“L’interazione social(e) è vista come un dramma, in cui vi sono gli attori che interpretano non tanto un personaggio inventato, quanto loro stessi, cercando di rappresentare chi credono di dover essere o sperano di riuscire ad essere, a seconda del palcoscenico sul quale si recita e a seconda del pubblico che osserva”.
Erving Goffman non è stato solo un grande sociologo ma un eclettico studioso (si direbbe quasi pirandelliano) dei comportamenti umani. Goffman amava analizzare i suoi cases dal vivo, travestendosi talvolta da cameriere nei ristoranti, talaltra da tifoso alle partite di baseball. Fu proprio l’ambito sportivo a suggerirgli un titolo: la vita quotidiana come rappresentazione. Sì, perché a sua detta gli atleti professionisti espletavano, ad alti livelli, quella kermesse teatrale che ciascuno, nel proprio piccolo, mette in scena quotidianamente.
La prestazione, il copione da recitare per raccogliere una moltitudine simultanea di consensi, dapprima in squadra e poi nella platea. L’atleta ad oggi è rivestito di una terza componente esterna: i mass media. Se in passato erano i media a raccontare lo sportivo, oggi è costui a doversi raccontare all’impero mediatico. Indubbiamente, sia per risonanza che per peso commerciale, il mondo del calcio risulta la vittima principale di tale trend. Il pallone ha sempre seguito, in un rapporto eroticamente tossico, le orme della globalizzazione preponderante, ritrovandosi spesso e volentieri a modificare la sua natura in nome del business.
Riprendendo autorevoli economisti, la spinta globalizzante è armata dalla facilità di comunicazione con cui le informazioni, merce fondamentale, riescono a viaggiare mediante la rete. In gergo, l’unbundling, vale a dire la dislocazione di una determinata impresa in diverse catene sparse per il globo (e unite dalle comunicazioni), si riflette ahinoi anche sul calcio. Il calciatore non solo è tenuto a dimostrare il suo valore agli occhi dei tifosi locali, ma dopo il triplice fischio inizia per lui la competizione mediatica con cui spendersi sui nostri cellulari.
Così come un’azienda italiana propone il pesto a una clientela araba ignara del sapore, il giocatore deve offrirsi alla platea internazionale che non l’ha mai visto giocare. Stiamo assistendo man mano a una miriade di prodotti generati dalla suddetta visione, con il risultato di prezzi di mercato ingiustificatamente gonfiati. Partendo dalla punta dell’iceberg, occupata da Vinicius Jr e Joao Felix. Giovani promettenti, che non hanno nemmeno accarezzato in performances le cifre dei relativi ingaggi, ma continuano ad accumulare followers su Instagram.
Potremmo proseguire con Adama Traorè, propugnato ossessivamente su ogni feed per la sua muscolatura, indice di una presunta validità calcistica. A seguire Moise Kean, prospetto rintontito da milioni di seguaci e perso in un’illusoria schiera di sponsorizzazioni e marketing, che lo porta a vestire casacche immeritate. La bolla speculativa attorno a tale sistema infelice si gonfia di stories in stories, da un post all’altro. E a guadagnarci c’è un intero settore, a lungo sottovalutato, eppure onnipresente e soprattutto eterogeno, i Social Media Manager. Grafici, copywriter e via discorrendo, operai digitali celati dietro account dal valore economico impressionante, bordelli online della pubblicità più o meno occulta, prostituiti al dettame di brand e società.
433, la Lehman Brothers delle pagine calcistiche, detiene il monopolio del settore. Collaborazioni progressivamente meno evidenti, onorate con pubblicazioni riguardanti inutili aspetti di un calciatore quali famiglia o tempo libero, suggeriscono l’architettura strategica alla base. La page olandese ha negli anni evidenziato, sfruttando la propria influenza, il concetto calcistico distorsivo che le nuove generazioni possiedono e ricercano. Calciatori videogamers di giochi dei quali, improvvisamente, diventano copertina; talenti dell’ultim’ora a cui basta una giocata per guadagnarsi la gloria eterna.
Purtroppo, mentre i grandi nomi cercano di eludere la macchinazione mediatica, i “pesci piccoli” annaspano contornandosi di esperti del settore. Foto lanciate attimi dopo il termine della partita, filmati di spogliatoi in festa che restituiscono una finzione lacerante data la sacralità del luogo. Un esempio è il portiere dell’Arsenal Martinez che piange in videochiamata dopo il trionfo in FA Cup. Il cartogramma del calciatore influencer comincia da David Beckham innalzando vertiginosamente la retta odierna, dove finanche la vita privata di quest’ultimo è un prodotto da vendere.
Nutrendo videomaker e addetti ai lavori, osserviamo calciatori postare contenuti inerenti al “lifestyle”, dalla trama degna del Giovin Signore di Parini; protagonisti fra i tanti Benzema, Depay, Ribèry, Theo Hernandez e consorte.
Oggigiorno un calciatore privo di profili social annega nel baratro dell’esclusione mediatica, e ciò non vale nemmeno solo per gli atleti in attività. Persino vecchie glorie come Ciccio Graziani e Roberto Baggio sono costretti a stare, affannosamente, al passo coi tempi, in una deriva che investe e unisce generazioni diverse nel segno del virtuale.
Fortunatamente, i pochi “folli” esuli dai social sono nostrani: Beppe Marotta e Max Allegri hanno salutato Twitter e Instagram dichiarandone la dannosità in un contesto squadra. In sostanza, le uscite turbinose sono all’ordine del giorno per calciatori e tecnici, vagabondi alla vista delle bufere di commenti che ognuno di noi ben conosce. Una tastiera, un hashtag, strumenti dell’opinione pubblica che riversa collera e sentimenti che non si potrebbero esprimere vis a vis. Dall’altro lato, l’ambizione di un calciatore che intravede in un’icona la fama, a portata di mano, o di scatto. Un’intifada digitale: a chi scaglia la prima pietra, e il primo commento.