Editoriali
07 Luglio 2023

Ridateci l'innocenza del calcio d'agosto

Basta tournée intercontinentali, rivogliamo i tornei arcitaliani!

L’estate italiana, così trasognata, poetica e flaianesca, non si presta certo all’agonismo. La bella stagione, vera e propria controra esistenziale, segna il tempo in cui la lentezza vince l’attività, la pigrizia domina sull’intraprendenza e il tempo delle ferie su quello delle rivalità; è così soprattutto per gli Italiani, popolo balneare ed errante per vocazione. Per i calciofili è la stagione del calcio d’agosto, compromesso mai davvero raggiunto tra la canicola e la tattica, l’afa e il bel gioco.

C’è stato però un tempo in cui il calcio sapeva insinuarsi nella stagione così bella e così sacra alla maniera italiana, strapaesana e sorniona, risolvendo il conflitto tra l’anima calcistica e quella vacanziera di un Paese intero. Era la stagione dei trofei d’agosto trasmessi in chiaro sulle reti Mediaset, con gli acuti di Sandro Piccinini a ridestare dal torpore i tifosi di ritorno dalla spiaggia. Il calcio agostano era (ed è) il crocevia tra una stagione trascorsa e una in procinto di iniziare, trait d’union tra delusioni ancora vivide, sogni di gloria e mitomanie per l’annata a venire.

Gli esordi di giocatori ignoti quanto improbabili, gli innesti di mercato e qualche ridimensionamento tecnico-tattico facevano dei minitornei l’espressione di un calcio godibile perché frivolo e totalmente inaffidabile, giocato in un tempo come sospeso che Patrizia Cavalli definirebbe di promessa e nostalgia. Precursore di un rituale così italiano fu Silvio Berlusconi, l’arcitaliano per eccellenza (Buttafuoco docet), che nel 1991 fondò l’omonimo Trofeo col duplice obiettivo di onorare la memoria del padre e creare un prodotto mediatico originale e accattivante.



Semplicissimo il format – una partita, tendenzialmente Milan-Juve, che si risolveva ai rigori in caso di parità – ma non per questo privo di emozioni, come quando nel ’95 un San Siro commosso congedò un sublime e fragilissimo Van Basten costretto al ritiro. Luci a San Siro, di lacrime calciomercato e drammi: gli esordi di Kluivert, Gullit e Donnarumma, l’infortunio di Buffon nel 2005 e il conseguente prestito di Abbiati da parte dei Meneghini. Tra immancabili iettature e scaramanzie strapaesane, aleggiava un’italianissima diceria per cui i vincitori del trofeo non avrebbero poi vinto lo scudetto.

Al “Berlusconi” si aggiunse, nel ’97, il Trofeo Birra Moretti: dopo uno spettacolo di apertura (nel 2007 si esibì Lucio Dalla), tre squadre si affrontavano al fu San Paolo in un triangolare da 45 minuti a partita. Le rimesse coi piedi, i sette cambi, i corner corti e gli americanissimi shootout ne facevano un torneo vivace nella formula ed “esotico” nelle suggestioni.

A riprova delle aspettative che tali appuntamenti sapevano generare, vale la pena di soffermarsi sui venti giornalisti giapponesi accorsi appositamente nel 2003 per Atsushi Yanagisawa, allettante promessa sampdoriana la cui carriera blucerchiata, ahiloro, si risolverà senza marcature. Completa il trittico dell’italico calcio agostano il Trofeo Tim, le cui cifre dimostrano il logorio di tali formule, con il crollo verticale dell’indice di share dal 33% della prima edizione (2001) al 6% dell’ultima nel 2016.

Tutte le tre manifestazioni sfumarono dunque nel tempo, gradualmente eclissate da calendari bulimici ed incapaci di reggere il confronto con le milionarie tournée intercontinentali: basti guardare l’Inter in Giappone, la Roma in Corea (torunée poi annullata perché i soldi promessi non sono arrivati), Juve e Milan in America per capire in quali direzioni vada il calcio, lontano dalla popolarità e dal folclore, con tifosi intercambiabili o addirittura inconsapevoli (Qatar 2022).



Tra promesse mancate e nostalgie innecessarie, i Trofei Berlusconi, Moretti e Tim erano nostri e nostrani, perché, italianissimi, ci accompagnavano nell’essere balneari e svogliati, illanguiditi dalle ferie e lusingati dal mare e dal sole più che dal pallone, pur sempre con un occhio – al contempo scettico e mitomane – sul rettangolo verde. Oggi che le nostre (?) squadre emigrano per fare branding, giocando ad orari improponibili in località più adatte ad un film di Vanzina che al calcio, restiamo come feriti nell’animo strapaesano.

Disincantati, orfani di tutte le inutili illusioni e delle promesse insolvibili delle serate d’agosto, ci ritroviamo senza più idoli da ammirare di ritorno dal mare, quando nei chioschi o sul balcone scrolliamo la sabbia dai piedi o leniamo la pelle dalle scottature. In fondo, se ha ragione Arrigo Cipriani quando sostiene che “l’Italia è il Paese delle ferie”, è perché l’estate italiana, oltre che agli amici, agli amori e alla vita, sa donare fascino e poesia pure al calcio.

«Noi non vogliamo abolire la modernità, non siamo nostalgici di nessun secolo passato; soltanto ci piacerebbe vedere il nostro secolo più in armonia con lo spirito tradizionale italiano, coi costumi, con la mentalità, con le consuetudini proprie della nostra gente e radicate nelle nostre generazioni».

Mino Maccari, Breviario, in “Il selvaggio”, 1927

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Matteo Zega

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