Vincenzo Di Maso
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Vincenzo Di Maso
13 Maggio 2020
La dittatura del colonnello Lobanovsky
Un uomo geniale che non potrebbe convivere con il calcio odierno.
La storia del calcio in Portogallo è indissolubilmente legata alle squadre di Lisbona. Certo il primo campionato a girone unico, nel 1934-35, vide trionfare il Porto ma ben 28 delle 40 successive edizioni furono vinte dalle due compagini di Lisbona. Parliamo naturalmente di Benfica e Sporting, entrambe fondate all’inizio degli anni ’10 del secolo scorso.
«Non sono Benfiquista nel cuore, perché prima o poi il cuore si ferma. Sono Benfiquista dell’anima, perché è eterna».
Parole e musica di Cosme Damião, il fondatore del Benfica, squadra più titolata di Lisbona e di tutto il Portogallo. Eppure le águias non vennero fondate con questo nome. Lo Sport Lisboa e Benfica (nome completo) è il prodotto della fusione tra due club: Sport Lisboa, un club di calcio fondato nel 1904 in una farmacia di Lisbona (per l’esattezza nel quartiere di Belém), e Sport Clube de Benfica, fondato nel 1906 (come Grupo Sport Benfica) la cui attività principale era il ciclismo – per questo motivo tutt’ora nello stemma della squadra c’è una ruota.
Negli stessi anni José Alfredo Holtreman Roquette, meglio noto come José Alvalade, giovane aristocratico laureato a Harvard, si era prefissato l’obiettivo di creare un’associazione polisportiva che diventasse “grande, la più grande d’Europa”. Il nome scelto per la squadra, immutato ancora oggi, fu Sporting Clube de Portugal. La curiosità è che nella denominazione non è presente alcun riferimento al calcio o alla città: il vero “Sporting Lisbona”, come la squadra fondata da Alvalade è erroneamente nota in Italia, è invece il Benfica, come spiegato sopra.
La squadra nacque dalle ceneri dello Sport Club de Belas, che a sua volta era nato nel 1902 (tra i suoi soci fondatori figuravano i fratelli Francisco e José Gavazzo, di origini italiane). Sciolta l’associazione, fu fondato il Campo Grande Football Club presso la pasticceria Bijou a Lisbona nel 1904. Dopo un altro paio d’anni, tuttavia, sorsero dissidi “societari”: così José Alvalade prese in prestito denaro dai suoi nonni per contribuire a creare una squadra indipendente. Lo fece insieme a più di trenta altri “dissidenti”, tra cui i fratelli Gavazzo, e così il 15 aprile 1906 fu ufficialmente fondato lo Sporting Clube de Portugal.
Il primo capitolo della rivalità cittadina ebbe luogo solo un anno dopo, nel dicembre 1907, e la vittoria andò ai Leões di Alvalade, i quali annoveravano tra le proprie fila ben sette ex giocatori proprio del Benfica. Se però in campo le squadre si equivalevano, per quanto riguardava gli stadi non c’era paragone: il campo fangoso del Benfica, il Terras do Desembargador, non poteva neanche lontanamente competere con quello del ricco Sporting, il Sítios das Mouras, considerato il migliore del Portogallo all’epoca.
Il primo vero stadio in cui il Benfica giocò fu l’Estádio das Amoreiras, nel 1925. È qui che un giovanissimo José Saramago, socio del Benfica dagli otto anni di età, si recava a guardare le partite delle águias; egli si sarebbe poi (in parte) disaffezionato al calcio, uno sport che a suo parere andava via via perdendo l’essenza originaria, trasformandosi in business spietato. Eppure Saramago, autore tra le altre opere di Viaggio in Portogallo, il Vangelo secondo Gesù Cristo, Terra del peccato o Cecità, in realtà non riuscì mai ad allontanarsi del tutto dal pallone. Tifosissimo della nazionale, una volta disquisì con Figo a seguito di una sconfitta.
«La sconfitta ha qualcosa di positivo: non è definitiva. In cambio, la vittoria ha qualcosa di negativo: non è mai definitiva».
E sta qui il potere del calcio, malgrado le perversioni contemporanee: nel contorno, nel fenomeno sociale. Durante le sue visite agli stadi, non a caso, Saramago filosofeggiava soprattutto su quelli che definiva gli eroi degli spalti. In fondo, cos’è un tifoso da stadio se non “l’elogio della cecità?”. Il pubblico ripeteva compulsivamente il segno della croce, chiedendo a Dio di far vincere la propria squadra, ed era proprio questa ritualità sacra ma profana a colpire profondamente lo scrittore portoghese. Ecco perché quando un amico lo interrogò sul suo ateismo, egli rispose: «Cerco un segno di Dio tutti i giorni, ma non lo trovo», facendo poi subito l’esempio dei tifosi. Il loro segno della croce, sostanzialmente, non serviva a nulla.
Quando Saramago era giovane, però, il calcio stava ancora diventando uno sport di massa nella città del fado, dei pasteis de nata (rigorosamente al maschile e non al femminile) e del baccalà. Per l’evoluzione del Portogallo a livello calcistico fu invece fondamentale la figura del dittatore Salazar, al quale tra l’altro Saramago si oppose strenuamente e da cui fu sempre censurato. Ma tralasciando il pallone, António de Oliveira Salazar fu inevitabilmente un uomo decisivo per le sorti lusitane: prima nominato Ministro delle Finanze dal generale Manuel de Oliveira Gomes da Costa nel 1928, a seguito del colpo di stato avvenuto due anni prima, quattro anni dopo divenne Primo Ministro, inaugurando 38 anni di austera dittatura.
Come Francisco Franco, Salazar non era appassionato di calcio, ma sfruttò l’arte pedatoria facendola addirittura rientrare nella sua propaganda FFF: Fado, Fatima e Futebol (il Fado è un tipo di musica popolare portoghese, Fatima è un santuario dove si narra che la Vergine Maria sia apparsa a tre giovanissimi contadini, mentre il Futebol non ha bisogno di presentazioni). Come tanti leader politici, si rese ben presto conto quanto i circenses fossero decisivi per il consenso popolare. Così fu anche per il Fado, utilizzato in maniera opportunistica dall’Estado Novo: Salazar detestava questo genere musicale, e si spinse a definire la leggendaria ed iconica fadista Amália Rodrigues “criaturinha” (traducibile con persona insignificante).
Il calcio era una vera e propria arma di distrazione di massa per una nazione dilaniata da miseria e povertà. Le “tre F”, politicamente e socialmente, divennero allora un marchio della società portoghese nel regime di Salazar.
A differenza di quanto riportato in qualche cronaca recente, Salazar non aveva predilezione per alcuna squadra, tantomeno per il Benfica. Negli anni del regime l’allenamento delle squadre si svolgeva nel tardo pomeriggio, essendo i calciatori costretti a trascorrere la giornata a lavorare altrove (il professionismo, allora, non era contemplato). Le società di calcio, tra l’altro, non erano nemmeno tenute a pagare i contributi di previdenza sociale, e potevano trattenere i calciatori anche dopo la scadenza del contratto: bastava loro offrire solo il 60% dello stipendio offerto da un altro club, in quella famosa “legge sull’opzione” promulgata da Salazar e soppressa a seguito del 25 aprile.
E a proposito di Salazar, fu quest’ultimo nel 1965 a vietare al Benfica di recarsi in Unione Sovietica, roccaforte del comunismo, per giocare una partita amichevole con lo Spartak Mosca: un club fondato come sezione sportiva di un sindacato operaio e che prendeva il nome da Spartaco, schiavo romano leader di una rivolta contro i governanti per ottenere l’agognata libertà, non era un ospitante adatto per il governo portoghese.
E allora peggio per i moscoviti, che volevano vedere da vicino il Benfica di Eusébio, Mario Coluna, Antônio Simões e José Augusto: la PIDE bloccò il tentativo sul nascere e applicò una multa salatissima all’organizzatore Albino André. Ciò rende l’idea della ferrea regolamentazione a cui doveva sottostare il calcio, dimostrando anche che qualsiasi notizia sulla predilezione del regime per il Benfica è una leggenda metropolitana.
Durante la dittatura di Salazar le squadre di Lisbona dominarono tirannicamente, con il Porto che riuscì a interrompere il duopolio Benfica-Sporting solo tre volte negli anni ’30 e due volte negli anni ’50. In quei decenni, però, una terza squadra di Lisbona era riuscita a vincere il titolo: il Belenenses, società fondata presso una panchina del quartiere Belém nel 1919, a circa 200 metri dalla farmacia Franco, luogo di nascita del Benfica. Quel Clube de Futebol Os Belenenses che fu la prima compagine portoghese a giocare in Europa, e la prima avversaria in assoluto del Real Madrid al Bernabeu (1947).
Lo scenario che si può ammirare dall’Estádio do Restelo, con vista sul Tago, è in realtà di struggente bellezza. Nello stemma della squadra è presente la Cruz de Cristo, la “Croce di Cristo”, chiaro riferimento alla città santa di Betlemme, da cui prende il nome il quartiere di Lisbona. Cruz de Cristo che figura anche sulla Torre di Belém e nel Jardim da Praça do Império, situato nei pressi della tomba di Vasco da Gama.
«Non ci sono per me fiori che siano pari al cromatismo di Lisbona sotto il sole. Ho l’abitudine di camminare per le strade guardando a destra e a sinistra e talvolta dietro di me. E ciò che vedo è ciò che non avevo mai visto prima».
Questi versi di Fernando Pessoa riecheggiano mentre si percorre l’Avenida Marginal nel paesaggio marittimo mozzafiato per Oeiras, sede dell’Estádio Nacional do Jamor (i tifosi di Celtic e Inter lo ricorderanno sicuramente, in quanto fu la sede della finale della Coppa dei Campioni 1967). Tuttavia questo impianto, inaugurato nel 1934 sotto il regime di Salazar, non è la “casa” di nessuna squadra di club. Il Jamor è sede invece della Coppa di Portogallo, e l’unica tradizione che oggi mantiene è il rituale picnic con i tifosi delle due squadre finaliste.
Lo stadio di Jamor ha ospitato però le esibizioni del miglior Sporting della storia. Durante la Seconda Guerra Mondiale – conflitto in cui il Portogallo si era dichiarato neutrale, ragion per cui le competizioni calcistiche nazionali continuarono – cominciò a formarsi il leggendario quintetto dei Cincos Violinos dello Sporting: la stella di quella leggendaria squadra era Fernando Peyroteo, calciatore nato in una colonia portoghese (l’Angola), giunto allo Sporting nel 1937 e considerato all’unanimità il miglior calciatore della storia della compagine di Alvalade.
A seguito del ritiro dal calcio giocato, avvenuto relativamente presto, all’età di 31 anni, Peyroteo ritornò nella sua nativa Angola prima che gli venisse offerto il posto di commissario tecnico della Seleção portoghese nel 1961. Sebbene la sua avventura da CT fu un autentico fallimento (il fondo fu toccato con la sconfitta contro il Lussemburgo), Peyroteo fu il tecnico che fece esordire un altro calciatore nato in un ex colonia, precisamente in Mozambico, il quale segnò al debutto. Quel ragazzo avrebbe poi segnato 580 gol in 575 partite con le squadre di club, e si guadagno soprannomi eterni come “La Pantera Nera”, “La Perla Nera”, o semplicemente “Il Re”.
Stiamo parlando naturalmente di Eusébio da Silva Ferreira, che fece le fortune di Portogallo e Benfica.
E a proposito delle colonie portoghesi in Africa, nel Benfica molti calciatori erano dichiaratamente a favore della loro liberazione. Pensiamo al centrocampista Mário Coluna, nato nell’isola di Inhaca, in Mozambico, e all’ala destra Joaquim Santana, nato a Lobito, in Angola. Vale la pena ricordare anche Antonio Simões, che lottò per il professionismo nel calcio e fu sempre ostracizzato dal regime di Salazar.
E invece Eusébio? Partiamo dal presupposto che per l’Estado Novo le colonie d’oltremare erano un vanto, come un vanto era poter contare sul miglior calciatore che giocava in Europa. Per questo il dittatore portoghese trattò sempre con i guanti la Pantera Nera; Eusebio, da parte sua, era un personaggio assolutamente affabile e pacifico, nonché poco incline a certe battaglie. D’altronde, secondo quanto riportano vari studi sulla politica coloniale portoghese, il razzismo era un elemento pressoché assente nel regime.
In Portogallo è invece stato sfatato il mito secondo cui Salazar in persona avrebbe impedito lo sbarco di Eusébio in Italia. Nel 1962/1963 la Pantera nera aveva in realtà l’accordo con la Juve, ma il suo approdo fu bloccato dal servizio militare obbligatorio. Qualche anno dopo lo chiese l’Inter, ma la FIGC aveva chiuso le frontiere per lo sbarco di calciatori stranieri.
Il dopoguerra vide allora Sporting e Benfica contendersi i calciatori di origini africane. Le colonie portoghesi dell’Angola, del Mozambico, delle isole di Capo Verde e di Sao Tomé e Principe erano un formidabile bacino di portoghesi di seconda o terza generazione che, dopo la Revolução dos Cravos (Rivoluzione dei Garofani) del 1974, hanno cambiato radicalmente il gioco del calcio. Salazar stesso, che tutto era fuorché razzista, utilizzò a suo vantaggio l’approdo in Portogallo di calciatori dalle colonie: il dittatore colse invece la palla al balzo per guadagnare ulteriori consensi, facendo leva sul contributo decisivo dato dai calciatori provenienti dall’ultramar.
Insomma non si può negare l’impatto dell’Estado Novo, con tutti gli effetti collaterali del caso, sul calcio a Lisbona e in Portogallo.
Senza la politica sportiva utilitaristica e opportunista di un regime tanto spietato quanto astuto, che ha unito l’utile al dilettevole, probabilmente Lisbona e il Portogallo non avrebbero raggiunto certi risultati a livello calcistico. In questo processo di “civilizzazione” forzata negli anni del regime salazarista, il calcio divenne popolare e si identificò sempre di più con l’ethos portoghese. Mantenendo chiari elementi di manipolazione governativa il calcio in Portogallo e, in particolare a Lisbona, assunse sempre più le sembianze di un elemento identificativo, trasversale, divenendo infine un rito collettivo e autenticamente popolare.