Non possiamo pretendere che i giocatori siano diplomatici.
Alcuni giocatori circondano una torta molto grande, dall’apparenza quasi nuziale. Uno di loro ha in mano un lungo coltello con cui sta tagliando delle fette: i calciatori ridono, si fanno foto con il telefonino, le pubblicano sui loro profili social. Siamo nel ritiro dell’Iran e mancano pochi giorni alla prima partita del Mondiale. Nel Paese da mesi imperversano le proteste dopo l’omicidio da parte della polizia religiosa di Masha Amini, una ragazzarea di aver indossato male il velo; si tratta di una tragedia immane che sta lasciando sul terreno morti, feriti, arresti ma anche una rivolta amplificata sui media occidentali per ragioni strategiche e geopolitiche.
Qualcuno crea un video che alterna gli scatti dei calciatori davanti alla torta e le facce insanguinate di varie persone, in una folle associazione tra l’innocente letizia di alcuni ragazzi – che stanno lavorando duro per prepararsi all’occasione della vita – e il sangue dei manifestanti. Sembra uno scherzo di cattivo gusto eppure il video diventa virale: per una parte del Paese, che ha già soprannominato la squadra Team Mullah anziché Team Melli, questo gruppo di calciatori è irrimediabilmente compromesso con il regime. Giovani uomini vengono definiti insensibili, traditori, addirittura nelle strade di alcune città iraniane vengono bruciati i loro cartelloni, come se durante le tragedie, le guerre, i lutti collettivi non ci sia spazio anche per le risate e le celebrazioni; come se non fosse così la vita. Sempre, da sempre.
È solo l’inizio di una storia complicata ed assurda. Secondo i media e i social occidentali i calciatori subiscono pressioni solo dai pasdaran, i guardiani della rivoluzione, o dal giornale degli ayatollah.
I primi minacciando loro e le loro famiglie (così almeno riporta la CNN), il secondo sbattendone la foto in prima pagina, dopo la disfatta per 6-2 con l’Inghilterra, con un titolo inequivocabile: “traditori”. La verità è che, come già abbiamo scritto, i nazionali iraniani stanno tra l’incudine del governo e il martello dei dimostranti, messi all’indice da entrambe le fazioni. Loro in mezzo, strumentalizzati o attaccati dal regime a seconda dei risultati, rinnegati da molti ribelli che tifano contro la loro stessa Nazionale, colpevole di vigliaccheria e collaborazionismo. Ribelli che festeggeranno addirittura l’eliminazione con gli USA, tra urla e fuochi d’artificio, come evidenziato dai social e da articoli (con video annessi) come questo.
La vicenda dell’Iran al Mondiale del Qatar si contraddistingue per questo clima surreale, degno di una sceneggiatura: la storia di come un gruppo di calciatorisia costretto a sopportare una pressione extra sportiva ingiusta e tremenda. Già alla vigilia della manifestazione Carlos Queiroz, l’esperto tecnico portoghese amatissimo dagli iraniani, aveva dovuto rimandare la comunicazione alla stampa della lista dei convocati. Sembra – utilizzeremo molto questo termine, perché in questa storia non ci sono certezze ma solo ipotesi fragili, talvolta contraddittorie – che il regime di Khamenei volesse depennare dalla lista sei calciatori, segnalati per essersi espressi a favore delle proteste: fra questi la stella Azmoun, che gioca in Germania nel Bayer Leverkusen.
Sembra, ancora, che Queiroz abbia minacciato le dimissioni in un tempestoso colloquio con il presidente della federazione, ma soprattutto che la FIFA sia intervenuta ricordando le sanzioni previste in caso di ingerenze dirette del governo: alla fine l’epurazione sarebbe rientrata eppure, in qualche modo, è passata l’idea insensata che i calciatori si siano lasciati comprare. In questo trambusto mediatico Queiroz ha preferito mantenere un profilo basso, evitando prese di posizione pubbliche e cercando di concentrarsi sul calcio, scontrandosi inevitabilmente con un contesto in cui si sta giocando un’altra gara, degna di un’analisi geopolitica.
Geopolitica, ritorna questa parola: fino a pochi mesi fa, prima dell’invasione russa in Ucraina, una disciplina di nicchia, para-scientifica. In una recente intervista su Repubblica il suo maggiore esponente in Italia, il direttore e fondatore di Limes Lucio Caracciolo, sosteneva che «geopolitica era un termine proscritto fino a pochi anni fa. Era considerata materia nazistoide. Ma finalmente hanno capito che non è una scienza sulfurea e diabolica; che non parte con un giudizio morale ma dall’analisi dei punti di vista differenti, e degli interessi delle parti che si confrontano».
Ora se ne discute in prima serata, sono nate nuove riviste sul tema e alcuni analisti hanno ottenuto un’improvvisa celebrità. Così sempre più spesso si parla, anche impropriamente, di soft power, della politica fatta attraverso mezzi non militari né diplomatici: dalla moda alla cucina, dalle serie televisive alla musica. Il calcio rientra pienamente negli strumenti disponibili, come dimostra l’operazione Qatar cominciata con l’acquisto del PSG, con cui gli emiri si sono aperti le porte dell’economia francese. L’Iran da parte sua, in un simile contesto e nel mondiale più politico possibile, finisce proprio in un girone creato dal destino per implicazioni extra calcistiche, avendo come avversari Usa e Inghilterra.
Prima dell’esordio con l’Inghilterra tutti si chiedono come si comporteranno i tifosi allo stadio, cosa faranno le guardie di sicurezza (ricordando anche la stretta relazione tra Iran e Qatar), quale atteggiamento avranno i calciatori in campo.
Le domande dei giornalisti inglesi nelle conferenze stampa sono insistenti, mentre Queiroz la butta in calcio d’angolo cercando di evadere le più spinose e a volte contrattacca, infilzando gli inglesi sulle colpe del loro passato coloniale e sulla loro ipocrisia. I dubbi sul comportamento dei calciatori vengono quindi sciolti all’esordio, quando restano zitti durante l’inno nazionale: sembra sia stata una scelta mediata fra anime diverse dello spogliatoio, e d’altronde che non ci sia unanimità lo dimostra in panchina il primo assistente di Queiroz, che invece l’inno lo canta. Intanto dagli spalti si sentono sonori fischi ma anche fragorosi applausi, nessuno capisce bene chi fischi cosa e perché.
Sono iraniani favorevoli al regime – in fondo l’Iran è una teocrazia con un importante sostegno popolare, cosa che raramente si racconta sui giornali – che se la prendono con i calciatori silenti oppure partigiani delle proteste che fischiano l’innocome gesto di ribellione? E quanti di quei fischi sono invece del pubblico locale? E poi, si può parlare seriamente di pubblico locale in una nazione dove gli stranieri residenti sono l’85 per cento? Insomma la verità non la sapremo mai, di certo sappiamo come vengono confiscate magliette e cartelli di protesta dagli zelanti guardiani dell’ortodossia qatarina, che è d’altronde solo l’altra faccia della FIFA: in prima linea nel promuovere slogan vagamente progressisti quanto solerte, in nome di una neutralità vigliacca, nell’impedire la libera espressione dei calciatori.
È una protesta potente eppure molti in Iran continuano a considerarla troppo timida, come se non fosse già incredibile (e coraggioso) accordarsi su un atto simile: come se ogni calciatore dovesse essere per forza da una parte, come se fosse facile esserlo. D’altronde, l’insoddisfazione perpetua verso le gesta umane dei calciatori sembra essere il leit motiv di questo Mondiale. Passato il clamore, bisogna giocare e gli iraniani dimenticano come si fa, venendo completamente annientati dall’Inghilterra. Il risultato finale è di 6-2 e al termine dell’incontro Taremi, professione attaccante, uno dei migliori della squadra, dice:
“È stato tutto fuorché calcio, troppe questioni ci circondavano”.
Non sembra il solito alibi del post-partita. I giorni seguenti sono segnati dal disappunto del regime verso questa esibizione pubblica di infedeltà, regime che si dice sia passato alle minacce di ritorsioni contro i familiari dei calciatori: sono voci incontrollate, non verificabili, ma di certo l’umiliazione sportiva non ha fatto piacere. Nella seconda partita i calciatori cantano l’inno, alcuni a denti stretti, letteralmente; le telecamere inquadrano dei tifosi iraniani che piangono disperati, sembra il prologo di un crollo sportivo ed invece l’Iran ritrova il filo perduto, domina il Galles e lo sconfigge nel recupero per 2-0. I calciatori fanno più volte il giro del campo, regalando magliette e prendendosi il meritato tributo dei loro tifosi. Quindi l’autore del gol Chusmi, dopo la partita, afferma:
«È giusta la pressione quando riguarda il gioco, ma noi abbiamo ricevuto pressioni che non hanno nulla a che vedere con il calcio».
La sorprendente vittoria cambia di nuovo la prospettiva: lo stesso regime invia segnali di distensione e libera 700 prigionieri politici; ora che la sfida è contro il nemico di sempre – gli Stati Uniti – e si gioca per il passaggio storico agli ottavi bisogna dimostrarsi compatti. L’unica volta che si erano scontrati ai Mondiali era stato in Francia, nel 1998, in una partita giocata all’insegna del fair play malgrado le tensioni dei mesi precedenti. Una foto, passata alla storia dello sport, li aveva ritratti come amici a scambiarsi rose bianche; e a prevalere, oltre alla diplomazia, era stato l’Iran per due a uno. Una vittoria inutile, con le due squadre già eliminate, che però Khamenei aveva rivendicato propagandisticamente: «Il nemico è grande e arrogante e gli abbiamo fatto provare di nuovo l’amaro sapore della sconfitta».
In questa vigilia in Qatar non sono mancate le provocazioni inutili, più da parte statunitense a onor del vero: dal proto-razzismo dialettico di Klinsmann alla mossa della federazione statunitense, che ha pubblicato la bandiera iraniana senza il simbolo islamico in un goffo appoggio ai diritti delle donne. Per fortuna, in conferenza stampa il tecnico Usa Berhalter e il capitano Adams hanno abbassato la tensione. A inizio partita, poi, l’inno iraniano è nuovamente cantato dai calciatori. La regia internazionale stavolta riprende solo volti sorridenti: torna il ruolo da pseudo Nazioni Unite della FIFA, mentre le donne iraniane mostrate hanno rossetti accesi e rimmel, e i colori della bandiera sulle guance; i loro volti ci ricordano che, per fortuna, l’Iran non è l’Arabia Saudita.
La partita scorre liscia, senza nemmeno tanti falli né proteste, l’arbitro spagnolo Mateu Lahoz dirige un confronto molto più semplice dei clasicos che gli toccano di solito. Vincono meritatamente gli Stati Uniti ma sul campo, oltre alla gioia dei vincitori e la tristezza degli sconfitti, restano anche le scorie di una partita che ha significato (purtroppo) molto di più; innanzitutto una pressione psicologica inimmaginabile e in parte traumatica a cui sono stati sottoposti i giocatori iraniani. Pensiamo a Ezatolahi, che il giorno dopo la sconfitta con gli Stati Uniti ha condiviso sul suo profilo Instagram – vestito a lutto – una storia per un suo amico ucciso, secondo alcuni attivisti dalle forze di sicurezza proprio per aver festeggiato in strada la vittoria americana.
“Questo non è quello che la nostra gioventù merita. Questo non è quello che la nostra Nazione merita”, ha scritto il numero 6 dell’Iran.
Questa storia, come ogni favola al rovescio, nasconde una morale. Nel Mondiale abbiamo mischiato impunemente calcio e politica dimenticando che i giocatori non sono né diplomatici né opinionisti (come ribadito da gente come Xhaka e Hazard). Non che il calcio debba tenersi a distanza dalla politica, anzi: per noi lo sport è cultura, e come tale politica, società, identità. Però non ci sogneremmo mai di pretendere dagli sportivi una testimonianza politica, a tutti i costi. Ora invece siamo sempre pronti ad analizzare le posture ed ogni minimo gesto, rimproverando i giocatori di non fare abbastanza, di non essere abbastanza “consapevoli”.
Così il calcio sta diventando vittima di divisioni che ne minano l’essenza e stravolgono lo stesso concetto di tifo, perfino in quell’angolo sacro che erano le nazionali. Ai calciatori una volta si chiedeva di trasmettere gioia, ora invece si pretende che ci diano modelli: di più, si decide preventivamente quali siano, e perfino quando e come debbano adottarli. Non poteva essere più chiaro allora Carlos Queiroz, intervistato alla fine dell’incontro perso con gli Stati Uniti, che nella sua semplicità ha espresso un concetto basilare: «Il calcio serve per rendere un po’ felici le persone, non può certo risolvere i problemi del mondo». Amen.