Relativo, l’America ha invaso l’Iraq ma noi, come sempre, siamo dalla parte giusta. Insomma sono sweet years, proprio come il brand che Bobo Vieri e Paolo Maldini si sono appena inventati.
Facciamo ancora parte di un mondo basato interamente sull’ingenuità e, detto fra noi, ci stiamo da Dio.
I nostri eroi, poi, sono forti davvero. Oltre a Vieri e Maldini schieriamo campioni come Totti, Inzaghi, Del Piero, Nesta, Cannavaro, Buffon. Gli “altri” sono Zambrotta, Gattuso, Toldo, Montella, Materazzi…Tutta gente che oggi si beccherebbe almeno l’etichetta di ‘top player‘. Il nostro allenatore è uno dei più grandi italiani di tutti i tempi, Giovanni Trapattoni, che tra uno “strunz” e tanti (TANTI) scudetti vinti può permettersi pure di lasciare a casa Roberto Baggio, e insomma questo mondiale nippocoreano non possiamo proprio perderlo perché non abbiamo solo la più forte squadra italiana mai arrivata ad una competizione internazionale, ma forse proprio la più forte squadra di calcio in generale di tutti i tempi.
Di fronte a noi quella Corea che 36 anni prima, nel 1966, ci aveva inflitto la più grande umiliazione della nostra storia calcistica. Poco importa poi che fosse in realtà la Corea del Nord, mentre quella del 2002 era la Corea del Sud. Nessuno sembra saperlo e pure gli stessi sudcoreani ci accolgono con una coreografia a tema nel World Cup Stadium di Daejeon. È il 18 giugno 2002.
A questi ottavi di finale siamo arrivati deludendo tutte le aspettative, qualificandoci solo all’ultima giornata grazie a un bislacco pareggio col Messico e uno sversamento in campo di acqua santa da parte del Trap (la portava sempre con sé grazie alla sorella suora). Veniamo poi da una serie davvero interminabile di sfighe a livello internazionale: due anni prima abbiamo perso l’Europeo in finale con la Francia, nell’ultimo mondiale siamo usciti ai quarti ai rigori sempre contro gli amabili cuginetti e in quello prima, nel ’94, abbiamo perso in finale ai rigori col Brasile. Insomma, tutto fa presagire che qualcosa di gigante debba accadere.
Non è normale, del resto, l’elettricità che si respira. Siamo carichi fin troppo e abbiamo fame di Storia. E allora eccoci qui, cari amici. Abbiamo provato finora a indorare la pillola, ad allungare un po’ il brodo, ma siamo arrivati infine al momento della sua comparsa. Come di chi? Continuate a voler rimuovere tutto? Ma ovviamente stiamo parlando dell’uomo che da vent’anni è un tabù vivente di questa Nazione. Un volto scolpito nel nostro inconscio da quel fatidico 18 giugno 2002. Siamo giunti alla comparsa della comparsa più celebre di sempre, o se preferite alla più sorprendente entrata in scena che si ricordi da quando esiste un palcoscenico e di fronte a lui un pubblico.
Del resto, se il calcio è solo uno spettacolo, beh allora lui, l’uomo di cui stiamo parlando, lo aveva capito ben prima di qualunque televisione o piattaforma streaming. Scusateci anche se nel presentarlo stiamo sfoderando tutte le metafore teatrali di cui siamo in possesso, ma non è eccessivo se pensiamo che la miglior descrizione (o quantomeno la più divertente) di quella che fu a tutti gli effetti un’apparizione, la fornisce a nostro avviso Roberto Fedi, professore universitario di italianistica, proprio in una rivista di drammaturgia qualche mese dopo l’accaduto:
«Il Destino, allora (…) assunse le fattezze, per la verità un po’ modeste, di un ometto ballonzolante, sovrappeso, anzi francamente un po’ obeso, dalla facciotta tonda e un po’ india: ma poco, anzi più simile a quelle che hanno i messicani nei filmetti alla Boldi, che dicono “amigo” e sono sempre un po’ fatti. Capelli unti. Zampe tonde, a ics. Come si capì quasi subito era un arbitro, che arrivava da qualche paesotto del Sudamerica, e si chiamava in un modo che, in un film, sarebbe sembrato improbabile: non tanto per il cognome, Moreno, quanto per il nome di battesimo. Dove si vede che il Destino più di tanto non scherza, e richiede i suoi quarti di nobiltà: Byron. […]
Il nome del Bellissimo Lord Romantico era capitato – casi della vita – addosso a un tipetto che a occhio e croce poteva avere il fascino di un cocomero».
Il commissario Rabdomant mi rimanda uno sguardo assolutamente vuoto. Allora gli spiego che la funzione detta di Controllo Tecnico è assolutamente fittizia. Io non controllo proprio niente, poiché niente è controllabile nella profusione dei mercanti del tempio.
(“Il paradiso degli orchi”, Daniel Pennac)
Riguardando a vent’anni di distanza la partita (qui la tortura completa) dobbiamo ammettere che le descrizioni dell’epoca calcavano un po’ troppo la mano sulle rotondità di Moreno. Più che un obeso, ci ritroviamo davanti un uomo dalla stazza importante, una sorta di parallelepipedo in completo nero, che nonostante tutto riesce comunque, misteri della fisica, a coprire bene il campo. Plana infatti sul manto verde come una sorta di aquilone di basalto, trascinato dal susseguirsi delle azioni e da due gambette come quelle che spostano le autovetture dei Flinstones. Rompe la geometria della sua figura solo quando deve intervenire per riportare l’ordine in campo, con ampie e rigide aperture di braccia.
Moreno è sempre plateale.
Ovvero si rivolge, ancor più che ai giocatori, alla platea reale e televisiva che sta seguendo la partita. Se deve ammonire qualcuno non mostra semplicemente un cartellino, ma lo brandisce come stesse comminando una pena di morte istantanea al povero malcapitato. Il volto studiatamente impassibile, in una maschera vuota e inespressiva. Più che farlo come mestiere sembra stia interpretando, da attore alle prime armi, il ruolo dell’arbitro.
Se c’è da lasciar correre il gioco, Moreno non alza semplicemente le braccia. Le pone invece a “V” praticando una serie di ispirate invocazioni al sole, quasi fosse attraversato costantemente da scariche elettriche che gli impongono di muoversi nella maniera più scattosa e strafottente possibile. Basta qualche minuto per accorgersi che in realtà ciò che l’arbitro ecuadoriano desidera trasmettere, tramite tutte queste goffe movenze, è una diligenza e una rettitudine senza pari: Moreno sa di arbitrare una partita importante, sicuramente la più importante della sua vita, e vuole mostrarsi all’altezza.
Ciò che però vediamo noi in quel maledetto 18 giugno del 2002 è solo una sorta di invasato sempre all’erta, che quando fischia il precoce rigore per i coreani al quarto minuto del primo tempo sente il dovere di effettuare immediatamente una specie di corsetta celebrativa verso la bandierina, simile allo sfogo di un calciatore dopo un gol segnato. In realtà sta andando a posizionarsi con assurdo anticipo nel punto adeguato a seguire il successivo calcio dal dischetto: con la tonalità emotiva di un robot, senza curarsi minimamente di dare ai giocatori una qualche spiegazione del fischio.
Possiamo dire, a vent’anni di distanza, che è proprio questa ostentata performatività e denotata inflessibilità a mandarci letteralmente ai pazzi. Ancor più degli effettivi torti arbitrali subiti – che al 90º minuto possiamo riassumere come due mancate espulsioni per i coreani – impazziamo di fronte a quella che ci sembra palesemente una recita fuori luogo. Ma stiamo ancora ragionando da tifosi, o comunque da appassionati di calcio, mentre abbiamo detto che conByron Moreno valgono solo le categorie del teatro. Pensiamo ancora di stare assistendo all’ottavo di finale di una coppa del mondo… Beh, niente di più sbagliato.
Avremmo dovuto capirlo subito, ma tutti se ne accorgono distintamente solo al 13º minuto del primo tempo supplementare: tutto ciò era il preludio di un personalissimo monologo che attende ora la sua tragica conclusione. Byron infatti, come da copione, aspetta il momento più concitato della partita per entrare definitivamente in scena e rivelarsi al pubblico come l’arbitro più bravo del mondo. È la scena madre del suo personale spettacolo e forse della sua intera esistenza, una scena che deve aver sognato e risognato per tutta la vita prima di vederla divenire incredibilmente realtà sotto i propri occhi:
C’è l’intero mondo a guardarlo, c’è un intero Paese a sospingere Totti nell’area coreana, a sognare il suo golden goal, a percepire nettamente il contatto tra le sue gambe e quelle del difensore Song Chong Gug… Rigore!!! Rigore??? Tutti si voltano verso l’arbitro, tutti pendono dalle sue labbra. Attendono un suo cenno prima di impazzire di gioia o di rabbia, e ora contano i passi della corsetta scenica con cui si sta dirigendo, implacabilmente, sul luogo del misfatto… Moreno divarica le gambe. Prende spazio.
È ormai una Callas in completo Adidas. Porta la mano al taschino: simulazione di Totti, secondo giallo, rosso. Applausi a scena aperta dell’intero stadio, ovazioni che neanche al San Carlo di Napoli. Patetici deliri degli italiani in campo, mentre il volto del nostro assume quel ghigno che si stamperà nelle pagine della storia sportiva (e non solo) del mondo intero. CLAP CLAP CLAP Bravo! Bravo! Bis! Bis! CLAP CLAP CLAP.
È esattamente in questo momento che intanto, noi a casa, non capiamo più niente. Televisori rovesciati, piatti rotti, vetri in frantumi, bestemmie di ogni pesatura e foggia riecheggiare nell’intero condominio. Nonne, zie, trasformate in pericolose forcaiole. La partita che diviene solamente un sottofondo visivo allo sfogo di frustrazioni personali e collettive forse accumulate nel corso di intere esistenze.
Gattuso si mangia un gol incredibile, ce ne annullano uno regolarissimo di Tommasi per fuorigioco, addirittura Pizzul perde le staffe e ride isterico: “Allora vale tutto!”. Il coreano Ahn, all’ultimo minuto del secondo tempo supplementare, segna infine di testa il golden goal che suggella l’incubo fatto partita. L’inferno di bandierine rosse del Daejeon Stadium diviene l’inferno emotivo di 60 milioni di italiani che ora chiedono, bramano, invocano vendetta. Lo strano atteggiamento di Moreno si tramuta così, automaticamente, nella prova lampante della sua corruzione. La sua ostentata inflessibilità diviene subito nelle nostre teste ostentata perfidia mentre sgorgano, inarrestabili, i riccioli del capro.
Ora tutti vogliamo la sua testa, nessuno escluso. Tutti vogliamo il suo sangue. Chiediamo che l’ecuadoriano venga portato di peso all’altare e che si compia oggi stesso il sacro rito espiatorio. Ma soprattutto, cari amici, tutti rosichiamo come pazzi. Ciò che accade dopo, è difficile da spiegare senza ricordare la cieca rabbia di allora. Difficile spiegare come sia stato possibile, ad esempio, che il presidente della nostra federazione – non un giornalistucolo in stage a Radio Tifosotto – tirasse in ballo già il giorno seguente delle fantomatiche prove attestanti la corruzione di Moreno, pronte per essere esibite in tribunale.
Franco Carraro smentirà poi immediatamente, dichiarando di non aver mai avuto per le mani nulla di simile, il Corriere dello Sport verrà invece querelato dalla Federazione Ecuadoriana per aver sganciato la bomba.
Ciò non basterà a fermare i vari tentativi più o meno grotteschi di “incastrare” Moreno da parte della stampa, italiana e non solo. Resta iconico a tal proposito il famoso “dossier giapponese”, che iniziò a circolare in tutto il mondo e contribuì ad espandere l’immaginario collettivo legato a Moreno, arricchendolo di elementi quali una vacanza in crociera a Miami e una “Chevrolet ultimo modello” comprate proprio dopo il mondiale – chissà con quali soldi, il sottile sottinteso. Il lungo reportage, pubblicato dal settimanale giapponese Shukan Bunshun, divenne ovviamente causa di ulteriori querele.
A distanza di vent’anni, può poi stupire leggere di un’azienda prestigiosa come la Panini decisa a ritirare con effetto immediato il suo album di figurine dal mercato «in segno di protesta per gli arbitraggi subiti dalla nazionale Italiana». Eppure andò esattamente così. Passando poi ad Ahn Jung-hwan, l’eroe coreano autore del golden goal, verrà semplicemente licenziato in tronco da Luciano Gaucci, possessore del suo cartellino in quanto presidente del Perugia. La sua unica colpa? Quella di aver segnato un gol nella partita sbagliata.
Intanto Byron Moreno diviene forse la prima vittima di shitstorm digitale nella neonata rete internet, lì dove non esistevano “per un pelo” ancora i social e però già circolavano in forma primitiva quelle immagini dissacranti o ironiche che poi chiameremo “meme”. Moreno diventerà protagonista anche di videogiochi, come “OFFSIDE Moreno”, o come quello cruentissimo che già il 23 giugno veniva rilanciato dal sito del Corriere della Sera (!), in cui ci si poteva “vendicare” dell’arbitraggio subito lanciando freccette sul corpo di Byron e godendo delle copiose emorragie provocate (il gioco è ancora scaricabile qui – lo abbiamo fatto, con grande inquietudine).
Un vortice di follia che coinvolge anche l’Ecuador, che si ritrova tra le mani un vero e proprio fenomeno globale (forse il primo della sua intera storia) e decide solo per questo di premiarlo come personaggio sportivo dell’anno. L’assurda situazione sembra andare in questi primi mesi a tutto vantaggio di Byron, che sfruttando l’inaspettata popolarità prova addirittura la scalata politica: si candida come consigliere municipale a Quito, nell’ambito delle elezioni generali del 20 ottobre 2002, mettendo il suo volto al servizio del Partito rinnovatore istituzionale di azione nazionale, che nonostante ciò non riuscirà a vincere.
Chi invocava vendetta dovrà aspettare invece il 2010. Sono passati otto anni dal mondiale in Corea e Giappone, Moreno si è ritirato da sette.
È appena atterrato all’aeroporto JFK di New York, su un volo proveniente da Quito. Le cronache lo raccontano particolarmente teso, sudaticcio, renitente di fronte agli accertamenti che le autorità statunitensi decidono di effettuare imbeccati da una segnalazione anonima. L’ex arbitro ha in effettiaddosso sei chili di eroina per un valore di mezzo milione di dollari, e per questo verrà condannato a trenta mesi di carcere nel Metropolitan Detention Center di Brooklyn. Ne sconterà ventisei, grazie a uno sconto di pena per buona condotta, si dice, organizzando e arbitrando tornei di calcio tra detenuti… Ma questa, cari lettori, è già leggenda…
Perché mai ho accettato di stare al gioco? Per scherzo? (molto divertente…) Perché mia madre è una fuggitrice e la disoccupazione non è consona al tutore di una famiglia numerosa? (ci avviciniamo…) Mistero della mia natura profonda? (mah…) In ogni caso, ho accettato di puzzare di capro, ed è un odore che dà fastidio.
(“Il paradiso degli orchi”, Daniel Pennac)
In foto la perquisizione di Moreno dalle telecamere a circuito chiuso del JFK di New York
La storia di Moreno finisce qui, almeno per noi italiani. Con una sorta di punizione divina e tardiva. In questo modo la rimozione può realizzarsi pienamente, con le immagini a circuito chiuso del JFK di New York come risarcimento visivo e fittizio di un trauma emotivo in realtà insanabile. In questa sede, invece, scegliamo di praticare come sempre la via più difficile. Lo facciamo per viscerale curiosità nei confronti di un personaggio ancora oggi avvolto da una coltre di mistero, immune alla pornografia notiziante; un personaggio che affascina chi crede oggi, forse ingenuamente, di riuscire ad osservare con distacco l’uomo dietro al mito.
Anche dalle interviste più o meno a caldo che concede dopo il match a Repubblica e Corriere della Sera si percepisce chiaramente quanto l’ecuadoriano sia ancora, a distanza di giorni, un completo fascio di nervi, deciso a zittire qualsivoglia calunnia con piglio aggressivo e strafottente:
– Moreno, come ha dormito? – “Perfettamente. Sono tranquillo e soddisfatto del mio Mondiale”. – Riarbitrerebbe l’Italia? – “Da noi dicono: ‘El que nada debe nada teme'”. – Non è stato un po’ troppo severo? – “No, assolutamente. Ho soltanto applicato il regolamento alla lettera”. – Quindi nessun errore? – “Nemmeno uno.”
Ed è per questo che suscita più di una perplessità vederlo abbandonare di colpo quella rigida maschera per accettare, senza batter ciglio, proprio il ruolo di capro espiatorio. Lui stesso, l’arbitro infallibile, dismette ad un certo punto i circuiti da robot per flirtare con il pubblico linciaggio. Così nel periodo solitamente dimenticato dai suoi rancorosi biografi, ovvero quello che va dal fischio finale di Italia-Corea all’arresto newyorkese, Moreno compie in realtà i suoi atti più contrastanti ed enigmatici. A partire da settembre assistiamo alla comparsa di un Moreno ambiguo, discordante, disturbante come un solenne generale che strimpelli nel tempo libero l’ukulele.
Dalla galleria del Corriere della Sera
Non abbandona mai del tutto il personaggio che si è costruito – continuerà a lungo a rilasciare interviste irritanti – ma lo gioca in modalità nuova, addirittura lo cavalca quando si candida alle comunali di Quito, sbandierando il formidabile slogan “Cartellino rosso alla corruzione“. La massima espressione di questa strana doppiezza, ai limiti della schizofrenia, la possiamo cogliere però nel suo grande ritorno sui teleschermi italiani, il 9 gennaio 2003, superospite del neonato varietà di Rai Due “Stupido Hotel”, che per la cronaca dopo quella prima puntata non andrà mai più in onda.
È qui che il nostro si esibirà tra la sorpresa generale in sfrenati balletti con Carmen Russo e Lory Del Santo, vestito da arbitro, o in impermeabile tra sgangherati comici da Bagaglino. Piatto forte della serata: un’intervista-confessione con Josè Altafini.
Ed è davvero un’ingiustizia, oltre che una grave perdita per qualunque branca dell’antropologia e della sociologia, che la puntata sia oggi introvabile. Possiamo solo assaporarne le atmosfere per mezzo dello spot pubblicitario che girò sulle reti Rai nella settimana precedente la messa in onda, in cui vediamo un Massimo Boldi vestito da cuoco (senza apparenti motivi, considerando che non sarà nemmeno del programma) aizzare la folla contro l’arbitro ecuadoriano sulle note della canzone di Zucchero “Baila Morena” che storpiata diventa: “Byron, Byron Moreno, te pijasse sotto un treno!”.
In aggiunta non ci resta che una straniata cronaca del Guardian, sicuramente perplesso di fronte a uno show che possiamo immaginare distante dal gusto anglosassone: «He first appears in the programme walking on stage in a dark raincoat carrying a suitcase full of money. A couple of old men sidle up to him and hiss ‘Stupido! Cretino!’ To which he replies, ‘Gracias, gracias‘». E un racconto verosimile (sempre ad opera del Prof. Roberto Fedi) dell’intervista-confessione targata Moreno-Altafini, novelli Gianni e Pinotto dell’intrattenimento televisivo italico:
«A un certo punto, il colpo di scena. Gianni, cioè Josè, cioè Altafini, ha chiesto al Romantico Pinotto, cioè Byron, cioè Moreno, se era vero che dopo il Mondiale aveva speso molti soldi, e dove li aveva trovati. Pinottoha alzato di nuovo gli occhi tristi al cielo, e ha tirato fuori un po’ di carte. Ha detto che guadagna – quando va bene – 800 dollari al mese, che per il resto lavora nello studio legale del suo babbo, e che è vero che si è comprato una macchina, ma è una Opel Corsa, a rate; e che sì, è stato con la moglie due giorni a Miami, Florida. ‘Ah ah’, ha ghignato Gianni. E allora Pinotto-Byron ha estratto un foglio, lo ha piegato con studiata lentezza degna di Eduardo, lo ha fatto vedere alla telecamera.
“Questo è il conto: Hotel Newport, due persone, due notti”. E sotto c’era il totale: 108 dollari e 24 centesimi».
Dalle poche cronache ancora presenti sappiamo poi che la trasmissione si chiuderà con un gavettone, non si sa quanto inaspettato. Un agguato che sarà in qualche modo il preludio di un vero e proprio “tour della vergogna” a cui l’arbitro si sottoporrà volontariamente nelle settimane e nei mesi successivi. Questo comprenderà un’apparizione al Carnevale di Cento, in provincia di Ferrara, nel corso del quale Moreno verrà insultato dai presenti e colpito ripetutamente dal lancio di uova e monetine, l’arbitraggio di una finale di calcio a 7 a Bondeno, dove incontrerà nuovamente i cori e le uova degli astanti, e dulcis in fundo l’immancabile consegna del “tapiro” di Striscia la Notizia.
Col senno di poi possiamo dire che è in questo misterioso periodo che Moreno, replicando la trafila tipica di un Rei Momo brasiliano, entra definitivamente nel mito, unendo nell’odio un Paese intero. Fin quando Pasquale Scarcella, l’allora assessore allo sport del piccolo comune di Santa Teresa in Riva (provincia di Messina) decide di intitolare alla sua persona i gabinetti pubblici di Piazza del Mercato, a detta delle cronache locali “frequentatissimi nel giorno del mercatino quindicinale del mercoledì”. È così che l’odio trova anche una sorta di monumentalizzazione, che durerà fino al 2012, anno in cui i bagni verranno smantellati.
– Credevo che fossi masochista, Malaussène, per poter accettare quell’assurdo lavoro di Capro Espiatorio, ma no, in realtà sei una specie di santo.
(“Il paradiso degli orchi”, Daniel Pennac)
Arrivati a questo punto, cari coraggiosi lettori, è giunto il momento di provare a capirci qualcosa. Ed anche di interrompere la lettura di questo articolo (ma se siete arrivati fin qui, possiamo chiedervelo) e avviare in un’altra finestra del vostro browser istantaneamente un video youtube (questo). Si tratta in assoluto dell’intervista più completa mai rilasciata da Moreno su tutti gli episodi dubbi di quel famigerato Italia-Corea. L’arbitro ecuadoriano la concede nel 2019 ai suoi connazionali di “Fùtbol sin Cassette”, un canale youtube che si sta facendo largo in Sudamerica puntando tutto su interviste molto approfondite (durano in media un’ora) che rivelino l’“otro lado del fùtbol”, quello più intimo e umano.
I tre intervistatori sono posizionati su sedie di plastica all’interno di un piccolo campo di calcetto in erba sintetica, nella periferia di Quito. Tra gli intervistatori, adagiato su una sedia di egual fortuna, riconosciamo il nostro Byron. Per chi non l’avesse più visto dai tempi di Italia-Corea o dell’arresto statunitense, può sembrare strano trovarsi davanti un uomo estremamente dimesso, dal fisico ancora massiccio ma ormai distante dalla solennità di un tempo. Visibilmente invecchiato, Moreno indossa una sgualcita camicia a quadri, ma ciò nonostante sembra totalmente a suo agio in quello strano set dal sapore polveroso e insieme casalingo.
Ammette che se avesse visto la gomitata a Del Piero avrebbe espulso il fraudolento coreano, che manca anche un’altra espulsione per il fallo che costringerà Zambrotta a lasciare prematuramente il campo. Poi si dice ancora convinto del secondo giallo a Totti che, rivisto senza rancore, in effetti ci può pure stare. È una decisione al limite ma Totti sta già cadendo prima del contatto con il difensore, mentre quest’ultimo interviene chiaramente prima sulla palla. Mentre il fuorigioco farlocco fischiato a Tommasi non è ovviamente colpa sua – è il guardalinee Ratallino ad alzare la bandierina.
Ne è passata di acqua sotto i ponti, caro Byron e cari italiani…
Da quell’angolo sperduto di mondo Byron afferma inoltre che tutti i gol di quella partita “son claros”, ovvero non scaturiscono da episodi dubbi. E che in fin dei conti è ancora soddisfatto della sua personale performance arbitrale, che ebbe sì qualche pecca ma di certo non fu catastrofica. Ma è una sensazione strana quella che ci coglie adesso, dopo più di vent’anni, mentre lo sentiamo giustificare ancora quell’arbitraggio con tutto l’orgoglio di cui è capace. È la prima volta che ci sorprendiamo a pensare che incredibilmente, quell’uomo in camicia a quadri, potrebbe aver avuto sempre ragione. Ci troviamo addirittura apertamente dalla sua parte quando afferma che
“il peggior nemico dell’arbitro è la televisione… Che ha 20 telecamere mentre tu sei uno solo”.
È in questo momento che la prospettiva cambia definitivamente. Quella scrivania, quel pavimento in moquette… Siamo quasi sicuri non ci fossero fino a pochi minuti fa. Una donna in tailleur nero ci indica con un gesto della mano di seguirla, ed è ormai troppo tardi quando ci rendiamo conto di non trovarci più davanti a un pc o chini su un cellulare a guardare un video youtube, bensì dentro il modesto Ufficio Reclami di Malaussène: lì dove un Moreno segnato dalla vita è ancora costretto a giustificarsi urbi et orbi per l’arbitraggio di una partita giocatasi dall’altra parte del mondo vent’anni prima.
Ascoltando per la prima volta con un certo distacco le sue parole, ci accorgiamo immediatamente che le descrizioni di quest’uomo circolate nel nostro Paese sono sempre state tremendamente diffamatorie. Moreno non è mai stato un improvvisato, come ebbe a dire a lungo la livorosa stampa nostrana, ma un arbitro che ai tempi di Italia-Corea del Sud era già internazionale da sette anni. Con due Coppe America, tre finali di Coppa Libertadores (!) e una di Confederations Cup all’attivo. Di colpo siamo noi, tifosotti italici ancora in cerca di vendetta, a sentirci incredibilmente fuori posto. Siamo noi i patetici clientucoli che vogliono mettere il mondo a ferro e fuoco per un aspirapolvere inceppato!
Alcuni cartelli dei contestatori al Carnevale di Cento. Quel che è certo è che Byron/Malaussène ha unito il popolo italiano come non mai, che quattro anni dopo avrebbe festeggiato il trionfo mondiale. Chissà, senza Moreno, come sarebbe andata la storia
Se è vero infatti che gli errori attribuibili a Moreno a danno dell’Italia sembrano essere (solo) le mancate espulsioni di due coreani – la seconda tra l’altro, la gomitata a Del Piero, impossibile da vedere senza l’ausilio delle telecamere –, non possiamo neanche dimenticare un’altra incredibile défaillance dell’ecuadoriano, solitamente mai menzionata dalla stampa nostrana. Parliamo della mancata clamorosa espulsione del nostro Coco al tredicesimo del secondo tempo, quando il terzino italiano, nonostante l’ammonizione precedentemente rimediata, entra malissimo in scivolata sull’avversario al limite dell’area di rigore azzurra.
Badate bene, non stiamo dicendo che quella fu una partita ben arbitrata, ma che la quasi totalità delle decisioni a vantaggio dei coreani furono prese dagli assistenti di Moreno anziché da lui stesso. E dicendo ciò in realtà non scopriamo niente di nuovo, se pensiamo che persino all’indomani di quel concitato 18 giugno 2002 alcuni tra i nostri giornalisti capaci di mantenersi più obiettivi – leggi: Candido Cannavò – non parlarono di una qualificazione mancata a causa di errori arbitrali, ma di un tragico flop dei nostri beniamini:
«Vergogna, certo, dinanzi all’azione di killeraggio che l’Italia ha subito nei tempi supplementari. Ma abbiamo il dovere di dividere la storia in due parti: l’infamia e il peccato. Chiederci come, con un gol di vantaggio, abbiamo mandato al macero nei novanta minuti una vittoria che ci spettava per diritto di verità, di cronaca, di storia. Che l’Italia non abbia messo al sicuro la sua vittoria è una sorta di crimine tecnico. Nei 90 minuti nessuno ci ha rubato nulla, la vittoria l’abbiamo buttata via noi».
Candido Cannavò, “L’infamia e il peccato”. Da La Gazzetta dello Sport del 19/06/2002, presente nella raccolta “Candido Cannavò. La vita e altri giochi di squadra”
Di fronte alle telecamere l’ex-arbitro continua a confessarsi, e ora quasi piange parlando del momento più difficile della sua vita, l’arresto di New York, e di come la vita abbia però premiato il suo sforzo di rialzarsi donandogli la piccola figlia Victoria, “la gioia più grande”. Ci commuoviamo con lui quando dice di non portare rancore verso le persone che in quel momento lo hanno abbandonato, mentre “Dio e la famiglia ci sono sempre stati”. E ci sentiamo in colpa quando spiega di essere stato ingannato dalla televisione italiana, dato che lui era stato contattato solo per fare una semplice intervista con Josè Altafini, mentre gli spiegarono maliziosamente che nel Belpaese bisognava prendersi pure un gavettone per scaramanzia!
E però…. Un attimo… Dannato Moreno-Malaussene! Qualcosa continua a non tornare. Non può essere vero che non sapesse nulla dello scherzo, quelle foto con Carmen Russo e Lory Del Santo… Trasmettono complicità! Non può essere assolutamente vero se pensiamo al tour della vergogna al quale lui stesso, spontaneamente, decise di prestarsi nei mesi successivi alla messa in onda della trasmissione! Niente da fare, con Byron va così. Proprio quando pensi di aver capito qualcosa le certezze iniziano subito a sgretolarsi e non sai più se hai di fronte il più grande mitomane della storia, un bugiardo nato, oppure… Una specie di santo.
Cari lettori: che ci crediate o meno, tutto ciò è successo davvero
Un capro espiatorio volontariamente issatosi sull’altare del pubblico ludibrio per combattere da solo, contro il mondo intero, una battaglia ritenuta giusta. Una specie di Malaussène del mondo reale, che quel 18 giugno 2002 si sobbarca l’infinita possibilità di errori arbitrali resa evidente dalla presenza sempre più invadente delle telecamere, preludio della tremenda svalutazione a cui sarebbe andata inesorabilmente incontro, negli anni a venire, la figura dell’arbitro.
“Quelli che non sbagliano mai sono quelli che non nascono, quelli che muoiono e quelli che non fanno nulla”.
Byron Moreno nel corso della trasmissione “Stupido Hotel”.[1]
Una sorta di “missione” che giustificherebbe, tutto sommato, il suo ricorrere spesso a termini assolutamente filosofici per parlare dell’accaduto, così come l’anacronistica e provocatoria decisione di aprire a Quito dopo il Mondiale una scuola di arbitraggio (sic), o l’assurda pretesa di condurre un programma televisivo che analizzasse gli episodi da moviola del campionato ecuadoriano (“El pito de Byron”): lui, l’uomo nero dell’arbitraggio mondiale, a fare il Marelli della situazione.
In fondo potrebbe essere questo il significato profondo che il mito di Byron Moreno può, ancora oggi, offrire ad un calcio moderno sempre più severo nei confronti degli arbitri, presto soppiantati dalle macchine per quel loro vezzo, davvero molto umano, di sbagliare. L’arbitro ecuadoriano in questo senso sarebbe lì, con il suo esempio, a dimostrare che in fondo anche il più terribile degli errori potrebbe essere perdonato. Che se non ci si prendesse troppo sul serio (il calcio è un gioco, dopotutto) magari capiterebbe poi di farsi anche qualche risata in un Carnevale in Emilia Romagna, o in un bagno pubblico del messinese.
Forse, e diciamo forse, abbiamo un po’ esagerato con Byron…
Ma Moreno è un personaggio talmente caleidoscopico che non possiamo limitarci a suggerire qui una sola interpretazione, trascurando per giunta il suo afflato metafisico. D’altronde, come abbiamo già detto, pretendere di risolvere in un articolo l’esistenza di una persona è un esercizio che non ci appartiene, e una tra le mille spiegazioni delle sue contraddittorie gesta, ma forse la più inappellabile, è che il buon Byron abbia fatto tutto ciò che ha fatto semplicemente perché così doveva andare. Del resto, come poteva sapere che soli 120 minuti in uno sperduto stadio sudcoreano potessero essere sufficienti a stravolgere una vita intera.
Come poteva sapere di ciò che sarebbe successo dopo, del suo orgoglio portato al patibolo, dei fotomontaggi, della segnalazione anonima al JFK di New York. Forse, a ben vedere, gran parte del suo fascino risiede proprio in questa completa ignoranza di cause ed effetti, in questo suo essere in certo senso un “arbitro privo di arbitrio”, come quei giocatori “giocati” così cari al Carmelo Bene sportivo. Moreno agisce e basta. Il significato delle sue gesta, poi, non sarà mai chiaro a nessuno né tantomeno a lui stesso. Una cosa però è certa: meglio un giorno da Byron, che mille nella sala VAR di Lissone.
– Signor Malaussène, lei è fatto per questo mestiere, e solo per questo. Capro Espiatorio: è una condizione, in lei.
(“Il paradiso degli orchi”, Daniel Pennac)
[1] Frase riportata dallo scrittore Andrea Bacci nel suo libro Il buio oltre l’azzurro.