Per anni mi sono chiesto cosa intendesse dire mio nonno sussurrando, tra una forchettata e l’altra, «buono… ha un sapore antico». Come può un sapore che sorprende il nostro palato, come fosse nuovo, risultare, proprio al contrario, antico?
Guardando il cartone Ratatouille (Brad Bird, 2007), pensai di aver trovato la soluzione all’enigma. Uno dei personaggi principali, il critico culinario Anton Egò, assaggia un piatto – cucinato proprio dal cuoco topolino protagonista della storia – e, istantaneamente, torna col pensiero alla propria infanzia; un gusto così, Egò, lo aveva già provato. Dove? Tra le mura di casa, grazie alla cuoca più brava e amorevole che ci sia: la mamma.
Anton Egò assaggia la Ratatouille per la prima volta
Forse è questo che intende nonno, pensai, parlando di sapore antico. Forse il sapore antico è, per estensione, il ricordo in noi provocato da ciò che, dato un tempo per scontato, avevamo finito per dimenticare. Ecco, allora, in che senso un sapore nuovo ci sembra antico: è come se vedessimo quell’immagine, udissimo quel suono, assaggiassimo quella pietanza, toccassimo quella carne e odorassimo quel profumo perla prima volta.
Ed ecco proprio il motivo per cui, sicuro d’aver trovato la risposta, ero ignaro d’averla fuggita. Capii d’essermi illuso in un nuvoloso pomeriggio d’ottobre. È, precisamente, il 29 ottobre del 2006. Si gioca Lazio-Reggina. Ero già andato allo Stadio con mamma e zio – quest’ultimo tifosissimo del Milan; e in quegli anni, per me, era ogni volta un’autentica sciagura. Già avevo calcato i malandati gradoni dell’Olimpico, ma non m’ero neanche mai immaginato cosa significasse vedere una partita al di là della Tribuna Monte Mario. Mia madre guardava con sospetto a certi “ambienti”. La verità è che non c’era nemmeno mai stata, la mamma, in un settore popolare. Il vero motivo era proprio mio nonno, abituato – beato lui, era un altro calcio ed erano altri prezzi –, all’abbonamento fisso in Tribuna Tevere.
Quel 29 ottobre del 2006, comunque sia, mamma mi lasciò andare con il papà (Giorgio detto Giorgione) di un mio caro amico, Lorenzo. La loro concezione di Stadio, che mi colpì all’istante, era radicalmente diversa da quella a cui ero abituato. Si andava in gruppo, perché tutta la famiglia era laziale. Anche i preparativi, allora, o meglio i rituali, andavano vissuti insieme. Ed ecco allora il pranzo a base di pastasciutta, lo scambio delle “figu” coi cugini di Lorenzo e, mal celando l’attesa, la raccolta dei documenti, dei biglietti e delle sciarpe – da mettere rigorosamente intorno al collo.
Parcheggiamo, come ovvio, a chilometri di distanza dall’Olimpico. La Lazio non stava vivendo un momento magico, per usare un eufemismo; inoltre, causa Calciopoli, quell’anno partiva da -3 punti. Eppure arriverà terza, compiendo un miracolo ed entrando in Champions – da quel giorno la Lazio non ci è più riuscita. Cosa c’entra tutto questo, vi starete chiedendo, col sapore antico di cui sovente parlava mio nonno? Ancora niente, ancora non lo sapevo.
Mentre ci avviciniamo ai tornelli, Giorgione mi avvisa che in Curva e in Distinti i controllori donne hanno mani lunghe. Intanto lo zio di Lorenzo s’accende una sigaretta. Manca un’ora e mezza all’inizio della partita. Già si sente la Curva cantare – con quell’eco che ti accompagna passo dopo passo e che, se non lo vivi in prima persona, non puoi capire. Mi giro e vedo un signore con una piccola scatola sotto un braccio; nell’altro ha la mano occupata da alcune bottigliette scure. Il buffo venditore urla a squarciagola:
Caffè… Caffè Borghettiiiiii.
Incuriosito da quella voce, a me nuova, mi volto verso Lorenzo con l’intenzione di chiedergli cosa rappresenti ma, soprattutto, cosa diamine quel personaggio abbia tanto a sgolarsi. Non faccio in tempo a chiederglielo che Giorgione acquista due bottigliette, una per sé e un’altra per il fratello. Ne assaggio l’ultimo goccio rimasto.
Sapore antico.
Lazio-Reggina finirà 0-0. Quella rimane senza dubbio la partita più squallida che mai vidi in uno stadio di calcio. Una noia mortale, in campo. Sugli spalti risate, giornali accartocciati e usati, da me e Lorenzo, come palle di neve per colpire i cugini, Giorgio e il fratello. Fuori dall’Olimpico, a partita finita, l’ultimo – ed unico – protagonista rimarrà il Caffè Borghetti. Ricordo i calci a quella bottiglietta in vetro come l’Epifania di una delle mie tante vite: quella da Stadio.
Ancora non sapevo, ovviamente, cosa fosse un liquore, né che sapore avesse il caffè. Conobbi entrambi in un solo colpo. Fu come una Rivelazione. Un sapore antico. Un sapore che, mai conosciuto fino a quel momento, sentii di conoscere da sempre. Il fatto che ancora oggi non ne capisca il perché, anziché farmi dubitare di quella sensazione, la rende se possibile ancor più genuina, ancor più autentica.
Il Caffè Borghetti fu ideato da Ugo Borghetti in un periodo storico per il nostro Paese. È il 1860. Borghetti inventa una bevanda dal sapore unico, ma non vuole “bruciarla” vendendola ai clienti del proprio Bar – chiamato, guarda caso, Caffè Sport. Il destino gli viene in aiuto. Viene aperta la rete ferroviaria che collega Pescara ad Ancona e lui, cogliendo l’occasione, manda un fattorino con due thermos carichi di caffè borghetti con lo scopo di testare il gusto dei viaggiatori. La bevanda va a ruba. Il resto è storia.